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La Nevrosi è morta

Post n°499 pubblicato il 22 Gennaio 2010 da mjkacat

Sappiamo che nel corso della storia le forme del malessere, della sofferenza
e dei vissuti soggettivi relativi, evolvono e mutano; ciò che sta accadendo
oggi, è qualcosa che ha a che fare con una "mutazione epocale";

La complessità, del tutto naturale del vivere, è diventata patologica.
Esiste oggi una reale incapacità a farsi carico di situazioni di angoscia
così ampia e generalizzata.

 E' evidente a tutti noi che ci troviamo a vivere immersi in una "atmosfera
esistenziale" carica di insicurezza, di incertezza per il futuro, con
diffuso senso di impotenza : Il fatto importante, tuttavia, è che, anche
noi, "specialisti", siamo immersi nella stessa atmosfera, respiriamo la
stessa aria, continuiamo ad agire e operare come se il mondo e le
Lebenswelten siano quelle di mezzo secolo fa.

Pretendere di comprendere la vita interiore delle persone nella nostra
società, senza riconoscere le profonde mutazioni del vivere,significa
sperimentare l'impotenza della nostra funzione di cura.

Noi di fatto, stiamo uscendo da un epoca, "quella della modernità solida",
quella cioè che aveva costruito recinti ed impalcature destinate a durare,
l'epoca in cui le parole d'ordine erano aggregazione, cameratismo,
interazione, partecipazione, ecc; oggi parliamo di identità flessibile, vi
è, infatti, una costante volontà di cambiare, e bisogno di farlo subito,
questo comporta una assenza di legami che durino nel tempo. Quello che ne
deriva è che le sfide della vita, i compiti della vita e gli obiettivi della
vita tendono oggi ad assumere un colore e una forma ben diversi da quelli
che avevano mezzo secolo fa. All'epoca erano essenzialmente risposte agli
schemi di progettazione, costruzione e preservazione di un ordine, di un
sistema di valori che fondavano una weltanschauung, nel cui potere, tutti si
riconoscevano.

Oggi per sopravvivere è necessario sviluppare una visione del mondo centrata
sull'io, ribaltando, così, il rapporto fra "il proprio ego e il mondo " e
rendendo, in questo modo, entrambi utili al fine di plasmare e scrivere una
biografia individuale.

Qualche decennio fa, noi attribuivamo le difficoltà del vivere, all'eccesso
di regole che governavano le società, e quindi, la sofferenza, nelle sue
diverse forme, era concepita di fatto come una nevrosi derivante dal
conflitto fra " norma e trasgressione ".

Da tale conflitto, il vissuto che ne derivava era di "colpa"; oggi, in virtù
del progressivo abbattimento del limite tra "pensabile e possibile", le
norme "perdono sempre di più potere", per cui, ciò che un tempo era
proibito, oggi diventa possibile e consentito.

Per effetto di tale processo, i sintomi del malessere non si presentano più
come una nevrosi, frutto di un conflitto tra istanze normative e pulsioni
governate dal principio del piacere, quanto come un " fallimento nella
capacità di spingersi agli estremi del possibile", di portare il proprio
potere fino al limite. Essendo saltato quindi il concetto di limite,
necessariamente, il vissuto soggettivo non può che essere di "
inadeguatezza, ansia ed inibizione ".

Oggi l'individuo non è più regolato da un ordine esterno, da una conformità
o meno alle leggi, per cui l'infrazione genera sensi di colpa: il vissuto di
colpevolezza era, infatti, il nucleo centrale delle classiche forme di
sofferenza psichica, ma, oggi, deve fare appello esclusivamente alle sue
forze interne, alle sue competenze per raggiungere quei risultati a partire
dei quali verrà valutato. La sofferenza ha cambiato forma: non più conflitto
nevrotico "fra norma e trasgressione" con conseguente senso di colpa, ma, in
uno scenario dove non c'è più norma, perché tutto è possibile, ed i confini
sono saltati, il nucleo del disagio si radica sul senso di "inadeguatezza" e
di "insufficienza" per tutto ciò che uno potrebbe fare, ma non è in grado di
fare.

Quando i disturbi esistenziali non sono, più tanto, il frutto di una "
nevrosi", poiché non si originano da conflitti, quanto piuttosto la
conseguenza di vissuti d'impotenza e di inadeguatezza, abbiamo a che fare
con delle forme di "immaturità affettiva" che portano in sé la paura di ogni
forma di frustrazione.

Le frustrazioni, infatti, sono sempre meno tollerate: il contenitore emotivo
non "tiene", ed ha scarsi strumenti per elaborare ed integrare le delusioni
e le frustrazioni, derivanti da un desiderio negato o inappagato. In un
orizzonte come questo, ove le strutture psichiche sono sempre meno capaci di
tollerare le frustrazioni e di rinviare la soddisfazione del piacere in
funzione di uno obiettivo superiore; quando si diventa sempre meno capaci di
elaborare i conflitti, non avendo avuto esperienza di "conflitto interno", è
facile prevedere come "il gesto", "l'agito" e "l'esternalizzazione dei
conflitti" diventino l'inevitabile e fatale risposta di chi non è in grado
di "contenere" i vissuti frustanti e conflittuali.



Questo è un link per chi volesse approfondire l'argomento
http://www.mulino.it/edizioni/universita/scheda_volume.php?vista=indice_esteso&ISBNART=13325

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Commenti al Post:
daredevil665
daredevil665 il 22/01/10 alle 15:41 via WEB
Nessun dolore, Tutto il dolore... firmato... Satana

Mentre la nevrosi era il terreno dai tempi di Freud, dalla metà del secolo scorso si naviga nell’oceano della depressione.

La depressione è un orizzonte vuoto perché ciò che sta movendo la civiltà verso il futuro non è fatto di unione, ma di separazione, non tra i corpi, ma tra gli animi, tra le anime, tra l’Io ed il proprio sé più profondo, luogo dei ricordi che nell’insieme danno il senso del valore della nostra presenza al mondo, che rimane così inascoltato.

Ognuno è lasciato solo a sé stesso in una competizione mirata e guidata da un sistema il cui fine è solo l’aumento del capitale (capitalismo), come un meccanismo che consuma l’energia delle vite senza restituirgli un appagamento vero ma illusorio, di un posto sicuro o di una carriera in salita. Di arrivare ad una indipendenza individuale che, in quando indipendenza, si rivela anche nell’indipendenza dai rapporti umani, rapporti che rimangono relegati ai minimi necessari a mantenere uno stato di apparente rispetto, freddo rapporto formale, ma che in realtà si traduce nella paura di compromettere quella quiete asettica.

Chi s’inserisce in questo meccanismo riesce a galleggiare, ma si ritrova circondato di oggetti che non riempiono l’anima di senso perché i traguardi lasciano il tempo che trovano e il suo percorso di sviluppo interiore, che dovrebbe servire a valorizzare gli aspetti sentimentali e a fissare quei punti importanti che sono costituiti dalla relazione sentimentale o partecipazione emotiva tra sé e il mondo, è un percorso in un vicolo cieco. Essi perdono l’occasione di entrare nel sentimento della vita, nel sentimento del mondo, non riuscendo a vedere che alla guida del meccanismo non c’è nessuno, ma il meccanismo stesso.

Così chi sta sotto, nella gerarchia, non è la vittima di chi sta sopra, ma lo sono entrambe. In questo sta il male! la vittoria del demonio che ha abbindolato l’anima nel suo meccanismo, e non negli esorcismi che la storia della chiesa ci tramanda. Ritengo che identificare il male in quella forma che la chiesa ha divulgato, anche solo raramente, sia fuorviante perché la gente crede che il demonio sia uno spirito a sé.

Quel malessere, causato dall’insensatezza dell’obiettivo precedente conquistato, viene rimosso, cioè nascosto alla coscienza, auto-incentivandosi, ad un nuovo obiettivo. Lo rimandano perché il meccanismo è talmente vasto che sembra essere l’unica realtà capace di rendere il vero senso del progredire umano e, pensando che la comparsa di quel malessere sia avvenuta perché non si era fatto abbastanza, giungono, come minimo, alla situazione di conformismo e, come massimo, a voler guidare il mondo pestando sull’acceleratore del meccanismo. Sono poi quelle persone che, ad esempio, appena perdono posizioni nel mondo del lavoro, le perdono anche nello spirito.

Chi soffre è perché non riesce a inserirsi in un contesto e avverte la propria inadeguatezza, ma soprattutto soffre perché non comprende che quell’inadeguatezza non è la propria, ma quella della civiltà nei confronti dell’anima.

Chi soffre di depressione è ignorante di tale fatto, non riuscendo a vedere la situazione complessiva, ma è sicuramente più presente al sentimento del mondo perché al contrario di chi si è conformato, non fugge dal proprio malessere e, in fondo, la sua vita sarà stata più vissuta.

Perché non è vera la frase nella canzone di Vasco in cui nulla ha un senso, il senso c’è ed è la via del sentimento, quel sentimento che riempie l’anima, semmai è il fine assoluto che a noi, abituati come siamo a finalizzare tutto, è impossibile da comprendere, perché i fini che raggiungiamo in vita sono possibili perché si realizzano in un tempo, mentre l’esistenza, nella coscienza umana, non conosce fine temporale e quindi fine oggettuale.

Questo non significa che il fine non esiste, ma che noi non possiamo comprenderlo con la nostra logica e tantomeno con l’irrazionalità per la quale qualsiasi fine è possibile.

L’unico modo per salvarsi l’anima è quindi giungere a questa consapevolezza, per guardare in faccia il mondo ed il meccanismo che lo sta inghiottendo, cercare di non farsi coinvolgere per non diventare un suo ingranaggio senz’anima o di cadere in quel dolore debilitante della depressione, condividendo i propri sentimenti le proprie idee senza paura con il resto del mondo perché il tempo passa ed è un’occasione da non perdere.

 
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