Mondo Jazz

Polillo non era certo un fine musicologo del jazz ma leggendolo a distanza di tempo, pur negli evidenti schematismi e rgidezze del tempo, si apprezzano diverse cose che mancano nella critica jazz di oggi: schiettezza, onestà intellettuale e capcità di sbilanciarsi in modo netto e chiaro nel fare le proprie valutazioni. Per quel che riguarda poi ciò che scriveva nel merito a proposito della presunzione dei musicisti europei direi che sottoscrivo pienamente perché per me quel che affermava vale a maggior ragione oggi dove, in nome di una falsa "globalizzazione" o inglobazione europea del jazz, non saprei come altro sinteticamente definirla, si esaltano musicisti europei che di jazzistico hanno poco o nulla o sono in definitiva poco significativi in tale ambito. Invece viene affermato da decenni esattamente il contrario, a mio avviso in modo gravemente mistificatorio.

sono l'autore della lettera al direttore del giugno 1975. Attualmente collaboro con Jazzitalia e jazz convention. Ho continuato a seguire e a occuparmi di jazz. La mia lettera era una specie di tentativo di aggiornamento di un articolo intitolato A CHE PUNTO SIAMO? a firma di Polillo del 1974. Ci sono giudizi sicuramente troppo severi su alcuni musicisti come speranze mal riposte su altri. Ad ogni modo la replica di Polillo è indicativa sull'idea, allora prevalente, della prevalenza o della superiorità degli afroamericani sul resto del mondo nel determinare eventuali salti in avanti del jazz. Gli anni seguenti hanno remato in senso opposto, a ben vedere. grazie ancora della pubblicazione e complimenti per il blog da me consultato giornalmente da almeno cinque anni. A presto

hanno remato in senso opposto i critici, non gli anni seguenti. La superiorità degli afroamericani nel Jazz è a tutt'oggi poco discutibile, o perlomeno non sono gli europei ad averne la prevalenza come invece si cerca di far credere da diversi decenni. Adesso poi c'è l'illustre Arbore che ci viene a spiegare che il Jazz l'hanno prodotto gli italani, anzi i siciliani, stiamo a posto. A mio modo di vedere in Europa per lo più si è sviluppato un linguaggio improvvisato derivativo dal jazz, anche se si sono prodotti degli ottimi jazzisti, molto meno degli autentici innovatori. Del resto jazzisti europei che abbiano merito di entrare nella storia del Jazz a tuttoggi si contano sulle dita di una mano. Quindi da questo punto di vista il pensiero di Polillo non lo trovo per nulla datato, anzi è stata ed è una grande intuizione. Semmai è molto più datata, ad esempio, la classificazioni per stili nella lettera citati dal Sig. Montano, il considerare il R&B o musicisti Pop Soul straordinari come Stevie Wonder non degno di essere considerati "Jazz" e nell'arte delle musiche africane- americane e un evidente errore, proprio alla luce di una integrazione o fusione degli stili che si è venuta successivamente a determinare. I decenni successivi, infatti, hanno chiaramente mostrato che una separazione netta tra Jazz quale musica d'arte e il resto delle musiche africane-americane come bieco entertainment commerciale non ha ragione di esistere(e mai ha avuto ragione di esistere a ben vedere, basti pensare a figure come Louis Armstrong), in quanto è un modo di vedere la cultura musicale afroamericana col metro europeo. Miles Davis, insieme ad Hancock ai Weather Report, gruppo di una artisticità straordinaria per anni indegnamente sottovalutati, hanno propro in quegli anni cercato di far capire che tra Jazz, R&B, Soul e tanto altro in realtà non vi era reale divisione e per tale ragione per decenni sono stati criticamente massacrati (soprattutto dalla critica europea) Per quel che mi riguarda dopo quattro decenni di Jazz trovo che ci sia più jazz in Stevie Wonder o Ray Charles che in tutta la discografia di Rava e Trovesi messi assieme. Perlomeno se parliamo di idiomaticità non vi è alcun paragone. Non siete d'accordo? pazienza, non è un mio problema...

aggiungo, già che ci siamo, così agitiamo un po' l'ambientino... In Italia in quegli anni, e ancora oggi, si preferiva dar grande riscontro a musicisti afroamericani anche importanti, ma molto meno di quanto oggi si affermi, che manifestano molte più affinità con certe concezioni musicali europee che col jazz. Proprio oggi, solo ad esempio, ascoltavo "Four Compositions (1973)" di Anthony Braxton. Bè, ragazzi mi spiace per mister Anthony che pure apprezzo in diversi dischi ma si tratta semplicemente di un disco jazzisticamente brutto e inconcludente (e ne ha fatti diversi) che della grande musica ha solo l'aria, ma non troverete mai, non dico una stroncaura, ma nemmeno un briciolo di critica di un'opera di Braxton (il che non sarebbe credibile persino di jazzisti oggettivamente più grndi di lui come Davis o Coltrane) qualsiasi cosa faccia. Molto più facile è stato ed è dare addosso al Davis elettrico, a Hancock, a Corea o Jarrett e persino Stevie Wonder, peccato che siano tutti quanti molto più artisti di lui. Cioè se il nero fa cose gradite all'europeo è un grande se fa la sua musica negroide tutta ritmo e poca intellettualità allora si è venduto. A me non pare che come atteggiamento oggi in termini di rispetto, sotto sotto, delle culture altrui in Europa sia cambiato davvero qualcosa, anzi. Esagero? può darsi, ma non credo.

Mi fa sempre un po' sorridere l'idea che gli africano-americani non siano stati determinanti o prevalenti nell'articolazione della loro arte musicale, specialmente, addirittura, dal 1975 in poi. Direi esattamente l'opposto. Ancora oggi non c'è un artista europeo, checché ne possano pensare i languidi marinisti della simil-cultura per borghesi neo-arricchiti creata dall'ECM, che abbia alterato in modo definitivo il corso della musica improvvisata, che è creazione eminentemente africano-americana. E' vero, casomai, che proprio a partire dagli anni Settanta il neo-colonialismo culturale europeo -di fronte alla definitiva perdita di centralità della cultura del Vecchio (vecchissimo) Mondo, autoinflittasi il suicidio nei primi quarantacinque anni del Novecento- ha cercato di minimizzare i contributi culturali extra-europei, appropriandosene e rielaborandoli secondo canoni estetici spesso rimasti ancorati ad un passato più glorioso. Non casualmente, da circa un decennio il cosiddetto jazz subisce una serie di varianti dovute perlopiù alle preponderanti influenze delle emergenti culture extra-europee, dal mondo latino (presente già dai tempi del proto-jazz e che per sua natura vanta retaggi africano-americani) a quello orientale. Che poi, negli ultimi quarant'anni siano sorti sub-linguaggi musicali che dalla musica improvvisata africano-americana abbiano tratto molteplici spunti senza però allinearvisi integralmente, è un altro paio di maniche. Quanto al tanto deprecato "mainstream" (che pure accoglie in sé ogni sviluppo della tradizione storica improvvisativa africana-americana), esso è naturalmente rimasto idiomaticamente insuperato nella sua accezione americana e africano-americana. Rileggendo la risposta di Polillo, uomo di cultura (solidissima) d'altri tempi, non vedo poi tutta questa carenza di analisi. E' vero, piuttosto, che i neo-colonialisti de' noantri (per quanto abbondino anche altrove) da decenni provano, non si sa sotto il cappello di quale serietà storica o musicologica (soprattutto in un contesto come il nostro, dove la parola musicologia fa sorridere), provano a "scippare" gli africano-americani della loro cultura. Magari sono gli stessi che s'indignano di fronte alle crociate razziste che attraversano il Paese, non rendendosi conto che le loro belle teorie vantano gli stessi criteri.

se Rollins suona "Isn't she lovely" si vende, se Rava suona "Parlami d'amore Mariù" o fa un (pessimo) progetto sulle musiche di Michael Jackson è un jazzista autentico. Pensavo che le barzellette (o le freddure) si leggessero sulla settimana enigmistica. Per non parlare poi di quegli orrendi progetti di fusione tra musica lirica e jazz di cui ogni tanto mi tocca incappare confezionato dai nostri meravigliosi gezzisti...

Io credo che Polillo sia stato uno dei più colti e appassionati studiosi e divulgatori della musica jazz in Italia. Ciò premesso non posso dimenticare una sua risposta esemplare ad un lettore che gli chiedeva di occuparsi di Sly & family stone sulla rivista "Non mi occuperò mai di questo musicista come non troverà mai sul giornale articoli sulla pesca subacquea. Entrambi gli elementi sono estranei all'oggetto, allo specifico del mio mensile" cito a memoria. Oggi Luca Conti sulla stessa MJ ospita regolarmente Bertoncelli, un grande giornalista ma devoto al pop e al rock. Alberto Bazzurro, poi, ha una rubrica dedicata alla canzone, liscia o jazzata chanson(g)s. E' un vantaggio, uno svantaggio? E' un tentativo di allargare il numero dei lettori e degli abbonati? Lascio queste domande senza una risposta. Torniamo a Polillo e al suo modo di vedere il jazz. la sua posizione coincide con quella di giorgio Lombardi che in Hot JAZZ ribadisce che non esiste musica afroamericana senza lo swing. Tutto quello che si allontana da questa base ritmica indefinibile non può chiamarsi jazz. La posizione è del tutto legittima, anche se si trovano molti critici a contestare questa affermazione. sul fatto poi che solo il popolo afroamericano avesse le chiavi in mano per dirigere la musica della loro cultura quasi in modo esclusivo, gli avvenimenti successivi non hanno suffragato questa tendenza. Si sono avvicendati dal 75 in poi protagonisti importanti in grado di portare avanti il discorso pur non facendo parte dell'universo nero. Due nomi a caso, fra gli altri, Steve Lacy e Gil Evans, solo per nominare due giganti. Per rispondere a Riccardo, la mia disamina è sicuramente schematica ( nella lettera al direttore), ma riprendeva l'organizzazione dell'articolo di Polillo.

Il problema non è tanto nero/bianco e peraltro bianco americano e bianco europeo non sono la stessa cosa, come si cerca per la proprietà transitiva di indurre. L'approccio dell'improvvisatore europeo è diverso e spesso anche parecchio diverso. Recentemente apprezzavo il pianista inglese Gwilym Simcock che ha uno swing indiavolato e una proprietà deò linguaggio jazz indubbis, ma si sente che il suo approccio alla tastiera è comunque da europeo. Poco male lo apprezzo ugualmente, sia chiaro, e molto anche. Se è per questo citerei anche un grandissimo innovatore come Jimmy Giuffre e certo non si possono non considerare tanti grandissimi jazzisti bianchi americani a partire da Benny Goodman (recentemente apprezzavo un grande sottovalutato come Al Cohn in duo in un disco con un altro grande come Jimmy Rowles)tutti o quasi dimenticati, ma la cultura musucale di un Jimmy Giuffre è profondamente americana (nonostante le sue chiare origini italiane) e un grande musicista come Trovesi, per dire, e che il jazz certo lo conosce, improvviserà sempre come un europeo, con una idiomaticità ben diversa e che è ben distinguibile all'orecchio e non è solo legata allo swing cui si riferisce Lombardi (noto purista tradizionalista peraltro). In Europa non nascerà mai un Jimmy Giuffre, come non nascerà mai un Keith Jarrett nonostante i vari tentativi di imitazione, perché sono prodotti propri della cultura americana. Tuttavia non credo sia grossolano, per quanto approssimativo, affermare che le più grandi innovazioni nel jazz siano dovute a grandi jazzisti neri. Per il resto non so quali siano le motivazioni per le quali Luca tenga certe rubriche, poiché non leggo nessuna rivista italiana, ma nel quadro attuale non lo trovo così fuori luogo anche dal punto di vista non strettamente legato al marketing o alle vendite. Credo che oggi tenere in vita una rivista specializzata del genere sia già una bella impresa.

Gil Evans e Steve Lacy erano imbevuti di cultura africano-americana: ho lavorato più volte con tutti e due (sia con Lacy che, soprattutto, con Evans, prima della sua decadenza, ben rappresentata dalle sue tristi esibizioni a Umbria Jazz, che in Italia invece strappavano urletti di ammirazione), e vivevano di materiali neroamericani. Io comunque parlavo di europei, tematica distinta da quella fra americani e africano-americani. Fra Polillo e Giorgio Lombardi c'è una differenza come fra il giorno e la notte, ma di che stiamo parlando? La questione dello swing, invece, ha un suo peso. Qualsiasi musica, qualsiasi forma d'arte ha il suo Canone, altrimenti nulla la distinguerebbe da un'altra, Lei che dice? E' ovvio che la musica improvvisata ha il suo Canone, e non l'ha certo scoperto Polillo. Pretendere che non esista un Canone è altro vezzo dei neo-colonialisti.

Peraltro, Gil Evans e Steve Lacy, già nel 1975 avevano delineato da tempo la propria estetica... Inoltre, non hanno mai esercitato influenza alcuna sull'estetica africano-americana, nell'uno né l'altro. I loro allievi e seguaci erano e sono tutti bianchi (e non di rado anche europei...), da Maria Schneider a Darcy James Argue o da Phillip Johnston a Eugenio Colombo...

mah... il problema nero/bianco mi sembra una semplificazione non utile. forse il problema è grande musicista/musicista medio. oggi i grandi sono abbastanza pochi: l'enorme serbatoio afroamericano sembra fornire meno artisti (o forse li fornisce altrove) e quindi sembra in crisi. da ciò si può anche arrivare a pensare che il baricentro si sia un po' spostato. il problema è che il contributo europeo è stato tutto incentrato sullo spostamento della musica in terreni più vicini alla musica colta contemporanea che al jazz. in compenso in America si usa la parola jazz anche per definire musica da ascensore o grande magazzino, per cui la confusione regna sotto i cieli. Polillo era un conservatore serio che cercava anche di apprezzare musicisti che non amava assolutamente, come Cecil Taylor...

Caro Signor Montano, se bastasse pubblicare i pezzi di Bertoncelli per aumentare il numero di lettori e abbonati, avrei già risolto parecchi dei miei problemi. Bertoncelli collabora a Musica Jazz perché, in primo luogo, scrive molto bene e (almeno a mio avviso) è un piacere leggerlo; in secondo luogo, perché parla di argomenti che non credo siano così marginali per un cosiddetto appassionato di jazz, ammesso che una simile figura esista ancora (ma credo che sia più come l'Araba Fenice del Metastasio: che ci sia, ciascun lo dice; dove sia, nessun lo sa). Tra l'altro, Bertoncelli – anche se non se ne occupa direttamente su MJ – ha un'ottima conoscenza del jazz, paradossalmente superiore a quella di molti collaboratori della rivista (specialmente i giovani...). Se lo faccio scrivere su argomenti non strettamente jazzistici (e questo vale anche per la rubrica sulla canzone) è perché preferisco rivolgermi a una sorta di lettore ideale che, almeno spero, non è monomaniaco e non ascolta soltanto jazz dalla mattina alla sera. per questo ogni tanto parliamo anche di classica più o meno contemporanea, di r&b, di funky e così via. Ovvio che non pubblicherò mai articoli sulla pesca subacquea, che col jazz non c'entra un piffero, ma non vedo perché non dovrei parlare di Sly & The Family Stone o degli Earth Wind & Fire, che in dosi più o meno rilevanti qualcosa a che fare col mondo del jazz ce l'hanno avuto. Però questo non mi vieta certo di parlare di Sidney Bechet (e anzi, di metterlo in copertina, cosa che MJ non faceva da decenni) o di Cab Calloway, come Gualberto sa bene (visto che ne ha ottimamente scritto lui) D'altronde, visto che la gente si lamenta lo stesso, ovvero che se parlo di Roscoe Mitchell avrei dovuto parlare di Hank Mobley, e se parlo di Hank Mobley avrei dovuto parlare di Roscoe Mitchell, allora tanto vale che faccia quel che credo meglio e mi occupi delle cose che mi sembrano interessanti per chi ci legge. Musica Jazz non è la Bibbia o la Torah o il Corano: si limita a presentare le opinioni di chi ci scrive e cerca, per quanto possibile, di suscitare la curiosità di chi la legge. Il grosso problema, purtroppo, è che la gente è intellettualmente assai meno curiosa di un tempo e vuol sentirsi raccontare solo le cose che già conosce (o crede di conoscere). Questo è il guaio.

Come non concordare? A parte la Torah... !

Sono abbonato a musica jazz dal 74. Apprezzato la gestione Polillo come quella di candini e sessa. L'ingresso da direttore di Luca conti ha apportato delle novità che da lettore ho condiviso in pieno. Leggo quasi subito la rubrica di A.bazzurro. E' un mio amico e gli comunico prontamente le mie impressioni su quanto scrive. Trovo Bertoncelli un vero fuoriclasse. Il suo articolo su tom Waits è fra le cose migliori comparse sulla rivista nell'ultimo anno. Le mie erano solo domande retoriche. Non c'era malizia in quei punti interrogativi. Mi pare però che il dibattito non abbia affrontato in generale il cuore della questione. Il jazz è progredito grazie al recupero identitario degli afroamericani o sono state altre le spinte a caratterizzare il suo corso?

A me pare di averle risposto. E' evidente che il recupero identitario degli africano-americani ha fortemente condizionato tutto il post-free, ad esempio, da Air a Richard Abrams fino a Don Pullen, tanto per citare alcuni esempli. E se ne potrebbero fare molti e molti altri, anche nel post-hard bop. Fare le pulci all'articolo di Polillo non ha alcun senso. Gli interrogativi su Jarrett, Barbieri e Davis non sono proprio fondamentali. Direi che sono irrelevanti.

Non comprendo il motivo per cui invece di interrogarsi sul quesito Dove va il.jazz? A posteriori, si risolva tutto in un gioco degli equivoci o in lunghe teorizzazioni non sempre dentro il seminato. Avrei pensato che qualcuno scrivesse: Jarrett è un genio altro che un pianista che gira attorno a poche idee.gato barbieri dal 75 in poi è andato in calando in modo irreversibile. Nel frattempo si é rivalutata la produzione di Miles Davis prima del ritiro. E via discorrendo.....

Peraltro, Le dirò, e mi deve scusare la franchezza, già in partenza la Sua lettera era un bel guazzabuglio, non trova? Lasciando perdere che, se vogliamo, il terzo capitolo di Gato Barbieri rappresentava una straordinaria collaborazione con Chico O'Farrill, altro che inciampo clamoroso... Sulla povertà d'invenzione di Jarrett sorvolerei, no? Sorvolerei anche sul considerare Jarrett un artista d'avanguardia... Poi, passare da Braxton a Ponty, da Burton a Don Cherry, in una sorta di ecumenico volo d'uccello, mi perdoni ma non vedo la logica, già nel 1975, di mescolare pere e mele. Che poi Don Cherry, Abdullah Ibrahim e Sam Rivers non fossero eccezionalmente dotati... è dato che mi interessa parecchio. No, francamente mi spiace che vi sia chi ha voluto far le pulci alla risposta di Polillo. Qui c'era da far le pulci già al materiale di partenza, non trova? Non so neanche se considerare "Return to Forever" famigerato... Ma famigerato di che? Alcuni lavori dell'epoca di Corea, anche in ambito RTF, sono eccellenti. Visto il materiale di partenza, non vedo quale tesi vi sia da dibattere. Capisco che trattavasi di 40 anni fa... Comunque, senza scivolare negli schemini, nelle pagelle, nelle definizioni forzate, ribadisco: la questione identitaria è stata fondante per il jazz dagli anni Settanta in poi.

Chapter Three di Gato Barbieri è un disco di alto livello tra salsa e jazz, che fa emergere anche la grandezza di Chico O'Farrill, bravissimo arrangiatore molto sottovalutato che nell'ambito della fusione tra Afrocuban e jazz è stato tra i massimi protagonisti, sin dal famoso disco con Gillespie e Parker che andrebbe rivalutato e di molto, ma O'Farrill ha fatto ottimi dischi anche negli anni '90 prima della morte per la Milestone. Solo che sono musiche che proprio in quel decennio ideologico degli anni'70 erano considerate praticamente cacca a priori come tanta altra grande musica che invece col jazz ha molto più a che fare di tanta musica apprezzata allora (per lo più nell'avanguardia che schiacciava l'occhiolino all'Europa) e di tanta lugubre e artificiosa produzione ECM odierna. A mio avviso vi è stata una distorsione critica indelebile in quegli anni di cui si pagano le conseguenze ancora oggi,argomento sul quale ho insistito e insisto da sin troppo tempo, ma è di chiara evidenza.

Beh, Gato Barbieri è dal 1975 (ovvero dal quarto "capitolo" della Impulse) che non ha più prodotto niente di significativo, almeno su disco (il live dell'81 su Doctor Jazz non è male, ma non aggiunge niente a quel che già si sapeva). Direi che, dopo 38 anni di relativa assenza dalla scena, possiamo considerarlo un capitolo chiuso. Colpa sua? Probabile, ma che gli fosse rimasto ben poco da dire era evidente. Poi è ovvio che, per mantenere lo status quo, uno finisce a fare il solista sui dischi di Venditti e Pino Daniele,ma la faccenda è ben diversa.

Rispondo a Gualberto , di cui ricordo il suo contributo a il jazz degli anni settanta. La mia schematizzazione riprendeva analogo procedimento avanzato nel 74 da Polillo. Si vada a leggere A che punto siamo? I nomi citati uno dopo l'altro sono frutto dell'accostamento operato dal direttore di musica jazz in precedenza. Quanto alla valutazione sui singoli artisti cambierei parecchi giudizi o ipotesi di evoluzione in prospettiva. Un nome per tutti: Davis faceva musica interessante anche in quegli anni

altro che interessante...una delle cose più innovative degli ultimi 40 anni. D'altronde in Italia abbiamo come riferimento musicologico Piras, bravissimo e preparatissimo, per carità, ma che ci dice che il jazz è morto creativamente nel '79 e Zenni, suo discepolo che dedica quasi un capitolo intero a Braxton nella sua recente storia del jazz e nel contempo dedica una sola citazione a Tommy Flanagan, due di numero ad Hank Jones, addirittura nessuna per Mehldau o capi orchestra straordinari come Bob Florence o Rob Mc Connell, Marsalis e Jarrett liquidati in un paio di righe, ma potrei continuare con gli esempi. Più che la storia del Jazz sembra: "Vita e morte della propria idea di Jazz"

sarò rincoglionito, ma letti tutti di fila gli interventi, mi sembra di stare in una piece di Jonesco...

Più che ionesco Beckett...Sto aspettando Godot Roberto dell'Ava per la chiusura della discussione. Ringrazio mondo jazz per l'attenzione ricevuta. A presto

Spesso non reputo necessario il mio intervento: il confronto procede benissimo di per sè e sarebbe difficile aggiungere qualcosa di nuovo o di più interessante rispetto a quanto già detto. A volte poi trarre delle conclusioni non è compito facile, ogni semplificazione è sempre parziale, volatile e difficilmente ecumenica, di conseguenza mi preferisco nel ruolo di suggeritore di dibattito. Ad esempio, nel caso della lettera di Giuseppe, lo spunto per me più interessante per una analisi ulteriore viene dal contributo di Luca Conti. Ricostruire un identikit anche approssimativo del lettore di Musica Jazz, o, più in senso lato, dell'appassionato di jazz oggi, è arduo e complesso quanto interessante. Lo verifico quotidianamente con amici e conoscenti e mi sembra che le parole conclusive di Conti (la gente vuole sentirsi raccontare le cose che già conosce o che crede di conoscere) siano preoccupantemente reali. Ed è poi il motivo per cui festival imbottiti di cantautori e/o pop a vario livello fanno il pieno e proposte più serie e più stimolanti fanno fatica a sopravvivere. Invece devo dire che leggendo prima e pubblicando poi la lettera di Giuseppe mi sono trovato a pensare se l'allora insegnante elementare avesse poi mantenuto la stessa passione. Molto bello ritrovarti qui sul blog...