Fin dalle più remote ere internettiane il fenomeno del trolling ha sempre suscitato le più vive apprensioni e fobie all’interno delle comunità che interagiscono in rete. Sebbene la parola sia nuova e associata strettamente ai nuovi media, però, è difficile pensare che il fenomeno sia del tutto nuovo. Sembra infatti che qualsiasi comunità, virtuale o no, senta periodicamente il bisogno di individuare, isolare ed espellere quegli individui che con i loro comportamenti vengono considerati un pericolo per la coesione sociale, o l’esistenza della comunità stessa. Il dramma naturalmente è che proprio la caccia e i processi sommari al deviante di turno si risolvono sovente in uno snaturamento dei valori della comunità e in un trauma per essa.

 

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Il problema è che nonostante ciascuno di noi sia ben disposto a riconoscere negli altri quei caratteri esterni che li definiscono come troll è poi impossibile, almeno per chi non è in grado di leggere la mente, stabilire con certezza le reali intenzioni del disturbatore di turno, oppure avere un criterio sicuro per discernere la sana e intelligente provocazione dalla semplice azione di disturbo effettuata per vanità ed estremo desiderio di attenzione.


Ma Socrate era un troll?

Non se ne era accorto ad esempio un lucido osservatore della realtà come Aristofane, che nelle Nuvole dipinge appunto Socrate come il tipico parolaio, in niente diverso dagli altri sofisti o forse persino peggio, abile solo a confondere le idee degli interlocutori con mirabolanti supercazzole nelle quali il torto viene trasformato nella ragione e viceversa, e tramite queste gettare scompiglio nella comunità, dissolvendo i valori tradizionali che la tengono insieme. Ma che Socrate fosse considerato un troll dai suoi contemporanei emerge persino dalla testimonianza favorevole di Platone, attraverso le parole che Platone mette in bocca ai suoi avversari. Naturalmente nessuno usa il termine troll. Per a riferirsi a Socrate usano un altro termine sul quale è utile soffermarsi perché ha una storia interessante, e anche perché in effetti lo differenzia da tutti i suoi contemporanei e gli dà una marcia in più proprio in quanto troll: Socrate è “ironico”.

L’ironia nella nostra lingua è quella figura retorica con la quale diciamo una cosa per intendere l’esatto contrario: quando per esempio fuori sta diluviando e noi guardando dalla finestra esclamiamo “ma che bella giornata, è proprio il tempo ideale per andare in spiaggia ad abbronzarsi”. È naturalmente importante distinguere l’ironia, che come dicevamo consiste in una figura retorica, dalla menzogna o dall’inganno: se noi volessimo far credere a qualcuno che è davvero una bella giornata allora non sarebbe un caso d’ironia, ma al massimo uno scherzo di dubbio gusto. Nell’esempio l’ironia è facilmente riconoscibile in quanto dovrebbe essere evidente a tutti il fatto che sta piovendo, e quindi che non posso credere o voler dare ad intendere che invece è una bella giornata, ma anche se possono esistere casi più ambigui la distinzione rimane fondamentale (il perché talvolta sentiamo la necessità di esprimerci in maniera ironica rimane un mistero della scienza).

Il fatto è che questa distinzione, per noi ovvia, non doveva esserlo per gli antichi greci, per i quali il termine “ironia” non aveva il nostro stesso significato ma voleva dire proprio “menzogna, inganno”. Quando i suoi interlocutori lo accusano di confonderli con la sua ironia non gli stanno facendo un complimento come potrebbe sembrare ma gli stanno dando del falso, e di intorbidare le acque col suo atteggiamento insincero (cosa peraltro che viene sempre rimproverata agli attuali troll, la cui figura non a caso si sovrappone spesso a quella del fake). In cosa consiste l’insincerità di Socrate? Per esempio nei suoi proclami di ignoranza, nella falsa modestia che in tempi a noi più recenti gli è stata rimproverata anche da Nietzsche (il quale provava la smodata frenesia di surclassarlo), nel suo dichiararsi interessato ad apprendere per bocca del suo interlocutore quando invece è suo desiderio smontarne le tesi e renderlo ridicolo.

In realtà, analizzando le strategie discorsive di Socrate, possiamo dire che il giudizio di falsità non è del tutto equo, cioè non si può dire che Socrate abbia solo intenti ingannatori, ma non sarebbe neanche corretto affermare che Socrate fa dell’ironia nel senso che noi conosciamo. L’ironia alla quale siamo abituati è qualcosa di fondamentalmente innocuo, una forma di umorismo che non urta e non ferisce nessuno. Anzi, è consuetudine disinnescare un possibile conflitto, a proposito delle proprie affermazioni, sostenendo proprio che si stava facendo dell’ironia, e quindi non si deve offendere nessuno (“sei un cretino e devi morire”, “come ti permetti?”, “ero ironico”, “ah, allora va bene”). Non stupisce che questa ironia venga tanto apprezzata in società, ma sarebbe tutto sommato insultante nei confronti di Socrate attribuirgliela, molto piú che descriverlo come un troll.

Lo studioso Gregory Vlastos, nel suo saggio Socrate, il filosofo dell’ironia complessa, sostiene che l’ironia di Socrate appartiene a un terzo tipo, che definisce appunto “ironia complessa”. Consiste nel dire una cosa falsa se intesa nel suo senso letterale, ma che potrebbe essere vera in un senso più profondo (o viceversa, banalmente vera ma profondamente falsa). Possiamo prendere come esempio tipico di ironia complessa proprio la famosa dichiarazione d’ignoranza con la quale Socrate intraprende ogni nuovo dialogo, cosa che irrita tanto coloro con cui ha a che fare. Oppure può essere considerato un esempio di ironia complessa, da parte di un dio, la risposta dell’oracolo di Delfi che secondo Socrate sarebbe stata alla base della sua ricerca, ovvero il responso per il quale Socrate è il più sapiente degli uomini (e la successiva ricerca sarebbe stata destinata a smentire l’oracolo, secondo un livello di lettura, o confermarlo secondo un altro). Perché c’è bisogno di esprimersi in modo così indiretto? Forse perché nel linguaggio normale non esiste ancora il modo di dire direttamente quel che si vorrebbe dire.

Il dibattito filosofico era concepito all’epoca di Socrate come una specie di attività agonistica, uno scontro dialettico attraverso il quale le giovani generazioni di sofisti, come Protagora e Gorgia, sfidavano l’autorità dei venerati maestri, più abituati a concepire se stessi come oracoli indiscutibili, e che certo non erano disposti a difendere le proprie vedute o essere contraddetti in un dialogo alla pari. I sofisti mostrarono che questa considerazione poggiava appunto sulle fragili basi della sola autorità, e che svaniva non appena qualcuno osava metterla in discussione, non appena si fosse consentita la lotta, lo scontro.

Certo, una volta che si inizia a concepire l’attività filosofica come una lotta fra opinioni divergenti diventa anche difficile ricordarsi di quale sia il fine ultimo della discussione (accrescere la conoscenza) ed è facile invece scambiare il mezzo con il fine, che diviene quindi la vittoria, o la sconfitta dell’avversario, da perseguire in qualsiasi modo, in una gara di abilità dialettica dove tutte le armi della retorica vengono usate senza esclusione di colpi. È certamente un terreno fertile per i troll, ed è infatti lo stadio descritto da Aristofane nella sua commedia: il più bravo in questa situazione non è più colui che riesce a far trionfare la verità, o il punto di vista più ragionevole, ma al contrario si considera una prova di abilità proprio la difesa delle opinioni più assurde e paradossali, e si arriva a dubitare addirittura dell’esistenza stessa di una verità da raggiungere, in una concezione nella quale tutto viene piegato alle necessità più immediatamente pratiche dell’uomo. È un segno della cultura maschilista degli antichi greci il fatto che la più paradossale delle opinioni difese da Gorgia in questo sfoggio di virtuosismo sia, accanto alla tesi che nulla esiste, che Elena di Troia non fosse una zoccola (con un argomento fra l’altro autoreferenziale: ella, poverina, è stata convinta dai discorsi di Paride, e contro un discorso abbastanza persuasivo la virtù è impotente).

In tutta questa proliferazione di troll dialettici, che a quanto pare si guadagnavano pure da vivere insegnando le loro tecniche, Socrate con la sua ironia è una specie di troll al quadrato: si presenta sul ring completamente disarmato, afferma di essere venuto non per insegnare, ma per imparare, e infatti dichiara di essere ignorantissimo, però alla fine sono gli altri a ritrovarsi increduli al tappeto, sconfitti da una professione di umiltà, e da semplici richieste di chiarimenti intorno alle loro opinioni. Quella di Socrate è una specie di combattimento ispirato alle arti marziali: invece di contrastare l’avversario sfrutta la sua stessa forza per sconfiggerlo, ovvero lo lascia parlare e poi lo mette di fronte alle sue contraddizioni. È particolarmente irritante per chi ne è vittima, anche perché Socrate non sembra avere nulla di meglio da offrire, non ha una sua opinione da contrapporre all’avversario, si può dire che il suo scopo non sia la vittoria, ma la semplice umiliazione del prossimo.



Oppure no, potremo interpretare la sua attività in maniera meno superficiale, e vedervi un insegnamento molto più profondo di quello offerto dai contemporanei. Come la tradizione posteriore vuole, potrebbe trattarsi di un metodo che permette di estrarre la verità dalla stessa mente degli interlocutori piuttosto che inserirvela a forza (la famosa maieutica). Ma quale verità? Nei dialoghi che si considerano più genuinamente socratici (ovvero quelli che si ritengono meno condizionati dalla metafisica personale di Platone) in realtà di verità che vengono così raggiunte ve ne sono pochissime. Il dialogo, spesso centrato sulla ricerca di una definizione, sulla specificazione di un particolare concetto (quale la “giustizia”) si conclude in genere in maniera assai deludente, rivelando che non conosciamo davvero il significato delle parole alle quali attribuiamo particolare importanza. Del resto non c’è un vero motivo logico per cui lo smascheramento di una contraddizione dovrebbe condurre in seguito ad una affermazione positiva (un problema che terrà Platone occupato a lungo: da dove proviene la nostra conoscenza, quella vera e non fallace? e vi darà una soluzione che Socrate avrebbe sicuramente ridicolizzato).

Si ripropone il quesito con cui avevamo iniziato. Cosa c’è dietro la maschera? qual è lo scopo del travestimento? come distinguere un troll da un vero filosofo? come si dimostra la sincerità o falsità di un presunto troll? esiste un criterio di demarcazione? esiste una vera differenza, una soluzione di continuità fra le due categorie? Come notavo è difficile distinguere in base alla sola analisi testuale: il più molesto dei troll potrà sempre giustificarsi come un provocatore intento a dimostrare che il re è nudo, a smascherare l’ipocrisia dei suoi simili, non avendo altra maniera di farlo. Potrà sempre dire che la sua è una forma di ironia complessa, che dietro i suoi scherzi c’è un nobile intento, che in realtà è serissimo, che è troppo avanti per i suoi contemporanei, che non viene capito. Forse, se esiste un criterio, è esterno alla strategia discorsiva, e riguarda il modo di vivere, di mettere in pratica quel che si insegna (o non si insegna ironicamente).

Sappiamo che Socrate è morto per le sue idee. Potrebbe essere considerata la prova definitiva della sua estrema serietà, del suo genuino amore per la verità e la giustizia, la dimostrazione che era pronto a sacrificarsi per dare almeno questo importante insegnamento ai suoi concittadini, cioè che non esiste abiura possibile di fronte alla ricerca della verità. La sua morte fu importantissima per Platone, come egli ci dice, fu ciò che lo spinse a fare della filosofia (e della politica). Se Meleto e Anito non avessero mai denunciato Socrate (per blasfemia e corruzione dei giovani) quindi oggi potremmo non sapere niente di lui, o almeno niente che ci aiuti a distinguerlo dalla massa dei suoi tanti contemporanei chiacchieroni e perdigiorno.

Ma il gesto con cui Socrate sfida i suoi giudici può anche essere considerato, al contrario, come l’ultima sua trollata. In un finale da tragedia egli obbligò di fatto i giudici (che sarebbero stati disposti a liquidarlo con una multa), a condannarlo a morte, non lasciando a se stesso alcuna scappatoia, alcun compromesso. Forse in quei momenti decisivi Socrate – da buon attention whore qual era – pensò che gli si presentava l’occasione per trollare non solo i suoi concittadini, ma tutta quanta la posterità. Il diabolico meccanismo dell’ironia socratica non si ferma davanti alla morte ma investe e mette in dubbio anche il significato delle ultime ore, della scelta più definitiva.



Il meno che si possa dire è che si tratta di una strategia perfettamente riuscita. Invano la scuola di troll che succederà a Socrate traendo ispirazione da lui, quella dei Cinici, cercherà di ottenere altrettanta attenzione, ricorrendo a espedienti come il vivere dentro una botte e masturbarsi in pubblico. Da notare appunto come l’enfasi si sia spostata dall’argomentazione alla condotta di vita: è ormai attraverso il gesto, la performance, che si vuol creare scandalo. I Cinici rinunciano alla competizione dialettica basata sul raggiungimento del consenso, sulla ricerca della verità, e la spostano sul piano puramente morale: il vincitore non è colui che argomenta meglio ma quello che vive in maniera più “pura”, si potrebbe dire in maniera più coerente con i propri principi, se solo non si fossero persi di vista questi stessi principi.

Forse un solo personaggio, qualche secolo dopo, replicherà questa strategia con altrettanto o maggiore successo di Socrate, ma con un geniale e ironico rovesciamento dell’ironia socratica sarà caratterizzato da una suprema mancanza di ironia: “io sono la verità e la via”. E non gli sarà sufficiente morire per dimostrare che fa sul serio. Lassù qualcuno ci trolla.

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