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TRENTUNO - Polaroid*

Post n°32 pubblicato il 21 Gennaio 2010 da passato_per_caso

Il tono della sua voce era maledettamente alto, in modo acceso, concitato, seguiva il filo di quel suo discorso che, ostinatamente, cercava di trasmettere a quella ragazza che di fronte a lui, che era in piedi quasi urlante, stava seduta, un poco rannicchiata su quel divano. Lei, sua figlia, sedici anni appena compiuti, colpevole di quel ritardo nel rientrare a casa dopo esser uscita con un chissà chi e andata in un chissà dove. L’aveva fatto, probabilmente per dimostrare a quel suo accompagnatore, già più grande di lei, di sicuro, la sua libertà, la sua emancipazione.

In quel suo gridare nascondeva il senso di impotenza, il non saperla fermare di fronte all’ignoto, al possibile pericolo. A quel suo cambiar di direzione, mettersi dietro ad una curva, una di quelle anse che non ti permettono di seguire chi sta dietro con lo sguardo. Tu sai che non è distante, ma non lo vedi.

Quell’improvviso sparir dagli occhi gli pareva insopportabile.

 

E adesso era lì a enumerare i motivi secondo i quali a sedici anni, non era opportuno, o persino possibile comportarsi a quel modo, prendere e sparire.

 

Solo a un certo punto in quel suo ingarbugliarsi di parole uscite a raffica, emerse un pensiero che si stagliò nel monotono susseguirsi di quel monologo, un attimo, la discontinuità di una porta socchiusa, annegata in un interminabile muro monocromo. Bianco. –“…Perché sedici anni…sono un casino da avere !!”-

 

Non sapeva bene cosa colse la ragazza di quella sua esclamazione. La vide alzar lo sguardo e fissarlo con un sorriso. Quello stesso che coglie un volto quando si accorge, finalmente, che anche l’altro ha capito. Quello che accade quando due, fino a poco prima estranei, si accorgono, inaspettatamente, di aver qualcosa di profondo che li accomuna.  Forse non aveva compreso appieno il senso autentico di quella sua esclamazione, ma quel sorriso lo fermò nel defluire libero delle parole.

 

Rimase in silenzio a guardare la figlia mentre con la memoria frugava negli anfratti della sua lontana giovinezza, e li ritrovò lì, intatti, magari a sprazzi, a fogli sparsi, i suo sedici anni.

 

La prima sensazione che lo colse fu il sapore intenso delle labbra di una lei che amava e il palpitar del cuore con quelle corse in motorino e il polso girato tutto per dare gas e darne ancora a quel motore che proprio oltre non ne voleva sapere di potersi spingere.

 

Sentì la vertigine e la voragine dentro, e il senso di perdersi in uno sguardo.

E ritrovò le frasi spezzettate, e le strofe, di quelle canzoni  cantate in fondo al pulmann, e quelle scatole d’argento di cui le scrisse: lo scrigno ed il senso di un ricercarsi dentro, sempre un poco di più.

 

E c’era una panchina dove poi ci si ritrovava a parlar del mondo migliore che sarebbe venuto, e le ragazze mostravano la ragione del prima e del poi, e per baciarle  dovevi sfogliarle il cuore con quell’aria d’esser lì per caso, e poi solo per loro, e se baciavano lo facevano con gli occhi aperti e guardavano avanti, perché un bacio era allora un bacio e non quello successivo.

 

E c’erano ragioni del cuore dove il cuore era allora davvero un poco più grande perché oltre a contenere l’amore aveva un posto speciale per la rabbia e la ragione e la voglia di fare e di cambiare e di dare un ordine più logico alle cose.

 

Maria Cristina, e Gloria, e Aura, ed Alessandra, Paola e poi Daniela, tutte confuse, mescolate in quel passar di voci sovrapposte, urlate e poi perse nel sussurrare di un sorriso.

 

E aveva voglia di dire che allora si amava ma si amava in modo diverso. Ma “diverso” s’accorse in un istante, era solo un modo di dire. E si ricordò dei suoi capodanni di quel mondo oscuro che lo aveva sfiorato, di quei ragazzi conosciuti e persi per altre strade, di quelli che si eran perduti davvero, uccisi dalla loro stessa debolezza in uno schianto col mondo reale che era sempre stato lì, a due passi, da quei loro sedici anni che li proteggevano come un guscio d’uovo, come un’alcova.

 

Perché sedici anni son fatti così, arrivano e ti travolgono con quel loro turbinar del cuore, e i sentimenti scoperti, trovati, in quel profondo fondo che attraversa la cavità del cuore, e sembra così lungo che non lo sai, né penso lo saprai mai riempire, e volte basta un bacio o un solo sorriso che tutto sussulta e il prima sembra un passato remoto e il dopotutto un volo da poter finalmente affrontare.

 

Perché sedici anni son fatti così, e le gioie sono ancora intatte ed i dolori paiono muri di specchio inviolabili. Perché sul confine fra bene e male è un taglio netto. Al di qua ed al di là del taglio si ammonticchiano le cose, tutte quelle che ancora vedi bene davvero e non le confondi come poi il vento degli anni insegna. E non è giusto e non è sbagliato, e’ solo l’occhio come vede il mondo in quell’età che ti prende.

 

Perché sedici anni sono proprio così, uno schianto contro l’universo che non sembrava esserci e d’improvviso appare.

 

Guardò la figlia, su quel pensiero, ed un velo di rugiada avvolse il bulbo oculare. Pensò in un istante a tutti gli anni che lei avrebbe poi vissuto, alle gioie, agli affanni, pensò ad ogni curva che, inevitabilmente l’avrebbe strappata sempre più al suo sguardo, ed alla strada che lei avrebbe poi dovuto far da sola, e si rispecchiò nei suoi occhi, anche lei aveva un’ambra di miele che li rendeva luccicanti.

 

In silenzio si avvicinò la strinse a sé con tutta la forza che avrebbe potuto imprimere ad un abbraccio senza temere di farle del male, la strinse forte così come lei chiedeva da bambina. Una goccia di rugiada scese a rigargli il volto e cadendo s’impastò con quella di miele che scorreva sulla guancia di lei. Mescolandosi avrebbero dato origine ad un nuovo sapore, che univa il prima ed il poi, in quell’attimo magico dove i sedici anni già vissuti s’incontravano con quelli di quel presente.

 

Perché sedici anni sono proprio così, un casino incontenibile, che quando arrivano ti travolgono ma poi, una volta passati, puoi soltanto scriverli per ricordarti di averli vissuti.

 

 

Polaroid è marchio registrato di proprietà dell'omonima Azienda. Nello scorso secolo era sinonimo di un diffuso sistema fotografico a sviluppo istantaneo che permetteva di ottenere una foto stampata dopo pochi istanti dallo scatto. la sua caratteristica era che tale foto non aveva negativi, rimaneva copia unica ed irripetibile. Come il tempo. Come gli anni

 

 
 
 
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