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Picchiabbò (di Trilussa)

Storia della Colonna Infame (di Alessandro Manzoni)

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Il Dittamondo, Libro Primo

Il Dittamondo, Libro Secondo
Il Dittamondo, Libro Terzo
Il Dittamondo, Libro Quarto
Il Dittamondo, Libro Quinto
Il Dittamondo, Libro Sesto

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OPERE COMPLETE: POESIA

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Rime inedite del Cinquecento (di vari autori)
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La duttrinella. Cento sonetti in vernacolo romanesco. Roma, Tipografia Barbèra, 1877 (di Luigi Ferretti)

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Li promessi sposi. Sestine romanesche (di Ugo Còppari)

Nove Poesie (di Trilussa)

Piazze de Roma indice 1 (di Natale Polci)
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La preghiera a San Giuseppe

La preghiera a San Giuseppe

San Giuseppe frittellaro,
tanto bono e tanto caro,
tu che sei così potente
da aiutà la pòra gente,
tutti pieni de speranza
te spedimo quest’istanza.

Fa sparì da su ‘sta tera
chi desidera la guera;
fa venì l’era beata
che la gente affratellata
da la pace e dal lavoro
nun se scannino tra loro.

Fa che er popolo italiano
ciabbia er pane quotidiano
fatto solo de farina
senza ceci ne saggina.

Fa che calino le tasse
e la luce, er tranve e er gasse;
che ar telefono er gettone,
nun lo mettano un mijone;
che a potè legge er giornale
nun ce serva un capitale;
fa che tutto a Campidojo
vadi liscio come l’ojo;
che a li ricchi troppo ingordi
je se levino li sordi
pe’ curà quer gran malato
che sarebbe l’impiegato
che, così, l’avrebbe vinta
e s’allarga un po’ la cinta;
mò quer povero infelice
fa la cura dell’alice...
e la panza è tanto fina
che s’incolla co’ la schina.

O mio caro San Giuseppe
famme fa un ber par de peppe,
ma fa pure che er pecione
nun le facci cor cartone
che sinnò li stivaletti
doppo un mese che li metti
te li trovi co’ li spacchi
senza sola e senza tacchi.

E fa pure che er norcino
er salame e er cotechino
ce lo facci onestamente
cor maiale solamente
che sinnò li drento c’è
tutta l’arca de Noè.

Manna er freddo e manna er sole
tutto quello che ce vole
pe’ fa bene a la campagna
che sinnò qua nun se magna.

Manna l’acqua che ricrea
che sinnò la sora Acea
ogni vorta che nun piove
s’impressiona e fa le prove
pe’ potè facce annà a letto
cor lumino e er moccoletto.

O gran Santo benedetto
fa che ognuno riabbia un tetto.
La lumaca, affortunata,
cià la casa assicurata
che la porta sempre appresso...
fa pe’ noi puro lo stesso...
facce cresce su la schina
una camera e cucina.

Fa che l’oste, bontà sua,
pe’ fa er vino addopri l’uva
che sinnò quanno lo bevi
manni giù l’acqua de Trevi.

Così er vino fatto bene
fa scordà tutte le pene
e te mette l’allegria.
Grazzie tante...
accusì sia!

Checco Durante
1950
Da "Acquarelli"

Il personaggio di S. Giuseppe, è sempre stato molto venerato dal popolo romano. Di questo sono testimonianza le tante chiese costruite a Roma in suo onore, e la grande diffusione del nome Giuseppe o Giuseppina tra la gente. Per questi motivi il 19 Marzo è sempre stata una data particolare a Roma.La celebrazione del 19 marzo ha origini antichissime. La festa cristiana di San Giuseppe, sposo di Maria e padre putativo di Gesù, si innesta su riti di origine pagana, con un collegamento in primo luogo di calendario: il 19 marzo è, infatti, la data alla vigilia dell’equinozio di primavera in cui si svolgevano gli antichi riti dionisiaci di propiziazione e fertilità, i baccanali, poi vietati anche a Roma per l’eccessiva licenziosità dei costumi.

La festa cattolica ha origine nella Chiesa dell’Est e venne importata in Occidente e nel calendario romano nel quindicesimo secolo, con la data fissata al 19 marzo. Pio IX dichiarò San Giuseppe patrono della Chiesa universale nel 1870, mentre Pio XII° stabilì che la data del 1° maggio fosse dedicata a San Giuseppe lavoratore.

Alla sua figura di patrono dei falegnami e degli artigiani viene associata anche quella di protettore dei poveri, perché come poveri in fuga Giuseppe e Maria si videro rifiutata la richiesta di un riparo per il parto.

A Roma la festa di San Giuseppe è sempre stata accompagnata da grandi festeggiamenti: nella Chiesa di San Giuseppe dei Falegnami, al Foro, la confraternita dei Falegnami organizzava solenni festeggiamenti e banchetti a base di frittelle e bignè, da cui il detto romano "San Giuseppe frittellaro". La tradizione nell’800 è talmente radicata tra il popolo che viene ricordata da poeti e scrittori come il Belli e Zanazzo, fino alla più recente preghiera a "San Giuseppe frittellaro" di Checco Durante del 1950.

Di quella che agli inizi del secolo Giggi Zanazzo definiva "ffesta granne", durante la quale i "cristiani bbattezzati" mangiavano frittelle e bignè a tutto spiano, è rimasto negli anni recenti solo un pallido ricordo nel quartiere Trionfale. Momento clou della festa, che prevedeva anche cerimonie religiose e spettacoli musicali in piazza della Rotonda, era l'invasione nelle strade dei friggitori, con i loro "apparati, le frasche, le bbandiere, li lanternoni, e un sacco de sonetti stampati intorno ar banco, indove lodeno le fritelle de loro, insinenta a li sette cèli". Il testo dei cartelli osannava i miracolosi poteri dei dolci venduti: "E chi vuol bene mantenersi sano / di frittelle mantenga il ventre pieno", in grado di far tornare la vista ai ciechi, la parola ai muti e persino di far camminare gli storpi... nemmeno una parola però rispetto agli effetti di queste "abbuffate" sul fegato!

Note tratte dal sito laboratorioroma

 
 
 
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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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