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« Come si svegli AmoreCanzoniere inedito 9 »

Giovanni Muzzarelli

X
Di M. Giovan Mozzarello

1

Mentre i superbi tetti a parte a parte
Ardean di Roma e l’altre cose belle,
Mandava il pianto infin sovra le stelle
Il popol tutto del figliuol di Marte:

Sol cantava Neron, asceso in parte
Onde schernia le genti meschinelle,
Fra sé lodando or queste fiamme or quelle,
Per far scrivendo vergognar le carte.

Così di mezzo il cor ch’ella governa
Mira lieta il mio incendio, e tutta in pianti
De’ miei tristi pensier la turba afflitta,

Donna che sol di ciò par che si vanti,
Essendo in mille essempi già descritta
Sua crudeltate e la mia fiamma interna.

2

Deh perché a dir di voi qua giù non venne
Quel che cantò il furor di Troia e d’Argo,
Donna, ch’avete il ciel cortese e largo,
Che più vi diede assai che non ritenne?

Io, quel che più ad Omero si convenne,
Le vostre lode in molte carte spargo:
Ch’avess’io per mirarvi gli occhi d’Argo,
Poiché non ho d’alzarvi al ciel le penne.

Per fornir il suo don devea natura
Darmi così mill’occhi e mille lingue
Come tanta beltà concesse a vui;

Ch’espor non posso in voce eletta e pura
Con una lo splendor, ch’ogni altro estingue,
Né rimirarlo a pien con questi dui.

3

Dopo lungo servir senza mercede
E tener sempre in dubbio i miei desiri,
Con poca speme e lunghi aspri martiri
Acerba prova far de la mia fede,

E già che ’l mio desio tutto si vede
Nel volto espresso pur ch’altri vi miri,
Non aran pace omai tanti sospiri
E ’l cor che già gran tempo altro non chiede?

Deh se v’è il mio servir noto per prova,
Deliberate almen, dolce mia speme,
O di finirmi o di tenermi in vita.

Né pietà tardi il suo soccorso mova,
Che l’alma già vicina a l’ore estreme
Non può gir molto in aspettando aita.


4

Quei leggiadri d’amor pensieri ardenti,
Che ’n mezzo del mio cor s’han fatto albergo,
Mi spronan sì che tutti impenno ed ergo
Ad alta impresa i miei desiri intenti.

Però de gli occhi più che ’l sol lucenti
E del bel viso, in ch’io mi specchio e tergo,
De la mia donna mille carte aspergo
Per dimostrarla a le future genti.

So ben che troppo incarco ho preso addosso,
Ma fo sì come quel che poco prezza,
Per mirar fiso il sol, rimaner orbo.

Tanto avanza il mio stil la lor bellezza
Che vergogna con man da gli occhi forbo,
Ma contrastare al gran desio non posso.

5

Al fonte de gli ardenti miei desiri
Guidommi Amor, il mio nemico eterno,
Per darmi a diveder che nel suo inferno
Il peggio è ch’uom talor goda e respiri:
Tregua ebb’io ne la guerra de’ martiri,
Ma che pro, se dapoi ’l mio duol interno
Crebbe maggior e fu (se ben discerno)
Un rinovar de’ già stanchi sospiri ?
Meglio era aver la man pronta ed ardita
Contra me stesso, e questa frale scorza
Spogliar dinanzi a lei, che viver senza;
E m’averrà, s’a l’alma sua presenza
Ritorno mai: ed o pur ch’abbia forza
D’impetrar dal dolor sì lunga vita!

Mentre che voi ne’ vaghi ampi soggiorni
Della città, che spera ancor per vui
D’agguagliar lieta il ben d’i primi tempi,
Fondate nella mente opra per cui
Se stessa tutta e i sette colli adorni
D’antica gloria e renda voti a i tempi,
Stancando voi sotto il celeste incarco
Col Vicario di Dio, che con voi parte
L’alte cure che ’l ciel commise a lui,
E fate dubbio altrui
Qual sia il senno o la fede in voi maggiore,
L’oprar bene o la speme, onde sì carco
Si fa il mondo e gioioso d’ogni parte,
Quando il vostro destin cominciò in parte
Verso tanta virtù farsi men parco,
Io qui, signor, per procacciarvi onore
E la lingua e la man stanco e lo ingegno,
E perché al secol che verrà sien conti,
Il nome di LEONE e ’l vostro ingegno
Di risonar a i monti,
E della nostra età gli alti ornamenti
Portar cantando in fin al cielo, a i venti.

Così, vie più che saggio ardito forse,
Su le sinistre coste d’Appennino
Fin d’Elicona trar le Muse ho spene;
E sì quelle chiamando adoro e inchino,
Arso d’amor, che da che pria s’accorse
Non pur vaga una al mio pregar sen viene,
Né sdegna a i versi miei temprar la voce,
Sempre inalzando più le mie speranze
Con gli ardenti desii in ch’io le affino.
Ma, lasso, empio destino,
Quand’ha più pace, il cor spaventa in guisa
Ch’ei trema in mezzo ’l foco ove si coce;
E perché dietro a l’altre desianze
Di pensier in pensier sé non avanze,
Quel che sol più d’ogn’altro in ciò mi noce,
Povertà, da ciascun tanto derisa,
Mi è già vicina; ed io non posso aitarmi
Se voi, signor, in cui la mente spera,
Non ripigliate l’armi,
Porgendo a quel ch’è di virtude un sole
Miste con preghi un dì queste parole:

"O sacro Re, con cui l’eterno impero
Largamente ha diviso il sommo Giove,
Che contento or da voi gran cose attende,
Vicino a i lidi ov’Adria freme ed ove
Fra ’l Rubicone e ’l bel Metauro altero
Più lungi un corno il re de’ monti stende,
Per sparger sol di voi la fama e ’l grido
Dal Borea a l’Austro, e fin da Gange a Tile,
Fa desioso un uom tutte le prove.
Sol vero amor il move
E desio di piacervi e maravaglia
Delle tante virtù che ’n voi fan nido:
Di ciò si pasce, ogni altra cosa ha vile.
Ma mentre innalza e la voce e lo stile,
Volando dietro al suo pensier più fido
Che già gl’impenna i vanni e lo consiglia
Lasciar la terra e sollevarsi al cielo,
Con più furor minaccia, ov’ei men teme,
Stella nemica, e face il cor un gelo,
E la maggior sua speme
Fondata sol ne le impromesse vostre
Par che più frale ad or ad or li mostre.

Per che da l’alte e gloriose cure
Ne ’l ritrae stanco sì malvagia sorte
A pensar se da lui fosse il diffetto;
In tanto il duol, che suol doler più forte
Ne l’alme in sé ben d’ogni error sicure,
Di gelati pensier gli ingombra il petto.
Ma poi che, ahi lasso, a sé mirando in seno
Vede il cor senza colpa aperto e ignudo,
Vive una lunga e dispietata morte.
E ben ch’il riconforte
Sua conscienzia e a ben sperar l’invite,
E bontade onde avete il cor sì pieno
Sia quasi incontro a ria fortuna scudo,
Non per questo il destin fallace e crudo,
Che colma il viver suo d’atro veleno,
Creder lascia che mai contra il costume
Possa seco tener pace né tregua.
Ben priega il vostro a lui cortese nume
Che, perché altri il persegua,
Non gli manchi ei del primo almo soccorso
Mentre ancor son le sue speranze in corso.

Sapete ben per mille essempi e mille
Che a far per vera gloria un uom eterno
Senza i suoi studi ogn’altra cosa è vana.
Tanti eccellenti asconde il cieco inferno,
Cui fugge a pena Enea solo od Achille
Di quei che vide la città troiana,
De’ quali un stuol non men grandi ed egregi
Si tace ancor, che lodator non ebbe,
Quale Mantoa e Smirna al secol derno.
E se ben ver discerno,
Non ha d’altro il gran lauro oggi più fama
Che perché voi, maggior di tutti i pregi,
Al mondo diè, che senza voi sarebbe
Misero ed orbo, ed a sue lode acrebbe
Febo e Minerva e gli onorati fregi
Di Poesia, ch’ancor per padre il chiama.
Dunque al vostro splendor questo s’aggiunga,
Che, oltra che a voi convien l’usar pietade,
Chi sa che ad alto un dì questi non giunga
In più matura etade,
Se non gli manca il vostro aiuto usato,
Lo stil rompendo del maligno fato ?

Che già stella crudel tener in guerra
Non dee poter un uom che sì v’onora,
Contra cui fora ogni sua forza stanca,
Se vi specchiate in quel che in ciel s’adora,
Il cui loco sedendo ornate in terra,
Ch’ad alcun suo fedel giamai non manca;
Né per nuovo accidente effetto torre
A le vostre impromesse o mutar voglia
Dovria quel saggio cor ch’in voi dimora,
E mostra ad ora ad ora
Vie maggior opre assai che e’ desir nostri.
Sì vedrem poi il camin, che questi corre
Seguendo ove se stesso ir alto invoglia,
Forse privo del mal che pur l’addoglia,
Aguagliar alcun dì, ch’ora il precorre,
E scriver poi con più lodati inchiostri
Tutto quel per che al fin di tanti danni
Il mondo è sì di voi ricco ed adorno,
Sì che a tal che verrà dopo mill’anni
Sen muova invidia e scorno,
E faccia a l’altra età di tempo in tempo
Ir sospirando il ben del nostro tempo".

Canzon, se ’l più d’ogn’altro
Pregiato BEMBO vedi, ove t’invio,
BEMBO, ver cui l’amor cresce in me quanto
Fu sempre in lui valore e cortesia,
Non perché alcun giamai fosse, né fia,
Che di tanta vertù riporti il vanto,
Ma di vincer se stesso ha ancor disio,
A lui ti mostra; e se tua ragion trovi
Al buon giudicio intiero esser piacciuta,
Tientene vaga e poi sicura movi;
E ’l mio signor saluta
Umilemente, e pregal ch’altri preghi
Che sì giusto disio non mi si nieghi.

Giovanni Muzzarelli
Da: Rime diverse di molti Eccellentissimi Autori (a cura di Lodovico Domenichi - Giolito 1545)

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Data di creazione: 26/04/2008
 

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