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Messaggi di Maggio 2015

A uno litterato novellino...

A uno litterato novellino monimento

Giovinciel, se tu vuo' di rinomea
Proveccio, e' tuo' dittati aggian nitore,
Cansa la mala via, sèrbati fuore
Di quella fuia aquilonar vallea

Dove anfana la frotta che donnea
Co la ria stummia de lo stil peggiore
Scialando invecerie sanza dolzore
Per sua carenzia di diritta idea.

De' caporani nostri abbiti a speglio
Gli eloquii stietti, bontadiosi, arguti,
Per avacciarti de lo bene in meglio.

Esto faccendo, viva e floriscente
Godraiti orranza, infin che non si stuti
Quello sole di Dio magno e sprendiente.

Giuseppe Gioachino Belli
5 novembre 1843

Da "Poesie inedite" di Giuseppe Gioachino Belli Romano, Volume 1", Roma, Tipografia Salviucci 1865, pagina 20

Mio glossario:

Rinomea (Dal 4° Dizionario de La Crusca.)
Definiz:     V. A. Rinomanza. Lat. nomen, fama.
Esempio:     G. V. 4. 13. 1. Avemo nominati i nobili, e possenti della città di Firenze, che al tempo dello Imperatore Currado Primo ec. erano di rinomea, e di stato in Firenze.
Esempio:     E G. V. 12. 34. 5. E intra gli altri di rinomea vi morì messer Francesco de' marchesi da Esti.
Esempio:     Tac. Dav. ann. 4. 98. Afro n'ebbe rinomea tra' primi oratori.
rinomea [ri-no-mè-a] n.f. pl. -ee (Garzanti linguistica)
(ant.) rinomanza, celebrità
Etimologia: ← dal fr. renommée, deriv. di renommer ‘rinomare’.
provèccio (o provècchio) s. m. [dallo spagn. provecho, che è il lat. profectus -us, der. di proficere «avanzare, progredire, avvantaggiarsi», part. pass. profectus], ant. - Utilità, guadagno, profitto economico, o anche progresso politico: guadagno, ch’ei dicon proveccio, Cioè rapina e furto (Buonarroti il Giov.); avversando e disfavorendo i provecci postivi e intellettuali delle nazioni (Gioberti). (Treccani Online).
Aquilonare agg. [dal lat. tardo aquilonaris], letter. - D’aquilone: vento a.; che viene dalla parte di aquilone o è volto verso aquilone; settentrionale: regione a.; Su l’aspra riva cui l’aquilonare Flutto castiga (Carducci).  (Treccani Online).
Vallèa s. f. [dal fr. vallée, der. di val «valle»], poet. - Vallata, valle: Quante ’l villan ch’al poggio si riposa ... Vede lucciole giù per la v. (Dante); l’anima tornata Dalla squallida v. [=dal Limbo], Al Divino che tacea: Sorgi, disse, io son con Te (Manzoni). (Treccani Online).
Anfanare v. intr. [forse affine ad affannare] (io anfàno, ecc.; aus. avere), non com.
1. Propr., parlare a vanvera, a sproposito: tu farnetichi ... e anfani a secco (Boccaccio); poi anche affaccendarsi, affannarsi inutilmente: che cosa è tutto questo a., gridare, rissare? (Pascoli); fig.: in quel grande a. di vita nuova (Carducci).
2. ant. Andare qua e là senza scopo. (Treccani Online).
Donnea. Donneare: Definiz: Da Donna. Fare all'amor colle donne, o Conversar con esse per ispassarsi.
Esempio:     Nov. ant. 79. 1. Levate le tavole, menaronlo a donneare.
Esempio:     Dant. Par. 27. La mente innamorata, che donnéa Colla mia donna.
Esempio:     E Dan. rim. 40. Non moverieno il piede Per donneare a guisa di leggiadro.
Esempio:     Libr. Mott. Ella non voleva, che attendeva a donnear con M. Ricciardo (quì: fare all'amore, ed è detto della donna coll'uomo.)
Definiz:     §. Per metaf.
Esempio:     Dant. Par. 24. Ricominciò: la grazia, che donnéa Colla tua mente, la bocca t'aperse.
Esempio:     Dittam. 1. 12. E Giano appreso a donnear mi prese (parla la città di Roma).  (Dal 4° Dizionario de La Crusca.).
donneare v. intr. [dal provenz. domneiar, der. del lat. domina, domna: v. donna] (io donnèo, ecc., ma le forme del pres. indic. e cong. sono rare), ant. - Trattenersi in conversazione, amichevole o galante e amorosa, con una o più donne; corteggiare, amoreggiare: e la badessa e le suore li veniano incontro e, in sul d., quella che più li piacesse, quella il servia (Novellino); non moveriano il piede Per d. a guisa di leggiadro (Dante); anche fig.: La mente innamorata, che donnea Con la mia donna sempre (Dante), che si compiace di vagheggiarla. (Treccani online).
Fròtta s. f. [dal fr. ant. flotte «gruppo numeroso»; cfr. flotta2]. - Gruppo, in genere non ordinato, di persone che vanno insieme: una f. d’amici, di soldati; una f. di ragazzi si era radunata sulla piazza del paese; per estens., anche di animali, di veicoli: la setolosa f. [di maiali] Correr da monti suole o da campagne (Ariosto); Le f. delle vaghe api prorompono (Foscolo); una f. di barche, di carri. Locuz. avv. in frotta, a frotte, in gruppo, a gruppi più o meno numerosi: andare a frotte, fuggire in frotta; I fanciulli gridando Su la piazzuola in frotta, E qua e là saltando, Fanno un lieto romore (Leopardi).  (Treccani Online).
Stumia, e Stummia.
Definiz:     Schiuma. Lat. spuma, despumatio.
Definiz:     §. Stumia di ribaldi, o simili, si dice per UIngiuria a dinotare eccesso di ribaldería.
Esempio:     Tac. Dav. ann. 6. 113. Tiberio dicendoli stumie de' ribaldi, comandò a G. Cestio senatore, che quanto a lui ne aveva scritto dicesse al senato.
Esempio:     Buon. Fier. 1. 3. 11. La stumia de' ribaldi veramente Si posson dir costoro.
Esempio:     Malm. 7. 91. Andate, dice, o stummia di furfanti.  (Dal 4° Dizionario de La Crusca.).
Caporani. Definiz di caporano: V. A. Uom principale, Maestro, e quasi Caporale degli altri. Lat. princeps, decurio. Gr. γεμών.
Esempio:     Fr. Giord. Pred. S. Ma questo Fariseo queste cose non pensava, e però gli pareva essere un gran caporano. (Dal 4° Dizionario de La Crusca.).
Invecerie. Invecerìa o inveceria: Definiz: V. A. Sceda, Vanità, Scempiaggine. Lat. nugae, gerrae, tricae, ineptiae. Esempio: M. V. 8. 47. Ed altre molte cose simili a queste, vane, e pompose, e piene di tante inveceríe, che forse a Dio ne dispiacque (i T. a penna hanno invecceríe). (Dal 4° Dizionario de La Crusca.).
Spèglio s. m. [dal provenz. ant. espelh, che è il lat. speculum: v. specchio], ant. e letter. - Specchio: Quella ... Che sola agli occhi miei fu lume e speglio (Petrarca); Alfin di consigliarsi al fido speglio La tua dama cessò (Parini).  (Treccani Online).
Avacciare v. tr. [der. di avaccio] (io avàccio, ecc.), ant. - Affrettare, sollecitare: quella angoscia Che m’avacciava un poco ancor la lena (Dante); rifl., affrettarsi: avacciandosi sopragiunse l’adirato marito (Boccaccio).  (Treccani Online).
orranza, orrare, orrato. - Varianti ant. (per sincope e assimilazione) di onoranza, onorare, onorato.  (Treccani Online).
Sprendiente: Splendente.
Esempio 1: Se vo' vegno, e non veggo lo sprendïente viso (Betto Mettefuoco da Pisa - Amore, perche m' hai)
Esempio 2: tant'è gioioso, fresco ed avenente: / volere e core meo, sie coraggioso, / perch'ami lo rubino sprendïente. / E sprendïente siete come 'l sole, / angelica figura e dilicata, (Dante da Maiano - O rosa e giglio e flore aloroso);
Esempio 3: volere e core meo, sie coraggioso, / perch'ami lo rubino sprendïente. / E sprendïente siete come 'l sole, / angelica figura e dilicata, / ch'a tutte l'altre togliete valore. (Dante da Maiano - O rosa e giglio e flore aloroso).

 
 
 

5 sonetti in italiano del Belli

Il mio barbiere

Il mio barbiere è un uom che in mente serra
Dell'universo intier tutti gli affari
Attalché se morissero i diarî
Porriane ei solo consolar la terra.

E sì ben ve ne spiega i corollarî
Quando pel naso o per lo crin vi afferra,
Che gli orator di Francia o d'Inghilterra
Si direbbono in ciarla i suoi scolari.

Lieto inoltre e civil co' suoi clienti
Serve ciascuno come più gli garba
Colmandoli d'inchini e complimenti.

Eppur, chiedendo egli oggi a un baccalare
Come vuole il Signor farsi la barba?
Gli risponde colui: senza parlare. (1)

Giuseppe Gioachino Belli
15 dicembre 1842

Nota: (1) Plutarco: Del parlar troppo: 20.

Da "Poesie inedite" di Giuseppe Gioachino Belli Romano, Volume 1", Roma, Tipografia Salviucci 1865, pagina 15


Storia del Secolo XII°

La saprete ancor voi la gran disfatta
Che diedero i Bresciani ai Cremonesi (1)
Quando per Merlo ed altri due paesi (2)
Questa e quell'oste al paragon fu tratta;

E come all'urto dello scaltro Biatta, (3)
Uscito di Rudian co' suoi borghesi,
Que' malcolti gittâr daghe e palvesi
Nè il fuggir ne arrestò fosso nè fratta.

Che strage! A quanti della vita il lume
Spento non fu dall'ostil ferro, ahi tanti
Giù ne' vortici suoi travolse il fiume! (4)

Mentre di senno fuor come d'ardire
Fra l'acque entrando e cavalieri e fanti
Dicean: meglio annegarsi che morire (5)

Giuseppe Gioachino Belli
18 dicembre 1842

Note: (1) Il 7 luglio 1191. (2) Merlo, Calepio, Sarnico. (3) Biatta di Palazzo, Capitano de' Bresciani nel castello di Rudiano. (4) L'Oglio. (5) Tutta verità storica.

Da "Poesie inedite" di Giuseppe Gioachino Belli Romano, Volume 1", Roma, Tipografia Salviucci 1865, pagina 16


Diciotto inscrizioni

Ventaliaro, è si acomoda l'ombrelli.
Calsoni scudi tre colla casacca.
Gniochi famosi. Polvere da cacca.
Rete, speccietti, è gabie per l'ucielli.

Oglio di Luca. Uino de chastelli.
Latte a tutt'ora di somara, è vacca.
Cholla, che la terraglia non si staccha.
Fabrica, è spacco di solami, è pelli.

Calcia smorsata. Ostaria di cocina.
Letti con stalla. Schola per fanculli.
Squaglio di coccolata soprafina.

Negozzio di miniatte, è granci teneri.
Si fa ualigge inglese, è li bavulli.
Caffè della Speranza ed altri generi.

Giuseppe Gioachino Belli
20 dicembre 1842

Da "Poesie inedite" di Giuseppe Gioachino Belli Romano, Volume 1", Roma, Tipografia Salviucci 1865, pagina 17


Il sole

Quella di foco immensurabil fonte
Che eterna gira a questo globo intorno,
Fida alternando colla notte il giorno
Tratta dal monte al mar, dal mare al monte,

Dal punto che vien fuor dell'orizzonte
Fin che, percorso il ciel, vi fa ritorno,
Piange il creato, e di sue fiamme adorno
Rallegra l'uomo e gli lampeggia in fronte.

Eppur discesi dagli aurati cocchi
Dopo i ludi notturni e le carole,
Tanti al lume del dì serrano gli occhi;

Mentre poi chiusi fra cortine e porte
Fingonsi i lieti rai del vivo sole
Con trista luce di sostanze morte.

Giuseppe Gioachino Belli
2 gennaio 1843

Da "Poesie inedite" di Giuseppe Gioachino Belli Romano, Volume 1", Roma, Tipografia Salviucci 1865, pagina 18


Il sol d'agosto

Il dir che il libricciuol che tu componi
Si raggiri sul falso e inventi fole,
Sarebbe, amico, niegar luce al sole
E provarsi a chiamar neve i carboni.

Ma a che sfoggio di tante ragioni,
Di tanti testi e di tante parole
Per raccontarci con tutte le scuole
Che a questo mondo si dev'esser buoni?

Qual pro dar per consiglio e per precetto
Una trita sentenza e universale
Che ogn'uom bennato l'ha scolpita in petto?

Verità è questa troppo a quella eguale
D'un pastorel che principiò un sonetto
San Pietro negò Cristo e fece male.

Giuseppe Gioachino Belli
1 novembre 1843

Da "Poesie inedite" di Giuseppe Gioachino Belli Romano, Volume 1", Roma, Tipografia Salviucci 1865, pagina 19

 
 
 

3 sonetti in italiano del Belli

Pot-pourri e frasi raccozzate per via

Della quale è fratello. Aveano avuto ...
Dunque venite spesso. E non mi tocchi.
Cinquantasette scudi e tre baiocchi.
Noi non siano peraltro ... E lo statuto?

Qualche cosa accadrà. Di Cassi e Bruto.
Stalla, rimessa ... Gliela fa sugli occhi.
Indigesti poi no, perché nei gnocchi ...
Vero assassinio! Aiutati e t'aiuto.

Ma, i turchi ... Niente: io voglio cose chiare.
Era finito o no? Quanta albagia!
Cambio o censo. Si sa, l'acqua va al mare.

Post prandium stabis. Quello fa la spia
Già, la guglia più grande. Oh, addio compare.
In conclusione o paghi o vada via

Giuseppe Gioachino Belli

Da "Poesie inedite" di Giuseppe Gioachino Belli Romano, Volume 1", Roma, Tipografia Salviucci 1865, pagina 11


Paragrafo di vecchia lettera di ufficio

Ed avendo il medemo bariggello
Conforme dal Marchese sullodato
Gli era stato ordinato, diramato
Detta squadra alle fosse del castello,

Per cui, qualora il ladro preitato
Non era già sortito dal cancello,
Non poteva più evadere da quello,
Mediante ch'era chiuso e ben guardato;

Potè poi come sopra aver la sorte
Far sì che il ripetuto malfattore
Venisse a rimaner dentro le porte;

E perciò lo trovò, gli levò il quadro,
Lo legò, lo portò dal superiore,
E andò in galera (vale a dire il ladro).

Giuseppe Gioachino Belli
26 novembre 1842

Da "Poesie inedite" di Giuseppe Gioachino Belli Romano, Volume 1", Roma, Tipografia Salviucci 1865, pagina 12


Le italiane lettere


Oggimai la nostra letteratura
S'è talmente diffusa in fra gli estrani
Che molti oltremarini e oltramontani
La intendono e vi fan buona figura.

Di Vittoria Colonna entro lor mura
Ier poëtavan gli arcadi romani,
E una Lady gentil battea le mani
Ad ogni voce e frase anche più oscura.

Finita l'accademia, un pastorello
Si fe' a complire coll'anglica donna
Del saper l'italian così a capello.

Ed ella guizzolando entro la gonna
Thank-you. rispose: ooh sì, trovato bello!
Tuto in onore di piaza Colonna.

Giuseppe Gioachino Belli
2 dicembre 1842

Da "Poesie inedite" di Giuseppe Gioachino Belli Romano, Volume 1", Roma, Tipografia Salviucci 1865, pagina 13

 
 
 

La proficua lettura

Post n°1678 pubblicato il 31 Maggio 2015 da valerio.sampieri
 

La proficua lettura

Un baron, che di tutto ha qualche lume
Dal tresette-scoperto all'equinozio,
E, come de' suoi pari è bel costume,
Suol leggere talor per rabbia d'ozio,

Comprò al fôro agonale (e si presume
Che facesse buonissimo negozio)
Dodici copie del terzo volume
D'un commento sull'opere di Grozio.

Un po' quindi per giorno e senza fretta
Le scorse il valentuomo, e tirò innante
Fin che ciascuna non ne avesse letta.

Finite che poi l'ebbe tutte quante,
Disse a un marchese amico suo: lunghetta,
Ma una storia davvero interessante.

Giuseppe Gioachino Belli
6 dicembre 1842

Da "Poesie inedite" di Giuseppe Gioachino Belli Romano, Volume 1", Roma, Tipografia Salviucci 1865, pagina 14

 
 
 

Viaggio in Italia 2

Post n°1677 pubblicato il 31 Maggio 2015 da valerio.sampieri
 

Roma, alla fine di giugno.

Sono entrato in una scuola troppo grande per poter uscirne con celerità. Le mie cognizioni artistiche ed il mio poco talento devono andar fino in fondo, devono diventare ancor più maturi, altrimenti io vi porterò indietro di nuovo un mezzo amico, e il desiderio, la pena, l'andare e il venire saranno perduti. Non la finirei mai se vi dovessi raccontare come tutto questo mese di giugno mi è stato proficuo: come mi è stato presentato, se posso dir così, su di un piatto, tutto quello che ho desiderato. Abito in un bell'appartamento, ed ho buoni padroni di casa e vicini. Tischbein va a Napoli ed io prendo in affitto il suo studio, una bella sala fresca. Quando pensate a me, pensate ad un uomo felice; io vi scriverò molto spesso, e così siamo e rimarremo insieme.

Ho anche abbastanza idee e pensieri nuovi; e ritrovo tutta la mia prima gioventù fin nelle cose più piccole; frattanto mi lascio andare alla deriva, e poi lo splendore e il valore degli oggetti che mi circondano mi portano di nuovo così in alto e così avanti, come solo può raggiungere la mia ultima esistenza. Il mio occhio si forma con grande celerità e la mano non gli rimane indietro. C'è una sola Roma in tutto il mondo ed io mi trovo come un pesce nell'acqua e nuoto come una palla vuota nel mercurio e in un altro liquido va a fondo. Nulla offusca l'atmosfera dei miei pensieri all'infuori del rammarico di non poter dividere coi

miei cari questa felicità. Il cielo è ora magnificamente sereno, così che Roma ha una leggera nebbia solo la mattina e la sera. Ma sui monti, ad Albano, Castello e Frascati, dove la settimana scorsa ho passato tre giorni, c'è sempre un'aria purissima. E una natura da studiare, questa!

Roma al chiaro di luna

2 febbraio 1787.

Passeggiare per Roma in pieno chiarore lunare è cosa talmente bella che chi non l'ha veduto, non può farsene un'idea. Tutti gli oggetti vengono avviluppati da grandi masse di luce e di ombra e solo le grandi masse sono visibili all'occhio. Sono già tre notti che noi ci godiamo questo spettacolo splendido e luminoso, spettacolo che davanti al Colosseo supera qualunque immaginazione. Di notte viene chiuso, solo un eremita abita in una piccola chiesetta, mentre i mendicanti invadono le volte ruinate. Costoro avevano acceso un fuoco sul pavimento levigato; una leggera brezza spingeva il fumo nell'arena, di modo che la parte bassa delle ruine ne era coperta ed i prodigiosi muri m alto si protendevano oscuri. Noi eravamo appoggiati ad una ringhiera e guardavamo il fenomeno; la luna immobile nel cielo era limpidissima. Lentamente il fumo strisciò a traverso le pareti, i pilastri e le aperture, mentre la luna lo colorava come una nebbia. Era uno spettacolo magico. Così bisogna vedere illuminati il Pantheon ed il Campidoglio, San Pietro e tutte le altre piazze e strade di Roma. E così anche il sole e la luna, come l'ingegno umano, hanno qui un ufficio ed un compito diverso da quello che hanno altrove; qui si offrono a loro masse prodigiose e pure, perfette...

Roma, 14 aprile.

La mia partenza da Roma doveva poi prepararsi in una maniera specialmente festosa: tre notti prima la luna piena splendeva nel cielo purissimo, e l'incanto della grande città così illuminata era infinitamente penetrante. Le grandi masse di luce chiara sembrava provenissero da un giorno dolce e tacevano un grande contrasto con le ombre profondissime, talvolta rischiarate da qualche riflesso, e noi credevamo di essere in un altro mondo più grande e più semplice.

Dopo giornate faticose, noiosissime e penose, volli la notte godermi quello spettacolo con pochi amici ed una volta interamente solo. Dopo aver percorso per l'ultima volta tutto il Corso, salii sul Campidoglio, che s'erge solitario come un palazzo incantato. La statua di Marco Aurelio faceva ripensare al Commendatore del Don Giovanni e sembrava che volesse far comprendere allo spettatore che stava per intraprendere qualche cosa d'inusitato. Ciò non ostante io abbandonai la piazza e scesi i gradini dell'altro versante e davanti ai miei occhi interamente oscuro e gettando grandi ombre apparve l'arco di Settimio Severo; nella solitudine della via Sacra, i monumenti così noti, sembravano quella sera strani e spaventosi. Ma quando mi avvicinai al Colosseo e a traverso le grate potei gettare uno sguardo nell'interno, fui preso da una specie di tremito ed affrettai il ritorno.

Ogni oggetto faceva un'impressione speciale, ma sublime e comprensibile allo stesso tempo, ed in queste circostanze quella passeggiata fu una specie di magnifica " summa summarum " della mia vita a Roma.

Il dolore della partenza fu molto grande. Lasciare, senza speranza di mai più rivederla, questa capitale del mondo, della quale per tanto tempo ero stato cittadino, mi fece un'impressione che è impossibile esprimere. Nessuno può comprendere questo sentimento se non l'ha provato. Io ripetevo continuamente nella mente quei versi dell'elegia che Ovidio compose trovandosi nelle stesse condizioni in cui mi trovavo io.

Wolfgang Goethe
Tratto da: Viaggio in Italia, 1787, trad. Tornei, Officine Poligrafiche Italiane, edizione, 1905, Roma.

 
 
 

Giotto poeta

Molti son que’ che lodan povertade

Molti son que’ che lodan povertade
e ta' dicon che fa stato perfetto,
s’egli è provato e eletto,
quello osservando, nulla cosa avendo.
Acciò inducon certa autoritade,
chè l’osservar sarebbe troppo stretto;
e pigliando quel detto,
duro estremo mi par, s’i' ben comprendo:
e però no ‘l commendo.
Chè rade volte stremo è sanza vizio:
e a ben far difizio
si vuol sì proveder dal fondamento,
Chè per crollar di vento
o d'altra cosa, che si ben si regga,
che non convenga poi si ricorregga.
 
Di quella povertà ch’è contro a voglia,
non è da dubitar ch’è tutta ria;
chè di peccare è via,
facendo ispesso a’ giudici far fallo;
e d’onor donne e damigelle spoglia,
e far furto forza e villania
e ispesso usar bugia,
e ciascun priva d’onorato istallo;
e, in piccolo intervallo,
mancando roba, par chè manchi senno:
s’avesse rotto Brenno
o qual vuol sia che povertà lo giunga,
tosto ciascun fa punga
di non voler chè incontro gli si faccia,
che pur pensando già si turba in faccia.
 
Di quella povertà ch' eletta pare
si può veder per chiara esperienza,
che sanza usar fallenza
s’osserva o no, si come si conta.
E l’osservanza non è da lodare,
perchè né discrezion né coioscenza
o alcuna valenza
di costumi o di vertudi le s’afronta.
Certo parmi grand’ onta
chiamar vertute quel che spegne il bene;
e molto mal s’avviene
cosa bestial preporre alle vertute
la qua’ dona salute
ed ogni savio intendimento accetta;
e chi più vale, in ciò più si diletta.
 
Tu potresti qui fare un argomento:
- Il Signor nostro molto la commenda. -
Guarda che ben l’intenda;
chè sue parole son molto profonde,
e talor hanno dopio intendimento.
E' vuol che 'l salutifero si prenda;
però ‘l tuo viso sbenda
e guarda ‘l ver, che dentro vi s’asconde.
Tu vedrai che risponde
la sua parola alla sua santa vita,
ch'è podesta compita
di sovvenir altrui a tempo e loco;
che però ‘l Suo aver poco
si fu per noi scampar dall' avaritia
e non per darci via d’usar malitia.

Noi veggiam pur col senso molto spesso,
chi più tal vita loda manca in pace
e sempre studia e face
come da essa si possa partire;
se onori o grande istato gli è concesso,
forte l’afferra, qual lupo rapace:
e ben si contrafface,
pur che possa suo voler compire;
e sassi si coprire
che ’l pigior lupo par migliore agnello,
sotto il falso mantello:
onde per tale ingegno è guasto ‘l mondo,
se tosto non va a fondo
l' ipocrisia che non lascia parte
avere nel mondo senza aver sua arte.
 
Canzon, va': e se trovi de’ giurgiuffi,
mostrati lor, sì che tu li converti;
se pur stesson erti,
sie ghagliarda, che tosto li attuffi.

attribuita a Giotto di Bondone
pittore fiorentino, sec. xiv.

Tratta da: "Lirica italiana antica, novissima scelta di rime dei secoli decimoterzo, decimoquarto, e decimoquinto; illustrate con melodie del tempo e con note dichiarative", di Eugenia Levi (1876-?), Firenze, Bemporad 1908, pagina 191

 
 
 

Filippo Brunelleschi

Madonna se ne vien dalla fontana

Madonna se ne vien dalla fontana,
contro l' usanza, con vuoto l' orcetto;
e restoro non porta a questo petto
né con l' acqua, né con la vista umana.

O ch' ella ha visto la biscia ruana
strisciar per l' erba in su quel vialetto;
o che 'l can la persegue; o ch' ha sospetto
che stiavi dentro in guato la Befana.

Vien qua, Renzuola, vienne, che vedrai
una fontana, e due, e quante vuoi;
né dal padre severo avrai rampogna.

Ecco che stillan gli occhi tutti e duoi:
cogline tanto quanto ti bisogna:
e più crudel che sei, più ne trarrai.

Messer Filippo Brunelleschi, fiorentino
prima metà del sec. xv.

Tratto da: "Lirica italiana antica, novissima scelta di rime dei secoli decimoterzo, decimoquarto, e decimoquinto; illustrate con melodie del tempo e con note dichiarative", di Eugenia Levi (1876-?), Firenze, Bemporad 1908, pagina 185

 
 
 

Lionello d’ Este

L ‘Amor me ha facto cieco, e non ha tanto

L ‘Amor me ha facto cieco, e non ha tanto
de charità, che me conduca en via :
me lassa per despecto en mea balia,
e dice : Hor va tu, che presciumi tanto.

Et eo, perchè me sento en forze alquanto,
e stimo de truovar chi man me dia,
vado : ma puoi non sciò dovo me sia,
tal che me fermo dricto su d’ un canto.

Allora Amore, che me sta guatando,
me mostra per desprezzo e me obstenta,
e me va canzonando en alto metro,

né ‘l dice tanto pian ch’ io non lo senta :
et io respondo così borbottando :
Mostrame almen la via, che torna endietro.

di Lionello d’Este, marchese di Ferrara
Secolo XV

Tratto da: "Lirica italiana antica, novissima scelta di rime dei secoli decimoterzo, decimoquarto, e decimoquinto; illustrate con melodie del tempo e con note dichiarative", di Eugenia Levi (1876-?), Firenze, Bemporad 1908, pagina 181.

Leonello d'Este

LEONELLO. Fu de' principi di Ferrara: morì giovane; scrisse assai poco, e con poca celebrità; colpa della fortuna, alla quale non regge neppure l'ingegno, nè il merito degli scrittori, né l'autorità de' principi. Certo che Anacreonte non ha invenzione nè più graziosa, nè più amabilmente espressa di questa:
Amor mi ha fatto cieco.
E la morale che racchiude sarebbe salutarissima, a chi potesse giovarsene: se non che è più facile a non incamminarsi verso le passioni, che a tornarsene indietro dal loro affannoso sentiero.

Da: "Vestigi della storia del sonetto italiano", di Ugo Foscolo, Salerno 1816.

 
 
 

Puro si nun só' ssegreti

Post n°1673 pubblicato il 31 Maggio 2015 da valerio.sampieri
 

Puro si nun só' ssegreti

Chiedime quer che vvôi, che t'arisponno.
Ssicuro che tte faccio sapé ttutto,
pô esse bello oppur pô èsse bbrutto,
finché nun te verà dde nôvo sonno.

Magara, certe vòrte te conviene
de nun esaggerà co' le dimanne,
perché si ddei quesiti l'hai da fanne,
te serve che cce penzi mórto bbene.

Forze 'na cosa è mmejo nun sapella,
si ttu a la verità 'n zei preparato,
perché pô èsse mica tanto bbella.

Lo sai che ruzza ruzza, ce se tuzza.
Lo stesso è si vvôi esse esaggerato:
a smucinà la mmerda, vié la puzza.

Valerio Sampieri
30 maggio 2015

 
 
 

Erminia Fuà-Fusinato

Erminia Fuà-Fusinato (1834-1876):
Autrice di un libro di versi nei quali canta la famiglia, la patria, Dio, (Milano, Carrara);
d'un libro postumo di Ricordi pubblicati a Milano nel 1877 (ediz. Treves);
di Scritti letterari raccolti e ordinali da G. Ghivi-NAZZi (Milano, Carrara, 1883) a cui è premesso uno studio sull'autrice.

Fiori di serra e fiori di prato

Voi non fate per me, fiori di serra :
poco v'ho amato sempre, or vi rigetto.
Or vi rigetto, e dall'inculta terra
la mammola raccolgo ed il mughetto.

Sempre e solo quel fior coglier m'è grato
che si schiude spontaneo e non forzato.

Perch'io so ben che quando s'apre a stento
il fior, come l'amore, è presto spento.

E quando è spento il fior, come l'amore,
lascia una spina che ci punge il core!

Da: Antologia della Lirica Italiana - A Cura di Angelo Ottolini - Milano - Casa Editrice R. Caddeo & C., 1923, pag. 190

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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