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Messaggi del 20/11/2014

Il Dittamondo (1-01)

Post n°654 pubblicato il 20 Novembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo

di Fazio degli Uberti

LIBRO PRIMO

CAPITOLO I

Non per trattar gli affanni, ch’io soffersi 
nel mio lungo cammin, né le paure, 
di rima in rima tesso questi versi; 
ma per voler contar le cose oscure 
ch’io vidi e ch’io udio, che son sí nove, 5 
ch’a crederle parranno forti e dure. 
E se non che di ciò son vere prove 
per piú e piú autori, i quai serano 
per li miei versi nominati altrove, 
non presterei a la penna la mano, 10 
per notar ciò ch’io vidi, per temenza 
che poi da altrui non fosse casso e vano. 
Ma la lor chiara e vera esperienza 
m’assecura nel dir, come persone 
degne di fede a ogni gran sentenza. 15 
Di nostra etá giá sentia la stagione 
che a l’anno si pon, poi che ’l sol passa 
in fronte a Virgo e che lascia il Leone, 
quando m’accorsi ch’ogni vita è cassa 
salvo che quella che contempla in Dio 20 
o ch’alcun pregio dopo morte lassa. 
E questo fu onde accese il disio 
di volermi affannare in alcun bene, 
che fosse frutto dopo il tempo mio. 
Poi, pensando nel qual, fermai la spene 25 
d’andar cercando e di voler vedere 
lo mondo tutto e la gente ch’el tene, 
e di volere udire e di sapere 
il dove e ’l come e chi funno coloro, 
che per virtú cercâr di piú valere. 30 
E imaginato il mio grave lavoro,
drizzai i pie’ come avea il pensiero 
e cercai del cammin senza dimoro. 
Io era dentro ancor dal mal sentiero 
per lo qual disviato era ito adesso 
con gli occhi chiusi e l’animo leggiero, 
onde al partir sí mi pungeano spesso 
gli antichi pruni, che come uomo stanco 
m’assettai tra piú fior, che m’eran presso. 
Bassava il sol, che s’accendea nel fianco 40 
del Montone, onde io, per piú riposo, 
tutto mi stesi sopra il lato manco. 
Poscia m’addormentai cosí pensoso 
ed apparvonmi cose, nel dormire, 
per che a la mia impresa fui piú oso: 45 
ché una donna vedea vèr me venire 
con l’ali aperte, sí degna ed onesta, 
che per asempro a pena il saprei dire. 
Bianca, qual neve pare, avea la vesta 
e vidi scritto, in forma aperta e piana, 50 
sopra una coronetta, ch’avea in testa: 
"Io son Virtú, per che la gente umana 
vince ogni altro animale; i’ son quel lume, 
ch’onora il corpo e che l’anima sana". 
Molte donne, aleggiando in varie piume, 55 
si vedean tranquillar ne’ suoi splendori, 
come pesce, di state, in chiaro fiume. 
E giunta sopra me tra que’ bei fiori, 
parea dir: "Non giacer, tosto sta suso 
e ’l tempo, c’hai perduto, si ristori. 60 
Non pur istare in questo bosco chiuso; 
non pur cercar di su la mala spina 
coglier la rosa, sí come se’ uso. 
Pensa che qual piú lá, qui, pellegrina, 
che poi ch’è giunto a l’ultimo di suo, 65 
il tutto li par men d’una mattina. 
E farme, sete e sonno al corpo tuo 
soffrir convien, se onore e pro disii, 
e seguir me, che qui teco m’induo. 
E guarda ben che piú non ti disvii; 70 
pensa sí come i compagni d’Ulisse 
fun con Circes, onde a pena i partii. 
E pensa ancor come perduto visse 
con la sua Cleopatra oltra a due anni 
colui, a cui il Roman prima ‘voi’ disse. 75 
Onor s’acquista per soffrire affanni, 
pur che l’affanno sia in cosa degna; 
in darsi a l’ozio è vergogna con danni. 
Ancora fa che sempre ti sovvegna 
aver di sofferenza buone spalle, 80 
sí come Iob e Iacobo c’insegna. 
Per che, se vuoi veder di valle in valle 
il mondo tutto, senza lei non puoi 
cercar del mille il ventesimo calle. 
Qui non spiar, per tema, i fati tuoi, 85 
se non come Catone in Libia volse 
chieder responso, pregato da’ suoi. 
Tutti non son Papiro". Indi si tolse 
e spirò nel mio petto e non si mosse; 
onde ’l mio sonno a punto si disciolse, 90 
come per sua vertú nel cor percosse.

 
 
 

Modesta dal Pozzo

Post n°653 pubblicato il 20 Novembre 2014 da valerio.sampieri
 
Foto di valerio.sampieri

Modesta dal Pozzo

Ebbe questa valentissima donna la bizzarria di tramutare in Moderata Fonte il suo vero nome di Modesta dal Pozzo, che vi ha analogia. Nata nel 1555, perdette un anno dopo, per la peste che flagellava Venezia, i civili suoi genitori, e l’ava sua materna prese cura di farla educare in un convento, dove cominciò a dar prove di memoria prodigiosa. Uscitane di buon’ora, ed ascoltando le lezioni che davansi ad un suo fratello, prese grande e spontaneo amore agli studi, si fe’ avida di ogni lettura, e potè pervenire a scrivere picciole composizioni in latino e in italiano. In età di diciassette anni sposò Filippo di Zorzi, avvocato fiscale alle Acque, con cui visse in unione invidiabile per quattro lustri, facendolo padre di quattro figliuoli, ai quali diede ella stessa educazione, diligente restando al più esatto ed ottimo governo della famiglia, senza però lasciar mai l’esercizio delle lettere e della poesia. Di poco eccedeva i sette lustri quando in un parto ebbe a lasciare troppo [p. 324]immaturamente la vita, l’anno 1592. Molti suoi componimenti andarono per mala fortuna dispersi, ma tra quelli che ci restano rispettati dal tempo, basti il far cenno di due principali. Un libro del Merito delle Donne, prosa ingegnosa, ornata qua e là di poesie di vario genere. Giovanni Nicolò Doglioni, che ne fece eseguire la stampa in Venezia l’anno 1600, avvertì che l’opera non avea dal suo autore avuto l’ultima lima. Il Floridoro, poema diviso in tredici Canti, pubblicato da Modesta sin dall’anno 1581, ma che poi rinnovò affatto, talchè divenne altro lavoro. Questo ultimo rimase inedito: quello che vide la luce fu lodato da’ suoi contemporanei come opera da far onore ad ogni uomo di bella fama; e il cavalier Iacopo Morelli lo registrò tra i poemi più degni di essere conservati, perchè di bella immaginazione, e con istile disinvolto e pulitezza di lingua condotto. Di altro fregio può giudicarsi adorno oggidì, che tanta festa viene fatta al romanticismo, potendo a siffatto genere di componimenti appartenere.

Tratto da: Alcuni ritratti di donne illustri delle provincie veneziane (1826) di Bartolommeo Gamba.

La foto del titolo ("Ritratto di Moderata Fonte all'età di trentaquattro anni. Dal volume di Moderata Fonte, Il merito delle donne, Venezia, Domenico Imberti, 1600. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, 96 C 155") è tratta dal volume Martelli, Daria, Moderata Fonte e Il merito delle donne, Venezia: Centro Internazionale della Grafica di Venezia, 1993.

Cinque opere di questa autrice sono reperibili sul sito Italian Women Writers.

 
 
 

XIV. Borriposo (2)

XIV. Borriposo (2)

8.

Fortunia annava in chiesa e fu riccorta
priva de vita, senza fà na mossa...
Queli dicheno: - È peste! - E come morta
la buttorno co l'antri in d'una fossa,

come se usava, pe falla più corta.
E in quela bucia de carnaccia e d'ossa,
se sveja e viva se trovò seporta!...
Immagina pe quela si che scossa!

Ma nun perde coraggio e un morto affera
pe la testa e que l'antro pe la pelle
de la panza, e su e su tra corpi e tera;

e più cerca allargasse immezzo a quelle
schifenze morte e più la puzza sfera;
ma vie su, a galla, a rivedè le stelle!

9.

Va dar marito suo; ma er pavuroso
la pija pe no spirito debbotto!
E je fa: - Pace santa, borriposo
a l'anima tua cara. - E lei de sotto

dajela a urlà: - So io, caro er mi sposo,
varda in che stato che m'ànno ridotto!
Óprime, so tu moje! - E sto schifoso
nun crede vivo quer pianto dirotto!

Lei daje a piagne; e lui: - Nun sei risorta!
Borriposo, sorella!... - In quelo scuro,
sonava mezzanotte. Stracca morta,

ignuda, signozzava: - Te lo giuro,
so Fortunia, so viva; opri la porta!
Mo me moro da vero! - E quelo? Duro!

10.

Come er cane, che, senza la raggione,
lo poi lassà lontano mija e mija,
t'aritrova la casa der padrone;
così aritrova lei, povera fija,

trafelata, sfinita, appecorone,
la vecchia casa de la su famija.
La matre, che diceva l'orazzione,
vattelapesca si pe chi la pija!

- Opri! So io, tu fija ciurcinata! (6) -
E quela: - Borriposo, sarvazzione,
va in Paradiso, anima tribbolata!... -

Già ricantava er gallo. In quelo stato,
morta dar freddo, de disperazzione,
bussa a la porta der su innamorato...

11.

E capirai, che lì nu la cacciorno...
E 'r giorno doppo co le rondinelle
piantorno er nido e, tela! se squajorno
co du straccetti e quattro pecorelle...

In odio ar monno, agnedero lì un giorno
a nisconnese st'anime gemelle,
e sur muro de casa te sgraffiorno
quer vijetto che fa 'ggrinzà la pelle:

Cari amici et nemici, nun cercatece
perché noi semo morti!...
E in quer fonnaccio
de stuzzicalle adesso?... Embé, provatece!

Borriposo, fratello!... ve diranno,
p' aricordà a le genti der monnaccio
la pena d'una corpa che nun ànno.

12.

Spiriti innamorati, irrequïeti,
ronzeno ancora in queli fonni cupi,
tra li vecchi licini e li roveti,
che fanno riverenza a li dirupi.

E a l'ombra fresca, sotto a li spineti,
o ar chiaro de la luna pe le rupi,
s'accarezzeno, amannose, quïeti
come le vorpi s'ameno e li lupi...

Ma indove l'acqua ruzzarella cola
e imbrillanta le foje ar capirvenere,
ripijeno la vita e la parola,

e se dicheno tante cose tenere
e inzieme vanno giù pe le stradelle
lucenno in tra le ferci e le roselle.

13.

Tornavo a casa... e pe là giù, a ridosso
der tommoleto, fra li nuvoloni,
calava er sole immezzo a 'n bucio rosso...
Bruciaveno fumanno li carboni!

A uno a uno, riva riva a 'n fosso,
faceva strada 'n branco de montoni...
Quer campano te dava er freddo addosso...
A monte brontolavano li toni!...

E zì Nicola mio daje, quer boja,
a cantà salutanno primavera!
strappanno qua 'n germojo e là na foja!...

La macchia se faceva nera, nera...
L'arberi te pareveno perzone
che ć'avessero er core e la raggione!

14.

E dicevo: Oh! bell'ormi... Oh! cercue belle!
Voi puro date l'urtimo lamento,
cor dinnolà che fate lento lento,
er giorno ar sole e la notte a le stelle!

Ah! poveri vecchioni e vecchiarelle,
ch'aresistevio da cent'anni e cento
a li geli, a le secche a gni tormento...
L'accetta a l'arba ve farà la pelle!...

Rami smargianti, (7) indove da la cima
vedi er mare a giocà sopra a le spiaggie,
come er vento su voi ruzzava prima,

ecco l'ira de l'ommini e de Dio...
Sarvate er nido, russignoli e gaggie!!...
Arberi belli... anime sante... Addio...

Note:

6) Ciurcinata, tribolata, derelitta.
7) Smargianti, lussureggianti, forti e robusti.

Augusto Sindici
Tratto da: "XIV leggende della Campagna romana", Augusto Sindici. Poesie in dialetto romanesco, con prefazione di Gabriele D'Annunzio, Milano, Treves, 1902

 
 
 
 
 

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Data di creazione: 26/04/2008
 

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