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Messaggi del 16/01/2015

Il Dittamondo (4-27)

Post n°1066 pubblicato il 16 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUARTO

CAPITOLO XXVII

Ora ci chiama la terra di Spagna
e noi lá ci volgiamo, a ciò che nulla
notabil cosa a dir di qua rimagna. 

Per la marina salvatica e brulla 
in fino a essa fu la nostra via, 
col vento che di lá piú dritto frulla. 
Questa contrada è di gran signoria: 
sei province vi son tai, che ciascuna 
par che per sé un buon reame sia. 
L’aire, la terra, il sole e la luna 
trovai a questa gente sí benigna, 
ch’al viver lor non manca cosa alcuna. 
Di ricchi armenti gran copia v’alligna, 
d’oro, d’argento e di tutti i metalli; 
biada, frutti hanno assai, ulivi e vigna. 
Nobili fiumi corron per le valli: 
Bitis, Minius, Hiberus e Caro; 
ricche cittadi e piacevoli stalli. 
E poi che del paese fui ben chiaro, 
gli uomini vidi ne l’arme sí destri, 
arditi e franchi, ch’assai mi fu caro. 
Similmente del mare son maestri: 
ciascun come un padron vi si conduce; 
in cacce fieri, sicuri e silvestri. 
La gemma ceraunio ancora vi luce, 
di piropo colore, e Solin disse 
come la sua vertú mostra e produce. 
Noi fummo dove anticamente fisse 
Ercules le colonne, per un segno 
ch’alcun d’andar piú innanzi non ardisse. 
Non lungi qui Ulissipon disegno, 
ch’edificò Ulisse, per mostrare 
ch'egli era stato al fin di questo regno. 
Ancora l’ombra di Tingi vi pare, 
che fabbricò Anteo e dove il drago 35 
puose a la guardia del bosco nel mare. 
Di trovar novitá io era vago 
e Solin mi mostrava or quella or questa, 
cercando a suo poder di farmi appago. 
Noi fummo dove fu la gran tempesta 40 
di Medusa e tra loro si ragiona 
sí come Perseo le tagliò la testa. 
Da Ispalo fiume la Spagna a dir sona; 
vero è ch’Esperia e Iberia si scrive 
anticamente per altra persona. 45 
Confina da levante con le rive 
di Nerbona e Pireno sí la serra 
da quella parte che ’l Gallico vive; 
da l’altre due il mar gira la terra. 
E qui trovai piú re, onde ’l paese 50 
o per l’uno o per l’altro spesso ha guerra. 
Pier d’Aragona Maiolica prese 
ed uccise il cugin che n’era re 
e ’l suo figliuolo per piú tempo offese. 
Qui Giovanna di Puglia assai ben fe’, 55 
che ’l trasse di pregione e di tristizia 
con darli il regno e per sua sposa sé. 
Per visitare il Santo di Galizia, 
Sighera, Toro e Coria passai: 
questi son fiumi c’hanno acqua a dovizia. 60 
Veduta l’Azizera, assai lodai 
Alfonso di Castella che lá vinse, 
perché era forte e di soccorso assai. 
Solin di sotto a Lusitan si strinse 
a parlar meco, cosí come quello 65 
ch’a ogni mio piacer mai non s’infinse. 
"Mare, terra e cielo, mi diss’ello, 
Ataboro distingue in questa parte: 
l’occhio tel mostri, s’oscuro favello. 
In questo mare son piú isole sparte, 70 
tra le qua’ prima vedi le Casseride 
con saturnin metallo e non di Marte. 
Poi son le Fortunate, ove si peride 
ispesse volte qualunque vi pratica, 
dico per tempo secco o vuoi per veride. 75 
Qui trovai gente, che copron le natica 
di foglie di dattali che tessono insieme 
e d’una pelle e d’altra salvatica. 
Ancora in queste parti così streme 
Colubraria truovi, Ebuso miri, 80 
che di serpente alcuno mai non teme. 
E cosí puoi veder, se tu disiri, 
le Baleare per queste contrade, 
se gli occhi in vèr levante, andando, giri. 
Ma vienne, sí vedrem quelle di Gade". 85 
E mossesi come uom che non s’infinge; 
e io apresso lui per quelle strade. 
La Spagna Portogallo serra e cinge, 
Castella con Granata, al dí d’ancoi, 
Aragona e Maiolica costringe. 90 
Apresso tutto questo, disse: "Poi 
che hai veduto Europa a passo a passo 
quanto veder ne ponno gli occhi tuoi, 
qui è solo da pensar trovare il passo 
e forte nave che di lá ci porti". 95 
E io: "A te, che ’l sai, il cerco lasso". 
E cosí, ricercando per quei porti, 
salimmo sopra un legno ed ello e io,
nuovo e grande, e marinari accorti.
E, giunti su, ci accomandammo a Dio. 100
 
 
 

Colonna Infame 06

Post n°1065 pubblicato il 16 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Storia della Colonna Infame
di Alessandro Manzoni

VI

I due arrotini, sciaguratamente nominati dal Piazza, e poi dal Mora, erano stati imprigionati fino dal 27 di giugno; ma non furon mai confrontati, né con l'uno né con l'altro, e neppure esaminati, prima dell'esecuzione della sentenza, che fu il primo d'agosto. L'undici fu esaminato il padre; il giorno dopo, messo alla tortura, col solito pretesto di contradizioni e d'inverisimiglianze, confessò, cioè inventò una storia, alterando, come il Piazza, un fatto vero. Fecero l'uno e l'altro come que' ragni, che attaccano i capi del loro filo a qualcosa di solido, e poi lavoran per aria. Gli avevan trovata un'ampolla d'un sonnifero datogli, anzi composto in casa sua, dal Baruello suo amico; disse ch'era un onto per fare che moressero la gente; un estratto di rospi e di serpi, con certe polvere che io non so che polvere siano. Oltre il Baruello, nominò come complice qualche altra persona di comune conoscenza, e per capo il Padilla. Avrebbero i giudici voluto attaccar questa storia a quella de' due che avevano assassinati, e far per ciò dire a costui, che aveva ricevuto da loro onto et danari. Se avesse negato semplicemente, avevan la tortura; ma la prevenne con questa singolare risposta: Signor no, che non è vero; ma se mi date li tormenti perché io neghi questa particolarità, sarò forzato a dire che è vero, benché non sij. Non potevan più, senza farsi troppo apertamente beffe della giustizia e dell'umanità, adoprar come esperimento un mezzo del quale eran così solennemente avvertiti che l'effetto sarebbe certo.

Fu condannato a quel medesimo supplizio; dopo l'intimazion della sentenza, torturato, accusò un nuovo banchiere, e altri; in cappella, e sul patibolo, ritrattò ogni cosa.

Se di questo disgraziato, il Piazza e il Mora avessero detto solamente ch'era un poco di buono, si vede da vari fatti che saltan fuori nel processo, che non l'avrebbero calunniato. Calunniaron però anche in questo, il suo figliuolo Gaspare; del quale è bensì riferito un fallo, ma è riferito da lui, e in tali momenti, e con tal sentimento, che ne risulta come una prova dell'innocenza e della rettitudine di tutta la sua vita. Ne' tormenti, in faccia alla morte, le sue parole furon tutte meglio che da uom forte; furon da martire. Non avendo potuto renderlo calunniator di sé stesso, né d'altri, lo condannarono (non si vede con quali pretesti) come convinto; e dopo l'intimazion della sentenza, l'interrogarono, come al solito, se aveva altri delitti, e chi erano i suoi compagni in quello per cui era stato condannato. Alla prima domanda rispose: io non ho fatto né questo, né altri delitti; et moro perché una volta diedi d'un pugno sopra d'un occhio ad uno, mosso dalla collera. Alla seconda: io non ho alcuni compagni, perché attendeuo a far li fatti miei; et se non l'ho fatto, non ho né anche hauuto compagni. Minacciatagli la tortura, disse: V.S. facci quello che vole, che non dirò mai quello che non ho fatto, né mai condannarò l'anima mia; et è molto meglio che patisca tre o quattro hore de tormenti, che andar nell'inferno a patire eternamente. Messo alla tortura, esclamò nel primo momento: ah, Signore! non ho fatto niente: sono assassinato. Poi soggiunse: questi tormenti forniranno presto; et al mondo di là bisogna starui sempre. Furono accresciute le torture, di grado in grado, fino all'ultimo, e con le torture, l'istanze di dir la verità. Sempre rispose: l'ho già detta; voglio saluar l'anima. Dico che non voglio grauar la conscienza mia: non ho fatto niente.

Non si può qui far a meno di non pensare che se gli stessi sentimenti avessero data al Piazza la stessa costanza, il povero Mora sarebbe rimasto tranquillo nella sua bottega, tra la sua famiglia; e, al pari di lui, questo giovine ancor più degno d'ammirazione, che di compassione, e tant'altri innocenti non avrebbero nemmen potuto immaginarsi che spaventosa sorte sfuggivano. Lui medesimo, chi sa? Certo per condannarlo, non confesso, e su que' soli indizi, e quando, non essendoci altre confessioni, il delitto stesso non era che una congettura, bisognava violare più svelatamente, più arditamente, ogni principio di giustizia, ogni prescrizion di legge. A ogni modo, non potevano condannarlo a un più mostruoso supplizio; non potevano almeno farglielo soffrire in compagnia d'uno, guardando il quale dovesse dire ogni momento a sé stesso: l'ho condotto qui io. Di tanti orrori fu cagione la debolezza... che dico? l'accanimento, la perfidia di coloro che, riguardando come una calamità, come una sconfitta, il non trovar colpevoli, tentarono quella debolezza con una promessa illegale e frodolenta. Abbiamo citato sopra l'atto solenne con cui una promessa simile fu fatta al Baruello, e abbiamo anche accennato di voler far vedere il conto diverso che i giudici ne facevano. Per ciò principalmente racconterem qui in succinto la storia anche di questo meschino. Accusato in aria, come s'è visto, prima dal Piazza d'essere un compagno del Mora, poi dal Mora d'essere un compagno del Piazza; poi dall'uno e dall'altro d'aver ricevuto danari per isparger l'unguento composto dal Mora con certe porcherie e peggio (e prima avevan protestato di non saper questo); poi dal Migliavacca, d'averne composto uno lui, con altre peggio che porcherie; costituito reo di tutte queste cose, come se ne facessero una, negò e sostenne bravamente i tormenti. Mentre pendeva la sua causa, un prete (che fu un altro de' testimoni fatti citar dal Padilla), pregato da un parente di questo Baruello, lo raccomandò a un fiscale del senato; il quale venne poi a dirgli che il suo raccomandato era sentenziato a morte, con tutta quell'aggiunta di carnificine; ma insieme, che «il senato s'accontentava di proccurarli da S.E. l'impunità». E incaricò il prete che andasse a trovarlo, e vedesse di persuaderlo a dir la verità: «poiché il Senato vol sapere il fondamento di questo negocio, e pensa di saperlo da lui». Dopo averlo condannato! e dopo quelle esecuzioni!

Il Baruello, sentita la crudele notizia, e la proposizione, disse: «faranno poi di me come hanno fatto del Commissario?» Avendogli il prete detto che la promessa gli pareva sincera, cominciò una storia: che un tale (il quale era morto) l'aveva condotto dal barbiere; e questo, alzato un telo del parato della stanza, che nascondeva un uscio, l'aveva introdotto in una gran sala, dov'eran molte persone a sedere, tra le quali il Padilla. Al prete, che non aveva l'impegno di trovar de' rei, parvero cose strane; sicché l'interruppe, avvertendolo che badasse di non perdere il corpo e l'anima insieme; e se n'andò. Il Baruello accettò l'impunità, corresse la storia; e comparso l'undici di settembre davanti ai giudici, raccontò loro che un maestro di scherma (vivo pur troppo) gli aveva detto esserci una buona occasione di diventar ricchi, facendo un servizio al Padilla; e l'aveva poi condotto sulla piazza del castello, dov'era arrivato il Padilla medesimo con altri, e l'aveva subito invitato ad essere uno di quelli che ungevano sotto i suoi ordini, per vendicar gl'insulti fatti a don Gonzalo de Cordova, nella sua partenza da Milano; e gli aveva dato danari, e un vasetto di quell'unto micidiale. Dire che in questa storia, della quale qui accenniam soltanto il principio, ci fossero delle cose inverisimili, non sarebbe parlar propriamente; era tutto un monte di stravaganze, come il lettore ha potuto vedere da questo solo saggio. Dell'inverisimiglianze però ce ne trovarono anche i giudici e, per di più, delle contradizioni: per ciò, dopo varie interrogazioni, seguite da risposte che imbrogliavan la cosa sempre più, gli dissero, che si esplichi meglio, perché si possa cavar cosa accertata da quello che dice. Allora, o fosse un suo ritrovato per uscir d'impiccio in qualunque maniera, o fosse un vero accesso di frenesia, che ce n'era abbastanza cagioni, si mise a tremare, a storcersi, a gridare: aiuto! a voltolarsi per terra, a volersi nascondere sotto una tavola. Fu esorcizzato, acquietato, stimolato a dire; e cominciò un'altra storia, nella quale fece entrare incantatori e circoli e parole magiche e il diavolo, ch'egli aveva riconosciuto per padrone. Per noi basta l'osservare ch'eran cose nuove; e che, tra l'altre, ritrattò quello che aveva detto del vendicar l'ingiuria fatta a don Gonzalo, e asserì in vece che il fine del Padilla era di farsi padrone di Milano; e a lui prometteva di farlo uno de' primi. Dopo varie interrogazioni, fu chiuso l'esame, se pure merita un tal nome; e dopo quello, n'ebbe tre altri; ne' quali, essendogli detto che il tal suo asserto non era verisimile, che il tal altro non era credibile, o rispose che infatti, la prima volta, non aveva detta la verità, o diede una spiegazione qualunque; e venendogli almen cinque volte buttata in faccia la deposizione del Migliavacca, in cui era accusato d'aver dato unguento da spargere ad altrettante persone delle quali, nella sua, non aveva parlato, rispose sempre che non era vero; e sempre i giudici passarono ad altro. Il lettore che si rammenta come, alla prima inverisimiglianza che credettero bene di trovar nella deposizione del Piazza, lo minacciarono di levargli l'impunità; come alla prima aggiunta che fece a quella deposizione, al primo fatto allegato dal Mora contro di lui, e da lui negato, gliela levarono in effetto, per non hauer detta la verità intera, come haueua promesso; vedrà ancor più, se ce n'è bisogno, quanto servisse a coloro l'aver voluto piuttosto fare una giunteria al governatore, che chiedergli una facoltà, l'aver fatta una promessa in parole e di parole a quel Piazza, che doveva esser le primizie del sacrifizio offerto al furor popolare, e al loro.

Vogliam dir forse che sarebbe stata cosa giusta il mantener quell'impunità? Dio liberi! sarebbe come dire che colui aveva deposto un fatto vero. Vogliam dir soltanto che fu violentemente ritirata, com'era stata illegalmente promessa; e che questo fu il mezzo di quello. Del resto, non possiamo se non ripetere che non potevan far nulla di giusto nella strada che avevan presa, fuorché tornare indietro, fin ch'erano a tempo. Quell'impunità (lasciando da parte la mancanza de' poteri) non avevano avuto il diritto di venderla al Piazza, come il ladro non ha il diritto di dar la vita al viandante: ha il dovere di lasciargliela. Era un ingiusto supplimento a un'ingiusta tortura: l'una e l'altra volute, pensate, studiate dai giudici, piuttosto che far quello ch'era prescritto, non dico dalla ragione, dalla giustizia, dalla carità, ma dalla legge: verificare il fatto, facendolo spiegare alle due accusatrici, se pur la loro era accusa e non piuttosto congettura; lasciandolo spiegare all'imputato, se pur si poteva dire imputato; mettendo questo a confronto con quelle.

L'esito dell'impunità promessa al Baruello non si poté vedere, perché costui morì di peste il 18 di settembre, cioè il giorno dopo un confronto sostenuto impudentemente contro quel maestro di scherma, Carlo Vedano. Ma quando sentì avvicinarsi la sua fine, disse a un carcerato che l'assisteva, e che fu un altro de' testimoni fatti citar dal Padilla: «fatemi a piacere di dire al Sig. Podestà, che tutti quelli che ho incolpati gli ho incolpati al torto; et non è vero ch'io habbi chiapato danari dal figliuolo del Sig. Castellano... io ho da morire di questa infermità: prego quelli che ho incolpati al torto mi perdonino; et di gratia ditelo al Sig. Podestà, se io ho d'andar saluo. Et io subito», soggiunge il testimonio, «andai a referire al Sig. Podestà quello che il Baruello m'haueua detto.»

Questa ritrattazione poté valere per il Padilla; ma il Vedano, il quale non era fin allora stato nominato che dal solo Baruello, fu atrocemente tormentato, quel giorno medesimo. Seppe resistere; e fu lasciato stare (in prigione, s'intende) fino alla metà di gennaio dell'anno seguente. Era, tra que' meschini, il solo che conoscesse davvero il Padilla, per aver tirato due volte di spada con lui, in castello; e si vede che questa circostanza fu quella che suggerì al Baruello di dargli una parte nella sua favola. Non l'aveva però accusato d'aver composto, né sparso, né distribuito unguenti mortiferi; ma solamente d'essere stato di mezzo tra lui e il Padilla. Non potevan quindi i giudici condannar come convinto un tale imputato, senza pregiudicar la causa di quel signore; e questo fu probabilmente quello che lo salvò. Non fu interrogato di nuovo, se non dopo il primo esame del Padilla; e l'assoluzion di questo tirò dietro la sua.

Il Padilla, dal castello di Pizzighettone, dov'era stato trasferito, fu condotto a Milano il 10 di gennaio del 1631, e messo nelle carceri del capitano di giustizia. Fu esaminato quel giorno medesimo; e se ci fosse bisogno d'una prova di fatto per esser certi che anche que' giudici potevano interrogar senza frodi, senza menzogne, senza violenze, non trovare inverisimiglianze dove non ce n'era, contentarsi di risposte ragionevoli, ammettere, anche in una causa d'unzioni venefiche, che un accusato potesse dir la verità, anche dicendo di no, si vedrebbe da questo esame, e dagli altri due che furon fatti al Padilla.

I soli che avessero deposto d'essersi abboccati con lui, il Mora e il Baruello, avevano anche indicati i tempi; il primo all'incirca, il secondo più precisamente. Domandaron dunque i giudici al Padilla, quando fosse andato al campo: indicò il giorno; di dove fosse partito per andarci: da Milano; se a Milano fosse mai tornato in quell'intervallo: una volta sola, e c'era rimasto un giorno solo, che specificò ugualmente. Non concordava con nessuna dell'epoche inventate dai due disgraziati. Allora gli dicono, senza minacce, con buona maniera, che si metta a memoria se non si trovò in Milano nel tal tempo, nel tal altro: risponde ogni volta di no, rapportandosi sempre alla sua prima risposta. Vengono alle persone, e ai luoghi. Se aveva conosciuto un Fontana bombardiere: era il suocero del Vedano, e il Baruello l'aveva nominato come uno di quelli che s'eran trovati al primo abboccamento. Risponde di sì. Se conosceva il Vedano: di sì ugualmente. Se sa dove sia la Vetra de' Cittadini e l'osteria de' sei ladri: era lì che il Mora aveva detto esser venuto il Padilla, condotto da don Pietro di Saragozza, a fargli la proposta d'avvelenar Milano. Rispose che non conosceva né la strada, né l'osteria, neppur di nome. Gli domandano di don Pietro di Saragozza: questo non solo non lo conosceva, ma era impossibile che lo conoscesse. Gli domandano di certi due, vestiti alla francese; d'un cert'altro, vestito da prete: gente che il Baruello aveva detto esser venuti col Padilla all'abboccamento sulla piazza del castello. Non sa di chi gli si parli.

Nel secondo esame, che fu l'ultimo di gennaio, gli domandan del Mora, del Migliavacca, del Baruello, d'abboccamenti avuti con loro, di danari dati, di promesse fatte; ma senza parlargli ancora della trama a cui tutto questo si riferiva. Risponde che non ha mai avuto che far con costoro, che non gli ha mai nemmen sentiti nominare; replica che non era a Milano in que' diversi tempi.

Dopo più di tre mesi, consumati in ricerche dalle quali, come doveva essere, non si cavò il minimo costrutto, il senato decretò che il Padilla fosse costituito reo con la narrativa del fatto, pubblicatogli il processo, e datogli un termine alle difese. In esecuzione di quest'ordine, fu chiamato ad un nuovo ed ultimo esame, il 22 di maggio. Dopo varie domande espresse, su tutti i capi d'accusa, alle quali rispose sempre un no, e per lo più asciutto, vennero alla narrativa del fatto, cioè gli spiattellarono quella pazza novella, anzi quelle due. La prima, che lui costituto aveva detto al barbiere Mora, vicino all'hostaria detta delli sei ladri, che facesse un ontione... et che dovesse prender la detta ontione, et andar a bordegare (impiastrare); e che, in ricompensa, gli aveva dato molte doppie; e don Pietro di Saragozza, per suo ordine, aveva poi mandato il detto barbiere a riscotere altri danari dai tali e tali banchieri. Ma questa è ragionevole in paragon dell'altra: che esso Sig. Constituto aveva fatto chiamar sulla piazza del castello Stefano Baruello, gli aveva detto: buon giorno, Sig. Baruello; è molto tempo che desideravo parlar con voi; e, dopo qualche altro complimento, gli aveva dato venticinque ducatoni veneziani, e un vaso d'unguento, dicendogli ch'era di quello che si faceva in Milano, ma che non era perfetto, e bisognava prendere delli ghezzi et zatti (de' ramarri e de' rospi) et del vino bianco, e metter tutto in una pentola, et farla bollire a concio a concio (adagino adagino), acciò questi animali possino morire arrabbiati. Che un prete, qual viene nominato per Francese dal detto Baruello, e era venuto in compagnia del costituto, aveva fatto comparire uno in forma d'huomo, in habito di Pantalone, e fattolo al Baruello riconoscere per suo signore; e, scomparso che fu, il Baruello aveva domandato al costituto chi era colui, e quello gli aveva risposto ch'era il diavolo; e che, un'altra volta, lui costituto aveva dati al Baruello degli altri danari, e promessogli di farlo tenente della sua compagnia, se l'avesse servito bene.

A questo punto, il Verri (tanto un intento sistematico può far travedere anche i più nobili ingegni, e anche dopo che hanno veduto) conclude così: «Tale è la serie del fatto deposto contro il figlio del castellano, la quale, sebbene smentita da tutte le altre persone esaminate (trattine i tre disgraziati Mora, Piazza e Baruello, che alla violenza della tortura sacrificarono ogni verità), servì di base a un vergognosissimo reato.» (74) Ora, il lettore sa, e il Verri medesimo racconta che, di questi tre, due furon mossi a mentire dalle lusinghe dell'impunità, non dalla violenza della tortura.

Sentita quell'indegnissima filastrocca, il Padilla disse: di tutti questi huomini che V.S. mi ha nominato, io non conosco altro che il Fontana et il Tegnone (era un soprannome del Vedano); et tutto quello che V.S. ha detto che si legge in Processo per bocca di costoro, è la maggior falsità et mentita che si trouasse mai al mondo; né è da credere che un Cavagliero par mio hauesse, né trattato, né pensato attione tanto infame come è questa; et prego Dio et sua Santa Madre, se queste cose sono vere, che mi confondano adesso; et spero in Dio che farò conoscere la falsità di questi huomini, et che sarà palese al mondo tutto.

Gli replicarono, per formalità e senza insistenza, che si risolvesse di dir la verità; e gl'intimarono il decreto del senato che lo costituiva reo d'aver composto e distribuito unguento venefico, e assoldato de' complici. Io mi meraviglio molto, riprese, che il Senato sij venuto a resoluttione così grande, vedendosi et trouandosi che questa è una mera impostura et falsità, fatta non solo a me, ma alla Giustitia istessa. Come! un huomo di mia qualità, che ho speso la vita in seruitio di Sua Maestà, in diffesa di questo stato, nato da huomini che hanno fatto l'istesso, haueuo io da fare, né da pensar cosa che a loro, né a me portasse tanta nota et infamia? et torno a dire che questo è falso, et è la più grande impostura che ad huomo sij mai stata fatta.

Fa piacere il sentir l'innocenza sdegnata parlare un tal linguaggio; ma fa orrore il rammentarsi l'innocenza, davanti a quegli uomini stessi, spaventata, confusa, disperata, bugiarda, calunniatrice; l'innocenza imperterrita, costante, veridica, e condannata ugualmente.

Il Padilla fu assolto, non si sa quando per l'appunto, ma sicuramente più d'un anno dopo, poiché l'ultime sue difese furono presentate nel maggio del 1632. E, certo, l'assolverlo non fu grazia; ma i giudici, s'avvidero che, con questo, dichiaravano essi medesimi ingiuste tutte le loro condanne? giacché non crederei che ce ne siano state altre, dopo quell'assoluzione. Riconoscendo che il Padilla non aveva punto dato danari per pagar le sognate unzioni, si rammentaron degli uomini che avevan condannati per aver ricevuto danari da lui, per questo motivo? Si rammentarono d'aver detto al Mora che una tal cagione ha più del verisimile... che non è per hauer occasione di vendere, lui Constituto il suo elettuario, et il Commissario d'hauer modo di più lavorare? Si rammentarono che, nell'esame seguente, persistendo lui a negarla, gli avevan detto che si troua pure essere la verità? Che avendola negata ancora, nel confronto col Piazza, gli avevan data la tortura, perché la confessasse, e un'altra tortura, perché la confessione estorta dalla prima diventasse valida? Che, d'allora in poi, tutto il processo era camminato su quella supposizione? Ch'era stata espressa, sottintesa in tutte le loro interrogazioni, confermata in tutte le risposte, come la cagione finalmente scoperta e riconosciuta, come la vera, l'unica cagion del delitto del Piazza, del Mora, e poi degli altri condannati? Che la grida pubblicata, pochi giorni dopo il supplizio di que' due primi, dal gran cancelliere, col parer del senato, li diceva «arrivati a stato tale d'empietà, di tradir per danari la propria Patria»? E vedendo finalmente svanir quella cagione (giacché nel processo non s'era mai fatto menzione d'altri danari che di quelli del Padilla), pensarono che del delitto non rimanevano altri argomenti che confessioni, ottenute nella maniera che loro sapevano, e ritrattate tra i sacramenti e la morte? confessioni, prima in contradizion tra loro, e ormai scoperte in contradizion col fatto? Assolvendo insomma, come innocente, il capo, conobbero che avevan condannati, come complici, degl'innocenti?

Tutt'altro, almeno per quel che comparve in pubblico: il monumento e la sentenza rimasero; i padri di famiglia che la sentenza aveva condannati, rimasero infami; i figli che aveva resi così atrocemente orfani, rimasero legalmente spogliati. E in quanto a quello che sia passato nel cuor de' giudici, chi può sapere a quali nuovi argomenti sia capace di resistere un inganno volontario, e già agguerrito contro l'evidenza? E dico un inganno divenuto più caro e prezioso che mai; giacché, se prima il riconoscerli innocenti era per que' giudici un perder l'occasione di condannare, ormai sarebbe stato un trovarsi terribilmente colpevoli; e le frodi, le violazioni della legge, che sapevano d'aver commesse, ma che volevan creder giustificate dalla scoperta di così empi e funesti malfattori, non solo sarebbero ricomparse nel loro nudo e laido aspetto di frodi e di violazioni della legge, ma sarebbero comparse come produttrici d'un orrendo assassinio. Un inganno finalmente, mantenuto e fortificato da un'autorità sempre potente, benché spesso fallace, e in quel caso stranamente illusoria, poiché in gran parte non era fondata che su quella de' giudici medesimi: voglio dire l'autorità del pubblico che li proclamava sapienti, zelanti, forti, vendicatori e difensori della patria.

La colonna infame fu atterrata nel 1778; nel 1803, fu sullo spazio rifabbricata una casa; e in quell'occasione, fu anche demolito il cavalcavia, di dove Caterina Rosa,

    L'infernal dea che alla eletta stava, (75)

intonò il grido della carnificina: sicché non c'è più nulla che rammenti, né lo spaventoso effetto, né la miserabile causa. Allo sbocco di via della Vetra sul corso di porta Ticinese, la casa che fa cantonata, a sinistra di chi guarda dal corso medesimo, occupa lo spazio dov'era quella del povero Mora.

Vediamo ora, se il lettore ha la bontà di seguirci in quest'ultima ricerca, come un giudizio temerario di colei, dopo aver tanto potuto sui tribunali, abbia, per loro mezzo, regnato anche ne' libri.

Note

 
 
 

Osservazioni sulla tortura 15-16

Post n°1064 pubblicato il 16 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Osservazioni sulla tortura e singolarmente sugli effetti che produsse all'occasione delle unzioni malefiche alle quali si attribuì la pestilenza che devastò Milano l'anno 1630 (Prima edizione 1804)
di Pietro Verri
      
XV.
Alcune obbiezioni che si fanno per sostenere l'uso della tortura
       
Ma come costringeremo noi a rispondere un uomo, che interrogato dal giudice si ostina al silenzio, se non abbiasi il mezzo di costringerlo coi tormenti? Gl'Inglesi medesimi, che si citano per abolire la tortura, in tal caso la costumano. Ma a ciò si risponde, che è vero che gl'Inglesi nel solo caso in cui si ricusi di rispondere al giudice, usano "la pena forte e dura" siccome essi la chiamano, la quale termina colla morte, lasciando cadere un pesantissimo sasso a schiacciare intieramente il contumace; ma questa non può chiamarsi tortura, ma bensì supplizio, al quale talvolta preferirono alcuni di soccombere, anzi che essere giudicati rei di un delitto che portasse la confisca de' beni, oltre la morte; essendo che le leggi del regno non permettono che il fisco si approprj i beni di chi morì colla "pena forte e dura", e in tal guisa l'amore de' congiunti indusse alcuni a preferire il silenzio e questa pena. Si dice di più, che forse gl'Inglesi hanno conservato una porzione dell'antica barbarie col non abolire anche la "pena forte e dura", poiché se nelle liti civili le leggi condannano il contumace reo a seconda delle ricerche dell'attore, bastava portare alle procedure criminali quello stesso metodo, e riguardando il contumace a rispondere come reo confesso condannarlo a norma delle leggi; cosi sarà tolta ogni necessità di tormentare o chi non risponde, ovvero chi non risponde a proposito. Se il prigioniero sarà ammonito più e più volte che il suo silenzio avrà luogo di confessione de' delitti per i quali viene processato, non vi sarà dubbio che si trovi chi ostinatamente cerchi di perdere se medesimo.
A questo passo replicano i sostenitori della pratica attuale: noi non abbiamo la legge che ci autorizzi a condannare come convinto l'uomo, che si ostina al silenzio o alla inconcludente risposta. Su di che essi hanno ragione di sostenere, che una sola legge che abrogasse la tortura sarebbe dannosa al corso della giustizia, qualora contemporaneamente non venisse promulgata l'altra che dichiarasse convinto il contumace.
La nostra pratica criminale è veramente un labirinto di una strana metafisica. Si prende prigione un uomo, che si sospetta reo di un delitto. Quest'uomo cessa in quel momento di avere una esistenza personale. Egli è un essere ideale posto nelle mani del fisco, il quale lo interroga, lo inviluppa, lo spreme, lo tormenta sinché o colle contraddizioni o colle incoerenze, ovvero colla confessione del delitto smunta col tedio del carcere, colla miseria e colle torture, possa il fisco aver tratto da lui medesimo abbastanza per citarlo in giudizio. Fatte tutte queste lunghe e crudeli procedure, nel qual tempo non è permesso al reo di essere assistito o difeso, ecco il fisco che lo cita e lo costituisce avanti il giudice reo del tal delitto. Nei paesi più illuminati, invece, si prende una strada più breve e naturale. Appena posto in carcere il sospetto uomo, nel primo esame si considera cominciare il giudizio. Gli si pone in faccia il motivo per cui si sospetta reo; gli accusatori gli si pongono davanti, se ve ne sono. Se gli cerca ragione o discolpa: e così facilmente, e per una via più chiara, placida e regolare si termina ogni processo. Così si fa ne' processi militari, e così si pratica nei due reggimenti milanesi composti certamente di soldati, i quali non sono scelti né fra i più virtuosi né fra i più semplici del popolo; e i delitti celeremente sono puniti, e vi è una fondata idea della rettitudine de' giudizj ne' consiglj militari.
Come mai, dicono gli apologisti della tortura, come mai indurremo un reo a palesare i complici senza il mezzo della tortura? Tutte queste obbiezioni sono in fatti una perenne supposizione di quello che è il soggetto appunto della questione. Si suppone che la tortura sia un mezzo per rintracciare la verità. Ma anche prescindendo da questo si risponde, che un uomo che accusa se medesimo non avrà difficoltà di nominare ordinariamente i complici; che un uomo che nega il delitto, non li può nominare senza accusare se stesso; che finalmente per volere saper tutto e scrivere tutta la serie della vita di un uomo e de' delitti che ha commessi o veduti commettere, ordinariamente si riempiono le prigioni di tanti disgraziati, e si vanno protraendo a somma lentezza i processi. È men male l'ignorare un complice e il punire sollecitamente un reo, di quello che sia, dopo averlo lasciato languire nello squallore del carcere per mesi ed anni, punire più uomini di un delitto, di cui nessuno ha più memoria: cosicché altro non vede il popolo, che la isolata atrocità che eseguisce solennemente il carnefice.
Supponiamo che l'imperator Giustiniano fosse stato obbedito dai posteri. Egli radunò le leggi sparse, le opinioni de' più accreditati giureconsulti romani, le decisioni del senato, quelle del popolo, e ristringendo tutto quello che credette utile e buono dalla sterminata mole de' libri, ne fece compilare il Codice e le Pandette, nelle quali tutto il corpo della legislazione si conteneva, proibendo decisamente che alcuno più non osasse farvi commenti a scrivere per interpretarle. Se ciò fosse stato eseguito, come mai faremmo noi i giudizj criminali? Nessuna legge vi è per ammortizzare civilmente il prigioniero, per torturarlo, per farlo poi rivivere dopo scritto il processo. Se non vi fossero stati il Claro, il Bossi, il Farinaccio e gli altri che di sopra ho nominati, non si prenderebbe prigione alcun cittadino se non vi fossero gravi sospetti della di lui reità. Questi o nascono da' testimonj che lo accusano d'un delitto, ovvero dalla vita sfaccendata e sospetta che mena, ovvero dalle spese che fa senza che se ne veda il come, ovvero da inimicizia violenta e minacce contro un uomo che fu offeso, e simili. Poi si condurrebbe il prigioniero avanti non ad un solo, ma a molti destinati a giudicarlo; verrebbe allo stesso francamente posto in faccia il sospetto e i motivi; s'interrogherebbe, se si tratta di un omicidio o furto, a giustificare dove egli abbia passato le ore nelle quali fu commesso il delitto; se di un furto, come egli abbia il danaro che se gli è trovato, e così a ciascun caso; e in poche ore si conoscerebbe se veramente il prigioniero fosse reo, ovvero innocente. Questo è il metodo che verrebbe usato, se nella giustizia criminale si osservassero le sole leggi, e non una pratica fondata illegittimamente sulle private opinioni di alcuni oscuri e barbari scrittori. Tale è il metodo de' processi nella Gran Bretagna, ove altresì l'uomo accusato ha due sommi vantaggi: uno cioè di essere giudicato da persone scelte fra i suoi pari e non incallite ai giudizj criminali; l'altro di poter ricusare un dato numero degli eletti per giudicarlo, qualora abbia motivo di diffidenza. Tale parimenti è il metodo che si usa nel militare anche in Milano pei reggimenti italiani, e la giustizia fa rapidamente il suo corso senza che si lagni alcuno di tirannia, e senza che si condannino come rei gl'innocenti: caso che non tanto di raro avviene, quanto forse si crede.


XVI.
Conclusione

Io ben so che le opinioni consacrate dalla pratica de' tribunali, e tramandateci colla veneranda autorità de' magistrati, sono le più difficili e spinose a togliersi, né posso lusingarmi che ai dì nostri sia per riformarsi di slancio tutto l'ammasso delle opinioni che reggono la giurisprudenza criminale. Credono tutti quei che vi hanno parte, che sia indispensabile alla sicurezza pubblica di mantenere la pratica vigente: la loro opinione, vera o falsa che sia, non pregiudica alla purità del fine che li move. Però conviene che gli sostenitori della tortura riflettano, che i processi contro le streghe e i maghi erano egualmente come la tortura appoggiati all'autorità d'infiniti autori, che hanno stampato sulla scienza diabolica; che la tradizione de' più venerati uomini e tribunali insegnava di condannare al fuoco le streghe e i maghi, i quali ora si consegnano ai pazzarelli, dacché è stato dimostrato che non si danno né maghi né streghe. Tutto quello che si può dire in favore della tortura, si poteva cinquant'anni sono dire della magia. Mi pare impossibile, che l'usanza di tormentare privatamente nel carcere per avere la verità possa reggere per lungo tempo ancora, dopoché si dimostra che molti e molti innocenti si sono condannati al supplizio per la tortura: che ella è uno strazio crudelissimo, e adoperato talora nella più atroce maniera: che dipende dal capriccio del giudice solo e senza testimonj l'inferocire come vuole: che questo non è un mezzo per avere la verità, né per tale lo considerano le leggi, né i dottori medesimi: che è intrinsecamente ingiusta: che le nazioni conosciute dell'antichità non la praticarono: che i più venerabili scrittori sempre la detestarono: che si è introdotta illegalmente ne' secoli della passata barbarie: e che finalmente oggigiorno varie nazioni l'hanno abolita e la vanno abolendo senza inconveniente alcuno.

 
 
 

Rime di Celio Magno (172)

Post n°1063 pubblicato il 16 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

172

Nella creazione del prencipe messer Alvise Mocenico

Mercurio
— Di Giove nunzio, a voi dal ciel discendo,
prencipe sacro e gloriosi eroi,
ma giunto qui non ben certo mi rendo
s'io son in terra o pur lassù tra noi:
ché tanta maestade in voi comprendo,
tanto lume divin risplende in voi,
che quasi or l'occhio mio di veder pensa
Giove e i suoi numi a la celeste mensa.
Vuol quel gran re ch'a rallegrarmi io vegna
teco, o gran duce, o d'ogni onor ricetto:
ché non fu mai da così illustre e degna
schiera un sì illustre duce eletto.
né quanta or d'alto ben speranza regna
per te, fu mai per altri in ciascun petto,
né spirto più felice in uman velo
fe' più lieta giamai la terra e 'l cielo.
Che poi che, quasi un sole, alto salisti
dov'or più splende tua virtute ardente,
e fortunata primavera apristi
in mezzo 'l verno de l'afflitta gente,
deposti ognuno i pensier gravi e tristi
solo il piacer de la tua vista sente,
e la sua speme in te più dolce prova
che quant'altro il suo cor diletta e giova.
Né meno il ciel ne fa letizia e festa
amando Giove te qual proprio figlio:
ed or che d'Oriente atra tempesta
move fortuna con turbato ciglio,
te per nocchiero aggiunger volse a questa
sua cara nave in così gran periglio,
perché con più tua gloria in tempo corto
salva pervegna al desiato porto. —
Venere
— Non per alcun timor di guerra o d'armi
or qua me n' vegno dal mio Cipro amato:
ché può 'l vostro valor sicura farmi
è 'l saper quanto a voi propizio è 'l fato;
ma per venir presente a rallegrarmi
teco, o gran duce in tanta gloria alzato,
e sacrarti ogni cor del mio bel nido,
a te non men ch'a me divoto e fido.
Il qual per gloria di quest'alto impero
stima picciolo don la vita e 'l sangue;
e, quasi Ercole, ognuno invitto e fero
spregia i morsi e 'l venen del perfid'angue:
ché se pochi guerrier in Malta il fero
rimaner vinto, ond'ancor geme e langue,
che devria Cipro far con tante genti
tutte di fede e di virtute ardenti?
Ond'io, c'ho già presente il ben futuro,
teco gioisco, o gran Vinezia mia,
dove, qualora i'son, Cipro non curo
e i gaudi anco del ciel mia mente oblia:
ch'in questo d'ogni ben porto sicuro
tal non può forza aver fortuna ria;
che come in vago amato paradiso,
non vi sia sempre e festa e canto e riso. —

Marte e Pallade, Nettuno ed Eolo
Marte
— Noi di ferro le man, d'ardire i cori
armarem pronti a chi 'l Leon difende;
e sian pur del nemico alti i furori,
ché dal nostro favor la palma pende. —
Nettuno
— E noi tranquillarem gli ondosi umori
dove il Leon spiegar le vele intende:
e del nemico abominando mostro
i legni affogherem nel fondo nostro. —
Marte Nettuno
— Dunque il commun poter giungendo insieme
concorriamo tutti a sì felice impresa:
qui 'l nido è di virtù, qui 'l vizio geme,
qui 'l ciel cortese ogni ricchezza ha spesa.
Ma via più 'l proprio onor ne stringe e preme
difender chi ragione ha in sua difesa;
che a' veri dèi conviensi oprar ognora
ché la giustizia viva e 'l torto mora. —
Febo
— Ed io qual devrò dar di gaudio pegno
s'al tuo splendor riguardo, amato duce?
Io fin da' tuoi prim'anni a tanto segno
ti volsi per la via ch'al ciel conduce;
io la lingua tornai, t'ornai l'ingegno,
d'alta eloquenza e di divina luce:
e quanto or gusto ben da te produtto
è del mio seme aventuroso frutto.
Tal chi d'imperi e regni il fren governa
quasi publico specchio esser conviene:
ché questa pompa e riverenza esterna
senza onor di virtù, vana si tiene.
Ma chi l'aggiunge a la bellezza interna
luogo simile a Dio quaggiù mantiene:
e questo è 'l vero scettro e 'l vero alloro,
questo è tornar al mondo il secol d'oro.
Debbo dunque ripor lieto il tuo nome
tra le memorie de' più chiari essempi.
Tu perché al Turco sian le forze dome
segui l'alto camino e 'l fato adempi;
ed io preparerò lauri a le chiome,
carmi ai gran gesti e doni ai sacri tempi:
dapoi che 'l ciel vuol farti in pace e 'n guerra
più ch'altro lieto e glorioso in terra. —
Tutti insieme
— Cantiam fra tanto in tal letizia uniti
e s'addolcisca il ciel de' nostri accenti:
ch'in gioia nati e dal cor nostro usciti
pon rallegrar le più selvagge menti.
Risuonin: Mocenico, intorno i liti;
risuonin: Mocenico, e l'aria e i venti.
Cantiam quel che promette il ciel verace:
vittoria, gaudio, onor, trionfo e pace. —

 
 
 

Il Dittamondo (4-26)

Post n°1062 pubblicato il 16 Gennaio 2015 da valerio.sampieri

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUARTO

CAPITOLO XXVI

Tanto mi dilettava il ragionare 
accorto e bello de la scorta mia, 
ch’andando in fretta non mi parea andare. 
Noi trovammo un fiume per la via, 
sopra il qual prese campo il re Artú 5 
con la sua grande e ricca compagnia: 
io dico quando aspra battaglia fu 
da Ariohan a quel di Leonois: 
credo che ’l sai, però non dico piú. 
Poi trovammo la fonte in Sorelois, 10 
dove fu l’altra non meno aspra e grave 
tra Danain e Guron le Cortois. 
Noi andavamo per terra e per mare 
cosí fuggendo li diletti e l’ozia, 
com li cerca colui ch’è pigro e grave. 15 
Al fin, per aver copia de la Scozia, 
passammo lá e fu breve il cammino, 
però che l’una presso a l’altra è sozia. 
Molto è il paese alpestro e pellegrino 
e la gente v’è ruvida e salvatica, 20 
aspera e fiera a ogni suo vicino: 
vero è ch’egli han mutato vezzo e pratica 
per bontá d’Adoardo, ch’è or vivo, 
che gli ha frustati piú su che la natica. 
La gente, de la qual or qui ti scrivo, 25 
e carne e pesce e latte han per vivanda: 
e di questo è il paese molto divo. 
Similemente passammo in Irlanda 
la qual fra noi è degna di fama 
per le nobili sarge che ci manda. 30 
Ibernia ora qui ci aspetta e chiama 
e, benché ’l navicar lá sia con rischio, 
la ragion fu qui vinta da la brama. 
Diversi venti con mugghi e con fischio 
soffiavan per quel mare, andando a piaggia, 35 
lo qual di scogli e di gran sassi è mischio. 
Questa gente, benché mostri selvaggia 
e, per li monti, la contrada acerba, 
non di meno ella è dolce a chi l’assaggia. 
Quivi son gran pasture e piene d’erba 40 
e la terra sí buona, che Cerera 
niente a l’arte sua mostrar si serba. 
Quivi par sempre, come in primavera, 
un’aire temperata che gli appaghi, 
con chiare fonti e con belle rivera. 45 
Quivi vid’io di piú natura laghi 
e un fra gli altri che sí mi contenta, 
ch’ancor diletto n’han gli occhi miei vaghi. 
Dico, se un legno vi ficchi, doventa 
in breve ferro quanto ne sta in terra 
e pietra ciò che l’acqua bagna e tenta. 
La parte sopra, che sol l’aire serra, 
da la natura sua non cambia verso, 
ma tal qual vi si mette se ne afferra. 
Un altro ve ne vidi assai diverso: 55 
che, qual vi pon di cornio una verghetta, 
frassin diventa quella ed e converso. 
Ancora vi trovammo un’isoletta, 
lá dove l’uomo mai morir non puote, 
ma, quando in transir sta, fuor se ne getta. 60 
E sonvi ancora caverne rimote 
dove niun corpo si corrompe mai, 
sí temperata l’aire vi percote. 
Carne e frutti diversi vi trovai, 
c’hanno per cibo, e il latte per poto, 65 
del quale senza fallo n’hanno assai. 
Cosí cercando il paese rimoto 
e dimandando, ci fu dato indizio 
d’un monister molto santo e divoto. 
Lá ci traemmo e lá fu il nostro ospizio. 70 
Poi que’ buon frati al pozzo ci menaro, 
lo qual dá fama al beato Patrizio. 
Quivi mi disse il mio consiglio caro: 
"Che farem noi? Vuo’ tu passar qua dentro, 
che d’ogni novitá cerchi esser chiaro?" 75 
"Senza il consiglio, rispuos’io, non ci entro 
di questi frati, ché troppo m’è scuro 
pensar cercar lo ’nferno in fino al centro". 
E l’un rispuose a me: "Se netto e puro, 
costante e pien di fede non ti senti, 80 
se v’entri, del tornar non t’assicuro". 
E io: "Se puoi, fa che mi contenti: 
fama di molti per lo mondo vola, 
che son tornati da questi tormenti". 
Ed ello: "Di Patrizio e di Nicola 85 
è manifesto, senza dubbio alcuno, 
che scesono e tornâr per questa gola. 
De gli altri ti so dir che di cento uno, 
che porti di ciò fama, qui non passa: 
e io per certo non ne so niuno". 90 
"Solin, diss’io, questo pensier lassa 
e non volere il tuo Signor tentare; 
tristo sarò s’alcun qui mi trapassa; 
basti a noi quel di sopra cercare". 
"Tu dici ben", diss’ello. E qui da’ frati 95 
preso commiato, li lasciammo stare. 
Cosí passammo monti, ville e prati 
e trovammo le genti, che vi stanno, 
piú ch’ad altro lavoro al cacciar dati. 
Perle, gagate e assai metalli v’hanno 100 
e sassagos, la cui natura è propia 
che, poste al sole, l’arco del ciel fanno. 
L’isola, per lunghezza, vi si copia 
di cento venti miglia e ’l nome ad essa 
quel d’Ibero oceano li s’appropia. 105 
Un’isoletta in questo mare è messa: 
Tanatos, ch’è nemica de’ serpenti; 
poi son l’Ebude assai lungi da essa. 
Propio alcun non voglion queste genti; 
usano latte, pesce e hanno re 110 
ch’a legge i tien con pover vestimenti. 
De le isole Arcade diece n’è 
abitate e qui fui con Solino; 
passammo poi a Tile, ch’al fin è
dico del mondo, per questo cammino. 115

 
 
 

Te dico sempre

Post n°1061 pubblicato il 16 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Te dico sempre

Me devo da scordà de 'gni dolore,
ma nun solo pe' mme, puro pe' cchi
de quanto l'amo nu' lo vô' ccapì.
Bbisogna dì che mmica ha dduro 'r côre,

anzi, piena de dorcezza è 'sta donna,
cià 'n côricino ch'è ppropio 'n gioiello,
che bbrilla più der zaffiro più bbello
e a ttenerezza veramente abbonna.

M'aiuti tu a ccapì 'ndov'ho sbajato?
Lo so quelo che ppenzi ch'è successo,
ma nun è ddetto che tu cià' 'zzeccato.

Ce stà 'na cosa che, si vvôi, te ggiuro,
dicennotelo sempre come adesso:
sei la mia vita, ... poco, ma ssicuro!

Valerio Sampieri
14-15 gennaio 2015

 
 
 
 
 

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Data di creazione: 26/04/2008
 

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