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Messaggi di Novembre 2017

Er bon conzijo

Er bon conzijo

Bisogna che la pianti, Serenella!
Indo' sei stata inzino a 'n'or' de notte?
Io le buscie nu' me le posso ignotte:
parla, sinnò ce becchi 'na frisella.

Si tu sei stufa de fà la zitella,
e che sei sarva pe' le maje rotte,
devi sposatte Nino de le grotte,
che cià casa approntata a la Renella.

Anzi, jeri m'ha detto, ner tramente
che stavo a fa' la spesa, che 'n' ce crede
a quello che te chiacchiera la gente.

Dunque, che cerchi? l'antenati tua!
Armanco te sistemi su du' piede,
e in quanto a corna poi, so' affari sua!

Romeo Collalti
Da Strenna dei Romanisti, 1965, pag. 122

 
 
 

Er cane moralista

Post n°4400 pubblicato il 25 Novembre 2017 da valerio.sampieri
 

Er cane moralista

Più che de prescia (1) er Gatto
agguantò la bistecca de filetto
che fumava in un piatto,
e scappò, come un furmine, sur tetto.
Lì se fermò, posò la refurtiva
e la guardò contento e soddisfatto.
Però s'accorse che nun era solo
perché er Cagnolo der padrone stesso,
vista la scena, j'era corso appresso
e lo stava a guarda da un muricciolo.
A un certo punto, infatti, arzò la testa
e disse ar Micio: - Quanto me dispiace!
Chi se pensava mai ch'eri (2) capace
d'un'azzionaccia indegna come questa?
Nun sai che nun bisogna
approfittasse de la robba artrui?
Hai fregato er padrone! propio lui
che te tiè drento casa! Che vergogna!
Nun sai che la bistecca ch'hai rubbato
peserà mezzo chilo a ditte (3) poco?
Pare quasi impossibbile ch'er coco
nun te ciabbia acchiappato!
Chi t'ha visto?-Nessuno...
- E er padrone? - Nemmeno...
- Allora, - dice - armeno
famo metà per uno!

Note:
1 Più che in fretta.
2 Più che in fretta.
3 A dir.

Trilussa
Trilussa tutte le poesie, a cura di Pietro Pancrazi Note di Luigi Huetter, con 32 illustrazioni dell'Autore e 3 facsimili, Arnoldo Mondadori Editore, V Edizione: settembre 1954, pag. 424

 
 
 

Primavera a Roma

Post n°4399 pubblicato il 25 Novembre 2017 da valerio.sampieri
 

Primavera a Roma

Su la tenera scorza
cuore trafitto
verde rugiada
goccia d'amore ...
Nuvola matta
trafitta di sole
petali bianchi
strama leggeri ...
Pizzica il lichene
della ruina porosa
il becco d'agata
del colombo in amore.
Fontane e cespugli
contano le gocce
gli spini di corallo
e s'addormono in piedi.

Per Roma bisbiglia
il passo dell'erba
che ha bucata la pietra
che ha vinto l'asfalto
che ha morso il piede ...
La mosca verde
sul naso della statua
sperimenta maligna
l'antica pazienza.

Marcello Camilucci
Da Strenna dei Romanisti, 1965, pag. 92

 
 
 

Tarquinia

Post n°4398 pubblicato il 25 Novembre 2017 da valerio.sampieri
 

Tarquinia

A Tarquinia, che declina
su la rorida Maremma,
brucian stoppie, la collina
si distaglia nella fiemma
e le torri addormentate
han la luce dell'acquario,
mentre muti voi guardate
Montecristo e l'Argentario.

Ha riflessi rosa e azzurri,
nel mattino, la salina,
salgon lugubri sussurri
dalla viscida marina
ed il sale pare neve
dove, nudi e screpolati,
vanno i piedi dei forzati.

Ma le donne di Tarquinia
sono belle ed il velame
della cipria è proprio vano
su la pelle color rame.
Son sepolti, nel profondo,
sotto il tufo ed il terriccio,
armi, bare, oro massiccio,
reggie, templi, tutto un mondo.

Cardinale Vitelleschi,
sorgi, cingi la corazza,
va a cavallo verso i freschi
selci della tua terrazza.
Stan belando saporiti
agnellini nella cuccia
e la capra, su i fioriti
prati, mangia la mentuccia.

Vivon grassi come quaglie
i ramarri dello stagno.
Han cappelli alla Tom Mix
e giacconi di fustagno,
i mercanti. Dolci serpi
una specie di narcosi,
tra le anfore e i corruschi
sortilegi degli Etruschi,
da millenni rende sposi.
E sfinite tartarughe
disperatamente avanzano
tra selvatiche lattughe.

S'alza il sole. Due campane,
col martello delle aurore,
sulla piazza batton l'ore.
Zitti. Un fischio le lontane
genti chiama e il litorale
è uno strepito felice
per la caccia del cinghiale,
mentre stanno allineate
quadre torri smemorate,
mentre il Giglio e l'Argentario
han la luce d'un acquario.

Diego Calcagno
Da Strenna dei Romanisti, 1965, pag. 72

 
 
 

Fraschette

Fraschette

Du' botte in fila, come de picchetto
e tre palanche pe' li tavolini,
cerchioni e doghe accatastati ar muro
e pe' mettete a sede un cavalletto,
quarche sedia spajata o un bariletto.
Un fero de cavallo appennolone
pe' mannà via la jella,
cor movimento fa da chiaro scuro
vicino a 'na cupella
che rifinisce la decorazione:
la «fraschetta» in funzione de vetrina
mette in vista er «grottino».

Per lo più la congrega è sempre quella:
li soliti «moschini»
co' la camicia bianca de bucata
e 'na «muta» turchina.

Sotto una vòrta grezza e sverniciata,
un via-vai de misure, aria de fumo
e verso notte «bella» e «passatella»,
conteggi de bevute,
un profumo de vino
e una scena de festa e de salute.

Felice Calabresi
Da Strenna dei Romanisti, 1965, pag. 40

 
 
 

Er più der panorama

Er più der panorama

I


Sforbicia qua, farcia là, nun je resta
manco più un zeppo addosso a st'arberone
a daje un'illusione de riparo:
gnudo se sente e rapata la testa.
E ce mastica amaro.

Lui lo sa ch'è de regola
potà ogni tanto l'arberi giganti.
Ma trovasse davanti
a un popolo de nani che a l'ariaccia
riggida de febbraro
s'àggita tutto, e chiacchiera, e spettegola
su li fattacci sui, je tufa forte.

Certo che, propio ar centro de lo spiazzo
che s'apre ne la macchia, co le braccia
monche tozze scontorte,
e intesito così, pare un pupazzo
pe spaventà l'ucelli.

E d'ucelli era pieno.
E tutti assieme, sciò! via pure quelli:
come cacciaje l'anima ...
Ma arméno
nun poteveno sfugge a quer pignolo
che l'ha stroppiato, du' zeppetti in croce?

In tant'avvilimento
- mo ch'è restato solo,
mo ch'è rimasto muto -
je sarebbe piaciuto fermà er volo
a un passero, tentà un filo de voce
a ogni botta de vento.

II

E er tempo passa e ammucchia lento, eterno,
giorni su giorni d'acqua e nebbia e gelo,
giorni su giorni de strazio: l'inverno
in agonia se piagne l'animaccia.
E dà l'urtimi tratti in un inquacchio
de marciume e mollaccia
che impiastra er paesaggio fino ar celo.

E intanto l'arberone, poveraccio,
abbòzza: mai scenario così racchio
l'ha visto recità da prim'attore
la parte der pajaccio.

Ma era lui, propio lui quer gran signore
attrippato de verde e co una rama
arta spettacolosa pe pennacchio,
come segno der più der panorama?

Dio, poté come allora, da lassù,
svarià la vista nell'aria tranquilla
e riempilla de chiaro e lontananze;
e poté fionnà er core e facce un ponte
da la macchia a la piana a la marina
che sfavilla turchina a l'orizzonte
pinticchiata de vele de paranze!

Ma lui lo sa: in cent'anni
de scòla, er sempiterno
rotà de le staggioni j ha imparato
che addannasse è peccato e nun bisogna
mai dubbità. Fra poco, da un inferno,
un paradiso ha da nasce; e l'affanni
via tutti, e la vergogna
darà er passo a un trionfo.
Questo dice,
fra lui, er colosso. E mo, che la tempesta
e er fiele je se scarichino addosso
quanto je pare! Lui spiana la cresta,
se lassa annà e s'appènnica. E s'insogna
che scocca l'ora der tempo felice.

III


«Popolo de la macchia!

Razza pettegolona de spaporchi,
nun me risponni? Eppure, co la pacchia,
m'è tornata la voce e parlo chiaro.
Capisco. A un pipinaro
de manichi de scopa zozzi sporchi
compagno ar vostro, pe sputà veleno
je ce vò che lo sbatteno li venti
de maestro o libbeccio, e perde er fiato
come torna er sereno.

Gnente più urli, qui, gnente lamenti
e no fischi, e no scrocchi
de zeppi e spine. Solo chi ha fijato
robba speciale pò cantà ner coro
che ar bacio de ponente arza er tesoro
nato dar sugo mio.

E mo, poveri cocchi,
se a comparì sfiatati ve confonne,
sta a voiartri abbozzà. Ma ce so' io
che possa arméno ricreavve l'occhi
co sta grazia de Dio.
Guardate qua, che rame fresche! E un fascio
fitto de rame pe ogni braccio, e fronne
e fronne e fronne, a sfascio!»

IV

Benedetto sia er sonno
se fintanto che dura,
porta sogni a mannà, fòr de staggione,
tra arberelli e arberone er conto in paro.

Ma aprile ha già bussato de premura
a le porte d'un monno
in miseria, ch'aspetta er bene raro
de scialà co le prime margherite.

E già, pe' grazia de madre natura,
una peluria de verdino chiaro
spunta ar gigante sopra a le ferite
ancora fresche de la potatura.

C.A. Zanazzo
Da: Strenna dei Romanisti, 1964, pag. 504

 
 
 

Elegia albana

Post n°4395 pubblicato il 24 Novembre 2017 da valerio.sampieri
 

Elegia albana

Scendevo quasi portato da un'estasi della memoria
la galleria dei lecci da Castel Gandolfo ad Albano,
scendevo sotto la volta che gli antichissimi alberi
di sulle rocce incurvano con nervature nere
di bracci intrecciantisi, mentre le foglie minute
trapuntano contro cielo un lavorato soffitto.
Scendevo fra gli alberi, senza pensieri ma non dismemore,
scordavo la vita di oggi, più memore della lontana,
perché con mio padre già venni fanciullo fra questi lecci
e poi con Onofri poeta e altri amici anche cari;
ma tante volte che v'ero passato ammirando,
mai scorto avevo sul cielo quel fino ricamo di foglie.
Tanto ci vuole, una vita intiera, a vedere! E ti accorgi
d'un tratto che l'occhio ha sempre meglio imparato
l'arte di guardare e comincia a vedere davvero le cose
quando la luce del mondo gli sta tramontando dinanzi.
Mentre così nell'intimo scoprivo un luogo già amato,
passarono carri veloci coi grappoli della vendemmia,
(una volta erano asini lenti lenti con doppia bigoncia!);
lasciarono in quel fuggire una scia odorosa di uva,
e credetti di bere il mosto, inebbriandomi solo all'odore
come della vita fuggita mi dà un capogiro il ricordo.
E dopo passò un uomo e mi dette la buona sera
col gentile costume della gente che ancora saluta
in questo paese di vigne, in questa terra albana.
Così, fra poco, o miei cari, ci saluteremo laggiù.

Giorgio Vigolo
Da: Strenna dei Romanisti, 1964, pag. 484

 
 
 

Tramonto - La rota

Tramonto

Nun so perché, ma quanno cala er sole
e vedo la giornata che va via,
me scegne addosso 'na malinconia
che a raccontalla nun ce so' parole.
Forse sarà perché se porta via
'n' antra giornata de la vita mia.


La rota


Che destinaccio cià la razza umana!
Chi la cattiva e chi la bona stella;
chi cià tanta migragna e chi la grana,
chi trotta a piedi e chi va in carozzella.
Chi va pe scesa, e c'è chi va in salita;
c'è chi je gira bene assai la wta
e chi ha da tribbolà tutta la vita.

Tarcisio Turco
Da: Strenna dei Romanisti, 1964, pag. 472

 
 
 

Roma

Post n°4393 pubblicato il 23 Novembre 2017 da valerio.sampieri
 

Roma
A Livio Jannattoni

Eri idea prima dell'idea
forma prima della forma
legge prima della legge
scortata da frenesie e desolazioni avvincenti
pietra acqua cielo
sontuosità di rossi affiancati
in strade alture giardini piazze
e inveterata pigrizia
(Pope Pabst Pape per tutte le lingue
e tutte le istituzioni)
caldane di pellegrinaggi anonimi
vendite franche di indulgenze VOILÀ L'ÉTERNITÉ
impiccati - respirante vento -
arsi di ingiurie quasi alle porte (1).
come cola il sole
giro lento d'occhi da fontane speculate
ronzio d'api simoniache
crosci furiosi da Nachtlied dirompenti brame (2)
e Miserere di Allegri nella settimana santa.
Reggenze di Cesari e Pasquini pasquini e cesari
eterno senza portata né dimensione
archi divaricati cupole fisse
capziosità di secoli
degradate da bynights per turisti
di razze e categorie diverse
Fori con commento di Rossellini
Fontane di Trevi per Corinne da oratorio (3)
e vie Veneto· dagli inguini scoperti.
Animosa la luna gonfia a S. Pietro
l'esasperata mongolfiera.
- Chiudete i rubinetti (4)
(Regginanunsepo').
Bon pour le sérail (5)
(valida ancora la chiave affidata al mondo?).
Satura di terra l'Eva della Sistina
trabocca ardori dalla feconda insipienza
immensa
la città delle vergini e delle cortigiane
fiaccate dalla stessa estasi.
Croci militate
frustini da Grand Tour
alberghi Hilton per beduini
(il Tevere segue sempre lo steso corso
fatale).
Nemmeno l'amore è fortuito
rapide di giovinezza
silenzio abisso profumo rovtna
be great, be true (6)
woran der Mensch sich selber messen lerne (7)
e la sua inestricabile verità
più accesa di tutti gli istinti
tutte le potenze
tutte le esaltazioni.
Inafferrabile ROMA nel male che
avvilisce, nell'infinito che si rinnova
nella linea spezzata di un'unica contingenza.
Di notte distesa nella tua solitudine
logorata da feroci risonanze
sventri la pietà
ripristinando il senso umano del tempo
nella sua interezza e nella sua disperazione.

Note:
La poesia è in parte ispirata alla raccolta Roma e i poeti di LIVIO JANNATTONI (Sciascia 19')0) della quale ho curato la sezione tedesca.
(1) Il 5 luglio 1819, dopo un lungo soggiorno nella Capitale, Grillparzer riprendeva la strada di Vienna. Superato di poco ponte Milvio veniva colpito dall'aspetto desolante della campagna romana popolata da avanzi di uomini appesi alle forche (v. « Reise nach Italien»).
(2) «Da una loggia di piazza Barberini 56, dove abitava presso il pittore svizzero Muller, Nietszche finì con l'ascoltare la voce della fontana berniniana da una profondità capace di suscitare i solenni accordi del Nachtlied, festa della donazione, e con l'abbandonarsi al tragico ritmo "morto di immortalità" ». La poesia, che risale ali' '83, venne inserita successivamente nell'« Also sprach Zarathustra».
(3) «Corinne ou de l'Italie» di M.me DE STAEL.
(4) «L'invenzione straordinariamente varia e la ricchezza delle fontane hanno sempre colpito di vivo stupore i visitatori di Roma alla loro prima entrata. La stessa regina Cristina di Svezia poté fare, a questo proposito, una figura di perfetta provinciale allorché si credette in obbligo di ringraziare Papa e Senato della grandiosa festa idraulica che pensava improvvisata in suo onore. Conosciuto poi che le cose stavano sempre (giorno e notte) a quel modo, la Minerva svedese restò di sasso» (ANTONIO BALDINI, Rugantino, Bompiani, 1942, p. 183).
(5) La definizione è di Montesquieu (v. «Voyages»: f'appelois Rome un sérail).
(6) R. W. EMERSON, Written at Rome.
(7) F. HEBBEL, Eine Mondnacht in Rom.

Jole Tognelli
Da: Strenna dei Romanisti, 1964, pag. 456.

 
 
 

Lavoro

Post n°4392 pubblicato il 23 Novembre 2017 da valerio.sampieri
 

Lavoro

Quanno dico: lavoro!
l'hai da caccià er cappello;
mejo de come fai davanti all'oro.
Come ciavressi, tu, senza de quello,
er pane e li conforti de la vita?
Solo chi vô campà da parassita,
potrà vedello come er fumo all'occhi!
Nun te darà guadagni,
ma bene o male, magni.
E quanno hai lavorato, quer boccone,
lo manni giù co' più sodisfazione.
Mo nun te crede mica
de potello chiamà divertimento.
Er lavoro è fatica,
spesso un'angustia, un vero tribbolà.
Però, si tu sapessi che tormento,
quanno lo cerchi e nun lo pôi trovà! ...

Giggi Spaducci
Da: Strenna dei Romanisti, 1964, pag. 440

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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