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Messaggi di Marzo 2014

L’estetica dell’extra large

Post n°374 pubblicato il 28 Marzo 2014 da viburnorosso

Roma paralizzata.
Traffico impazzito.
Transito deviato da via dei Fori Imperiali.
Fermata metro Colosseo chiusa.
Tutto questo per permettere al presidente degli Sstati Uniti di visitare privatamente uno dei più grandi capolavori architettonici dell’Umanità:
l’arena dove i morituri te salutant. Lo stadio rotondo con le finestre senza infissi. Insomma, il simbolo imperituro dell’orgoglio capitolino nel mondo.
Un prezzo che, nonostante i mugugnii e le lamentele, alla fine Roma e i romani hanno pagato volentieri che mica tutti hanno un Colosseo nel cilindro da tirar fuori per lasciare il pubblico esterrefatto!

E lui? Il primo Presidente nero nella storia del suo Paese? È rimasto folgorato da cotanta magnificenza? Si è piegato all’evidenza di una cultura millenaria che può permettersi di lasciare pezzi di storia abbandonati lungo i marciapiedi?

Ovvio! Che domande! La vista del Colosseo deve averlo sconvolto perché ha esclamato:
“INCREDIBILE, PIÙ GRANDE DI UN CAMPO DA BASEBALL!”.

Bè, sono soddisfazioni! Cose che danno un senso ad un giornata di sacrifici. Soprattutto se pronunciate dal Presidente di una nazione che ha fatto della misura extra large uno dei valori fondanti del suo pensiero estetico.
Del resto, se andate da un Mac Donald, non è forse  il Big Mac il panino più ambito?
E Pamela Anderson, quando si rifece le tette, non optò per una sesta?

Solo avrei un suggerimento.
Se per la sua prossima visita Obama esprimesse il desiderio di visitare privatamente la Basilica di San Pietro, perché non dirottarlo sui campi di Trigoria?
Quelli dove l’AS Roma svolge gli allenamenti settimanali?
Come dimensioni, a mio parere, non sfigurano affatto! 

Però almeno stanno fuori dal GRA!

 
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Il giocatore di violino

Post n°373 pubblicato il 26 Marzo 2014 da viburnorosso
 

È salito a Garbatella.
Portava a tracolla sulla schiena il fodero un po’ consunto di una racchetta da tennis, anche se l’abbigliamento non pareva congruo all’attività sportiva.
E neanche alla giornata.
Che quella giacchetta a quadri, seppur dignitosissima, non riparava affatto dall’improvviso abbassamento della temperatura.
Del resto anche io la mattina ci ero rimasta fregata.
Da dietro ai vetri di casa il sole brillava a garanzia di una primavera solo apparente, e adesso mi stringevo nei miei abiti leggeri, riscaldandomi col pensiero di una sciarpa.

Dalla custodia sulla schiena ha tirato fuori un violino dal manico consumato come una racchetta che ha fatto molto partite, e ci si è messo a giocare.
Ora capisco perché in alcune lingue per “suonare” serve la stessa parola che si usa per “giocare”!
Che poi a pensarci bene tra le due attività esiste anche un’evidente affinità logica: entrambe forniscono diletto tanto a chi le  svolge quanto a chi vi assiste.
Altrimenti non si spiegherebbe perché la gente possa passare ore ad osservare una pallina che vola da una parte all’altra del campo.
Forse è anche per questo che chi si diverte a giocare o suonare viene definito “dilettante”.  
Perché con questa parola si sottolinea non tanto la scarsa abilità che si possiede nello svolgere queste attività, quanto piuttosto il diletto che se ne ricava.

A me, però, il musicista con la giacchetta a quadri non sembrava affatto un dilettante. Come suonava! E aveva tutta l’aria di divertirsi veramente.
Avreste dovuto vedere come ci giocava con quel violino!
Virtuosismi da fondo campo e sotto rete!
Una serie di tiri imprendibili, che siamo tutti rimasti a bocca aperta. E orecchie spalancate.
Purtroppo alla fermata successiva sono dovuta scendere, mentre mi sarebbe piaciuto tanto restare a seguire tutta la partita.

Ci pensavo percorrendo il vialetto che dalla metro mi porta al lavoro.
Poi mentre salivo per le scale già me ne ero dimenticata.
Se non fosse che un attimo prima di entrare in ufficio, girandomi indietro, mi sono accorta che avevo lasciato impronte di terra rossa sul pavimento del corridoio!

 
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Siamo tutti allusi

Post n°372 pubblicato il 23 Marzo 2014 da viburnorosso


L’altra sera, seduti sul divano.
Il Gufetto guarda la televisione. Io sfoglio distratta la rivista che tengo sulle ginocchia.
Va in onda uno spot di biscotti, come poi deduco della conversazione che segue.


- Certo mamma, che siamo tutti allusi!

- Cosa siamo? Illusi? Si penso tu abbia ragione! [Passo dalla rubrica Decor a quella Cucina, che poi è la mia preferita]

- Mannò mamma, ALLUSI! Con la A di ALLUSIONE!

- Scusa ma non capisco cosa vuoi dire, spiegami meglio! [Stacco gli occhi dalla ricetta della Torta rovesciata di pinoli e pesche allo zenzero (che tanto non è stagione di pesche e lo zenzero dove lo trovo?) e mi spingo nel suo groviglio argomentativo]

- Ma ovvio, no? Intendo dire che quando scegliamo un prodotto, non scegliamo quello che ci pare, ma quello che la pubblicità ci suggerisce di comprare. Io per esempio adesso voglio questi biscotti perché sono ALLUSO!

- Sì, su questo sono d’accordo con te, ma non capisco perché dici ALLUSO! [Però forse sono un po’ allusa anche io, perché in effetti se ci fossero un paio di quei biscottini sotto mano …]

- Come non lo capisci? Non sai che vuol dire ALLUDERE?

- Sì, certo, vuol dire fare un’allusione, cioè un riferimento nascosto a qualcosa! Come quando io compro il bagnoschiuma profumoso per invogliarti a fare la doccia!
- Ecco, appunto! E la pubblicità non allude sempre a qualcosa che non hai per convincerti a volerla?
Insomma cerca di persuàderti. O persuadérti? 
Com’è che si dice?

 

 

 

 

Note sparse a piè di serata:

  • A 11 anni i ragazzini sono già molto sgamati sulle bieche strategie di marketing pubblicitario.
    Mentre la semantica lessicale della lingua italiana rimane un oggetto abbastanza misterioso. Per non dir poi della sintassi.
  • Perché sulle riviste di moda ci sono sempre delle ricette improbabili con prodotti introvabili, tipo la misteriosa pasta fillo? (che anzi, se qualcuno sa dirmi dove si compera …).
  • Nonostante io opponga una strenua resistenza ideologia alle lusinghe del consumismo, devo ammettere che ci sono cose che mi alludono molto.  Tipo la famosa crema spalmabile al cioccolato da mangiare direttamente a cucchiaini dal barattolo.
  • Perché piè si scrive piè con l’accento grave su la è quando invece è un troncamento al pari di  po’ e va’
  • Ma soprattutto, esiste un trucco per ricordarsi subito se si dice persuàdere o persuadére senza perdere di autorevolezza materna consultando il dizionario?

 

 
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Presagi trascurati. Ovvero anche i gatti neri stanno attenti a chi gli attraversa la strada

Post n°371 pubblicato il 19 Marzo 2014 da viburnorosso

Certi periodi vengono fuori storti. Molto storti.

Con dentro delle giornate talmente aggrovigliate che non c’è  verso di riuscire a raddrizzarle. Non vale manco la pena provarci.
Piuttosto, quando uno capisce di aver imboccato un periodo così, farebbe bene a mettersi sull’attenti e ascoltare tutti i campanelli d’allarme che sente risuonare lungo la via: se imparasse a leggere il futuro nei presagi, probabilmente riuscirebbe a sottrarsi almeno in parte al perfido destino che lo attende.
In fondo basterebbe allungare la mano per spegnerli, quei campanelli, e girarsi dall’altra parte per continuare a dormire.
E fa nulla se si stava dentro a un incubo, tanto fuori dal mondo onirico andrebbe comunque peggio.

Il fatto è che io, quando sento accendersi un campanello d’allarme, lo confondo sempre col suono della sveglia:
spalanco gli occhi, guardo l’ora, e mi accorgo di essere fottutamente in ritardo.
Da quel momento in poi tutta la giornata si trasforma in una disperata corsa verso l’inevitabile precipizio.
Tutto questo perché non sono in grado di interpretare correttamente gli auspici e divinare il futuro dai segnali che la Fortuna inutilmente mi lancia!
Vittima di un futile rigore illuminista, continuo a trascurare la millenaria saggezza apotropaica e a scambiare campanelli d’allarme per segnali di tempo scaduto!
Così finisce che leggo un VAI! laddove c’è scritto a caratteri cubitali uno STAI!

Ieri mattina per esempio sarebbe bastato guardare la mia immagine riflessa nello specchio per capire che era meglio lasciar perdere.
Avevo quell’aria da sopravvissuta ad un ciclo mestruale che solo uno shampoo può riparare, ma non avevo tempo manco per una tazza di tè, figuriamoci mezzora per lavarmi i capelli.

Ti sarai rimessa a letto, penserete voi?
Macché, ho optato per una disperata (nonché collaudata) operazione di rianimazione tricologica, che poi consiste nel versarmi in testa mezzo boccino di sansilkricciperfetti (quello verde, che odora ingannevolmente di fresco), raccogliere la chioma in stile finto spettinato (che in realtà è spettinato veramente, ma è bene lasciar credere che sia stato creato ad arte per ottenere quel tocco di raffinata noncuranza cha fa subito intellettuale impegnata) e riprendere la frangia lateralmente con spazzola e phon.
Tre minuti per un risultato che garantisce mezza giornata di presentabilità!

Brava, direte! Ed è quello che pensavo anche io mentre contemplavo soddisfatta l'opera allo specchio.
Se non che, mentre vado a riporre la spazzola sulla mensolina del bagno, questa non mi cade dritta dritta nella tazza del cesso?
Resto impalata come una scema:  cappotto infilato, una borsa in equilibrio precario sulla spalla destra e tre mazzi di chiavi nella mano sinistra! Totalmente sorda al trillo del campanello che oramai si è messo a suonare incessantemente!

Forse state pensando che non fosse un segnale sufficiente a farmi capire che sarebbe stato meglio cambiare programma alla giornata?
Avete ragione! Perché in effetti si possono ricevere segnali anche più espliciti!
Per esempio, più di una spazzola caduta nella tazza del cesso, può fare una spazzola caduta in una tazza del cesso che conserva ancora traccia del passaggio del suo ultimo ospite.

Dite che non era ancora abbastanza per rintracciarvi dentro un avvertimento?
Giusto!
Perché può anche accadere che nel tentativo di recuperare la spazzola, dalla mensolina cada giù il bicchiere con gli spazzolini da denti.
Ovviamente anche loro diritti nella tazza del cesso.

Ma niente, ottusa come non mai, ieri mattina ho trascurato tutti i campanelli che sentivo squillare.
E alla fine ho commesso pure l’imprudenza di uscire di casa. 

Chiaramente non ci voleva un indovino a capire che il seguito della giornata sarebbe stato all’altezza del suo inizio.

Avrebbe potuto dirmelo anche il gatto nero che per poco non ho messo sotto mentre cercava di attraversarmi la strada!
Ma lui ci ha messo un attimo a capire che quando una macchina gialla ti taglia la strada è un evidente segnale di cattivo aupiscio:
infatti si è girato sulle zampe e se ne è tornato da dove era venuto!


 
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28 minuti per stupirsi

Post n°370 pubblicato il 14 Marzo 2014 da viburnorosso

Ci vogliono 28 minuti esatti.
30 per arrotondare.
Che a volte diventano pure 35 se per caso a Bologna o Tiburtina il treno rimane fermo con le porte aperte, che dopo un po’ tutti cominciano a guardare l’orologio e a sbuffare.
Perché l’abitudine innesca l’irritazione, invece di prevenirla.

Di solito capita che sali a Marconi che è ancora giorno, con tutti i colori e le cose del giorno, e quando risbuchi fuori a Rebibbia, è già notte, col buio e i lampioni accessi che disegnano l’ombra lunga ai pensieri della sera.
È passata solo mezzora e nel frattempo è successo un tramonto.
E quello che hai davanti è lo stesso giorno di prima, solo che non lo riconosci più.
Un po’ come quando incontri una persona dopo tanti anni, che è sempre lei, ma è anche tutto quello che è diventata mentre tu non c’eri.
E così hai davanti la sera di un giorno di cui ti manca un pezzo.
Li cuci insieme cercando di farli combaciare uno su l’altro. Tanto il mondo funziona lo stesso pure con qualche rattoppo.
Però ogni volta che accade non puoi fare a meno di stupirti.

La volta più sorprendente fu però un paio di anni fa, quando mi capitò di entrare in stazione proprio all'inizio di uno spaventoso temporale.
Che poi, pensavo, è sempre antipatico da tenere in grembo, l’ombrello bagnato, se per caso hai la fortuna di trovare un posto a sedere.
Allora mi sono inventata questa cosa qui, che lascio asciugare l’ombrello trattenendolo dritto tra le caviglie e le ginocchia, attenta che rimanga sollevato quel tanto che basta per non fargli toccare il pavimento del vagone.
E mentre sostengo questo precario equilibrio, mantenendo la giusta tensione tra muscoli e ragionamenti, e mancheranno giusto cinque minuti all’arrivo, ecco che il treno sbuca fuori nel tratto scoperto tra Santa Maria del Soccorso e Ponte Mammolo:
l’occhio finisce oltre al finestrino e io non posso fare a meno di trattenere il fiato.
Allento la presa.
L’ombrello cade.
Il mondo come lo conosco è sparito, cancellato da strati di bianco.
La neve ha coperto tutto, tanto che viene da chiedermi se per sbaglio il treno a Termini non abbia infilato la galleria del monte Bianco.
Fu vero stupore quella volta.

Ma la meraviglia non ha neanche bisogno di eventi così improbabili.
Si accontenta dell'ordinario.
Ieri per esempio mi è capitato di mettere il naso fuori a Rebibbia nel momento esatto in cui il sole esplodeva in un tramonto rosa dietro una striscia di nuvole viola, che sembravano delimitare in tondo la pancia del cielo.
Non ho potuto fare a meno di pensare che l’intero universo si sia originato proprio attorno a questo periferico e degradato ombelico di città.
E che la scala del sottopasso di via Tiburtina sia solo la strada per entrarci dentro.

 
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