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Un blog creato da kaori_chan il 27/01/2011

Yume no Hime

So run, run, run and hate me, if it feels good I can't hear your screams anymore...

 
 

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ma č bellissima questa storia :))) brava!!!
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Ciao carissima Kaori come va?tutto bene lo spero....Un...
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Il coniglio bianco di Inaba

Post n°54 pubblicato il 26 Luglio 2012 da kaori_chan

C'era una volta un coniglio che abitava su un'isola chiamata Okinoshima. Guardando la costa di Inaba, in Giappone, visibile in lontananza, pensò:
"Vorrei tanto andare su quella grande isola laggiù..."
Perciò, il coniglio raggiunse la spiaggia e disse a un pescecane che si trovava lì:
"Signor pescecane, signor pescecane! Fra noi conigli e voi pescecani chi pensi siano i più numerosi?"
Il pescecane rispose:
"E' evidente che siamo noi pescecani a essere più numerosi!"
Soggiunse il coniglio:
"Se stanno davvero così le cose, ti chiedo di radunare tutti i tuoi compagni. Proverò a contarvi."
Il pescecane chiamò a raccolta i suoi compagni e li fece disporre sulla superficie del mare in una lunga fila.
Ed erano tanti, davvero tanti.
Così tanti da potersi allineare uno accanto all'altro dalla costa di Okinoshima, fino alla costa di Inaba.
"Evviva!" pensò il coniglio e cominciò a zompare e balzare sul dorso dei pescecani; nel frattempo li contava.
"Uno, due, tre..."
Così facendo, quando infine giunse alla costa di Inaba, inavvertitamente disse:
"Ehi! Signori pescecani ci siete cascati! In realtà ho fatto tutto questo solo per attraversare il mare e poter raggiungere Inaba!"
L'ultimo pescecane, udite queste parole, afferrò il coniglio e lo scuoiò.
Passarono di lì delle divinità. Una di loro, vedendo la pelle nuda arrossata del coniglio scuoiato, disse:
"Ehi, coniglio! Ma ti hanno scuoiato, vero? Sciacquati con dell'acqua di mare e poi asciugati al sole. Vedrai che il dolore passerà."
Ma costoro erano divinità dispettose e volevano solo prendersi gioco del coniglio.
Quest'ultimo fece come gli era stato detto. Si lavò con dell'acqua di mare, si asciugò al sole, ma ciò non fece altro che peggiorare la sua sofferenza.
Fu allora che un dio, l'augusto Okuninushi fratello minore delle dispettose divinità, arrivò. Ed era tanto buono e gentile.
"Ma tu guarda, poverino! Sciacquati con dell'acqua dolce di fiume e poi copriti con delle spighe di mazzasorda. Se farai così tornerai a star bene come prima."
Fu questa la spiegazione dell'augusto Okuninushi al coniglio.
Il tenero coniglietto fece come gli era stato detto. Si lavò nel fiume, poi raccolse delle spighe di mazzasorda e con quelle si coprì.
E così, il dolore si alleviò e anche il pelo bianco e candido cominciò a ricrescere.
"E d'ora in poi, non dire più bugie. Ricorda che quando si commette una cattiveria, questa viene sempre restituita in un modo o nell'altro."
Il coniglio, colmo di gratitudine, si pentì dal profondo del suo cuoricino.

 
 
 

Le pietre di cinque colori

Post n°53 pubblicato il 17 Maggio 2012 da kaori_chan


Tantissimo tempo fa viveva una grandissima imperatrice cinese che era succeduta al fratello, l’imperatore Fuki. Era L’Età dei Giganti, e l’imperatrice Jokwa, questo era il suo nome, ascoltava volentieri i racconti che riguardavano la vita di suo fratello. Era una donna splendida, e un’abile donna di governo. Si narra una curiosa storia sul modo in cui riparò una parte del cielo che si era spezzata e una delle colonne sulla terra che reggono il cielo, entrambe danneggiati nel corso di una ribellione sollevata da uno dei sudditi dell’imperatore Fuki.
Il ribelle si chiamava Kokai. Era alto ventisei piedi. Aveva il corpo completamente ricoperto di peli e la faccia nera come il carbone. Era un mago e, come se non bastasse, aveva un pessimo carattere. Quando morì l’Imperatore Fuki, Kokai fu invaso dall’ambizione di diventare imperatore della Cina, ma il suo piano andò in fumo, e Jokwa, la sorella dell’imperatore morto, ascese al trono.
Kokai era così furioso che il suo desiderio fosse stato frustrato, che sollevò una ribellione. Il suo primo atto fu quello di servirsi del Demone delle Acque il quale provocò una grande inondazione che si rovesciò sul paese e fece affogare la gente sventurata trascinandola fuori dalle case. Quando l’imperatrice Jokwa vide la tragica situazione dei suoi sudditi e seppe che era colpa di Kokai, gli dichiarò guerra.
Ora Jokwa aveva al suo servizio due giovani guerrieri di nome Hako ed Eiko e nominò il primo generale delle forze armate. Hako fu lusingato del fatto che la scelta dell’imperatrice fosse caduta su di lui e si preparò alla battaglia. Prese la lancia più lunga che poté trovare e saltò in groppa a un cavallo rosso. Stava per dare di sprone quando udì qualcuno galoppare furiosamente verso di lui gridando:
«Fermati, Hako! Il generale delle forze armate devo essere io».
Guardò dietro di sé e vide il suo compagno Eiko in groppa a un cavallo bianco nell’atto di sguainare una grande spada per gettarsi su di lui. L’ira di Hako esplose e girandosi verso il rivale gridò:
«Miserabile insolente! È l’imperatrice che mi ha scelto per guidare le forze armate in battaglia! Come osi fermarmi?»
«Ebbene» rispose Eiko «sarebbe toccato a me guidare l’esercito. Sei tu che devi seguirmi».
A questa risposta sfrontata l’ira di Hako divampò come una fiamma.
«Osi rispondermi così? Prendi questo!» e spinse la lancia verso di lui.
Ma Eiko si spostò repentinamente di lato e nello stesso tempo, sollevando la spada, ferì alla testa il cavallo del generale. Hako, costretto a scendere, stava per scagliarsi contro l’avversario, quando Eiko, veloce come un lampo, strappò dal suo petto l’insegna del comando e galoppò via. L’azione era stata così improvvisa e rapida che Hako rimase sbalordito senza sapere che fare.
L’imperatrice aveva assistito alla scena e non aveva potuto che ammirare la rapidità dell’ambizioso Eiko, e per riportare la pace fra i due rivali, decise nominarli entrambi generali del suo esercito.
E così Hako fu nominato comandante dell’ala sinistra ed Eiko di quella destra. Centomila soldati li seguivano e marciavano per abbattere il ribelle Kokai.
In breve tempo i due generali raggiunsero la roccaforte in cui Kokai si era asserragliato. Quando si accorse che si stavano avvicinando, il mago disse:
«Spazzerò via quei due ragazzini con un soffio solo». Non aveva la più pallida idea di che dura battaglia lo aspettava.
Con queste parole Kokai afferrò un bastone di ferro, montò in sella a un cavallo nero e si slanciò avanti come una tigre inferocita per incontrare i suoi due nemici.
Non appena i due giovani guerrieri lo videro scagliarsi contro di loro, si dissero l’uno con l’altro: «Non dobbiamo permettere che ne esca vivo», e lo assalirono da destra e da sinistra con la spada e con la lancia. Ma non era così facile sconfiggere il potentissimo Kokai, che prese a roteare vorticosamente il suo bastone di ferro come una grande ruota di mulino, cosicché per un bel po’ di tempo non ci furono né vinti né vincitori. Alla fine, per evitare il bastone di ferro del mago, Hako fece voltare il cavallo troppo in fretta. L’animale urtò con lo zoccolo in una grossa pietra e terrorizzato si drizzò come un paravento sulle zampe posteriori, gettando a terra il suo cavaliere.
Allora Kokai sollevò la sua spada a tre tagli e stava per uccidere l’indifeso Hako, ma prima che potesse portare a termine la sua infame azione, il valoroso Eiko girò il cavallo fino a trovarsi di fronte a Kokai e lo sfidò a mettere alla prova la sua forza con lui invece di uccidere un uomo caduto. Ma Kokai era stanco e non se la sentiva di affrontare quel soldato riposato e coraggioso, cosicché fece voltare il suo cavallo e fuggì dalla mischia.
Intanto Hako, che era solo leggermente stordito, si era alzato in piedi, e lui e il suo compagno inseguirono il nemico in fuga uno a piedi e l’altro a cavallo.
Kokai, vedendosi inseguito, si voltò verso il suo assalitore più vicino, che naturalmente era Eiko, ed estratta una freccia dalla faretra che gli pendeva sulla schiena, la incoccò e la scoccò contro Eiko.
Veloce come un lampo l’attento Eiko evitò la saetta che colpì soltanto le cinghie del suo elmo, fu deviata e arrivò innocua contro l’armatura di Hako.
Il mago vide che entrambi i suoi nemici erano rimasti illesi. Si rese anche conto che non c’era tempo di scagliare un’altra freccia prima che piombassero su di lui, e così per salvarsi ricorse alla magia. Stese la bacchetta magica, e subito si levò una grande ondata che trascinò via come foglie d’autunno cadute l’esercito di Jokwa e i suoi valorosi generali.
Hako ed Eiko si trovarono a dibattersi immersi nell’acqua fino al collo e, guardandosi intorno, videro il feroce Kokai che veniva verso di loro tenendo in alto il suo bastone di ferro. Pensarono per un attimo che stavano per essere abbattuti, ma coraggiosamente nuotarono con forza per portarsi il più lontano possibile da Kokai. All’improvviso si trovarono davanti a qualcosa che sembrava essere un’isola che si levava diritta sulle acque. Alzarono gli occhi e videro un vecchio con i capelli bianchi come la neve che sorrideva nella loro direzione. Gli gridarono di aiutarli. Il vecchio annuì e scese fino al bordo dell’acqua. Non appena i suoi piedi la toccarono, le onde si divisero e tra lo sbalordimento degli uomini che stavano affogando apparve una strada che permise loro di portarsi in salvo.
Nel frattempo Kokai aveva raggiunto l’isola che era uscita dall’acqua come per incanto e, vedendo che i suoi nemici erano salvi, divenne furibondo. Si slanciò attraverso l’acqua contro il vecchio, e sembrò certo che lo avrebbe ucciso. Ma il vecchio non sembrò minimamente spaventato e aspettò con calma l’assalto del mago.
Quando Kokai si avvicinò, il vecchio rise forte e allegramente, poi, tramutatosi in una grande e bella gru, sbatté le ali e volò alto nel cielo.
A quella vista Hako ed Eiko capirono che il loro salvatore non era un semplice essere umano, ma forse era un dio travestito, e sperarono di scoprire prima o poi dove abitava quel venerabile vecchio.
Intanto si erano ritirati, e poiché il sole stava tramontando ed era quasi notte, sia Kokai che i giovani guerrieri desistettero dall’idea di combattere ancora per quel giorno.
Durante quella notte Hako ed Eiko decisero che era inutile combattere contro il mago Kokai, dato che questi era dotato di poteri soprannaturali, mentre loro due erano dei semplici esseri umani. E così si presentarono all’imperatrice Jokwa. Dopo un lungo consulto l’imperatrice decise di chiedere al Re del Fuoco, Shikuyu, di aiutarla contro il mago ribelle e di guidare il suo esercito contro di lui.
Ora Shikuyu, il Re del Fuoco, viveva al Polo Sud. Per lui era l’unico posto sicuro dove abitare, dal momento che bruciava ogni cosa intorno a lui, ma era impossibile bruciare la neve e il ghiaccio. Aveva l’aspetto di un gigante ed era alto trenta piedi. Il suo viso era simile al marmo e la barba era lunga e bianca come neve. Aveva una forza prodigiosa e comandava il fuoco proprio come Kokai comandava l’acqua.
«Di certo» pensò la principessa «Shikuyu è in grado di sconfiggere Kokai». E così mandò Eiko al Polo Sud per supplicare Shikuyu di condurre personalmente la guerra contro Kokai e di sconfiggerlo una volta per tutte.
Il Re del Fuoco, all’udire la richiesta dell’imperatrice, sorrise e disse:
«Niente di più facile, puoi starne certo! Sappi che ero proprio io quello che è venuto a salvare te e i tuoi compagni mentre stavate per affogare tra le onde scatenate da Kokai!».
Eiko fu stupito quando apprese ciò. Ringraziò il Re del Fuoco per essere venuto a salvarli in quel terribile frangente e lo supplicò di far ritorno con lui per condurre la guerra e sconfiggere il malvagio Kokai.
Shikuyu esaudì la preghiera e fece ritorno con Eiko dall’imperatrice. Questa lo accolse con cordialità e gli spiegò a sua volta perché lo aveva mandato a chiamare, cioè per chiedergli di essere il comandante supremo del suo esercito. La risposta del Re del Fuoco fu quanto di più rassicurante:
«Non avere il minimo timore. Non desidero altro che uccidere Kokai».
Shikuyu quindi si pose alla testa di trentamila soldati e, con Hako ed Eiko che gli mostravano la strada, marciò alla volta della roccaforte del nemico. Il Re del Fuoco conosceva il segreto della potenza di Kokai e disse a tutti i soldati di raccogliere un certo tipo di cespuglio. Poi ne bruciarono una grande quantità, e il Re del Fuoco ordinò a ciascuno di riempire un sacchetto con la cenere ottenuta.
Kokai dal canto suo riteneva che Shikuyu avesse dei poteri inferiori ai suoi e mormorava irosamente:
«Anche se sei il Re del Fuoco, ben presto ti spegnerò».
Poi recitò una formula magica, e le onde sorsero e si levarono alte come montagne. Shikuyu, per nulla spaventato, ordinò ai soldati di spargere la cenere che aveva fatto preparare. Ciascuno fece quanto era stato ordinato, e tale era il potere di quella pianta che avevano bruciato che, non appena la cenere si mescolò con l’acqua, si formò un fango compatto che li salvò dall’annegamento.
A questo punto Kokai il mago si spaventò vedendo che il Re del Fuoco gli era superiore per conoscenze, e la sua collera fu così grande che si gettò avventatamente contro il nemico.
Eiko corse verso di lui e i due lottarono insieme per un certo tempo. Erano perfettamente alla pari nel combattimento corpo a corpo. Ma Hako, che stava sorvegliando attentamente la lotta, si accorse che Eiko cominciava a essere stanco e, temendo che il compagno fosse ucciso, prese il suo posto.
Ma Kokai era altrettanto stanco e sentendo che non era in grado di resistere contro Hako, disse astutamente:
«Sei molto generoso a combattere al posto del tuo amico e a correre il rischio di essere ucciso. Non voglio far del male a un uomo che dimostra un animo così grande».
E fece voltare il cavallo fingendo di ritirarsi. La sua intenzione era di fare abbassare la guardia ad Hako per poi tornare indietro e prenderlo di sorpresa.
Ma Shikuyu capì l’astuzia del mago e disse a sua volta:
«Sei un codardo! Non credere di ingannarmi!»
Dicendo questo, il Re del Fuoco fece segno ad Hako di attaccare. Allora Kokai si girò furioso verso Shikuyu, ma era stanco e incapace di combattere bene, tanto che presto fu ferito a una spalla. Allora desistette dalla lotta e tentò di scappare sul serio.
Durante la lotta fra i loro capi, i due eserciti erano stati fermi aspettando di vedere l’esito. A questo punto Shikuyu si girò e ordinò ai soldati di Jokwa di attaccare le forze nemiche. Essi obbedirono e le sconfissero infliggendo loro grandi perdite, e il mago stesso riuscì a malapena a salvarsi la vita con la fuga
Invano Kokai chiamò in suo aiuto il Demone delle Acque, dal momento che Shikuyu conosceva il controincantesimo. Il mago si rese conto che la battaglia volgeva a suo sfavore. Pazzo di dolore perché la ferita cominciava a tormentarlo e delirante per il dispiacere e la paura, batté la testa contro le rocce del Monte Shu e morì sul colpo.
Questa fu la fine del malvagio Kokai, ma non dei guai per il regno dell’imperatrice Jokwa, come vedrete. La forza con cui il mago era caduto contro le rocce era stata così grande che la montagna esplose, il fuoco si precipitò fuori dalla terra e una delle colonne che sorreggono il cielo si spezzo, cosicché uno degli angoli del cielo si abbassò fino a toccare terra.
Shikuyu raccolse il corpo del mago e lo portò all’imperatrice Jokwa, che si rallegrò moltissimo che il suo nemico fosse stato sconfitto e i suoi generali fossero usciti vittoriosi. Poi ricoprì Shikuyu con ogni sorta di doni e di onori.
Ma per tutto questo tempo il fuoco stava esplodendo dalla montagna spaccata dalla caduta di Kokai. Interi villaggi venivano distrutti, risaie bruciate, letti di fiumi riempiti di lava incandescente, e la gente rimasta senza tetto viveva tra le più grandi sofferenze. Allora l’imperatrice, non appena ebbe ricompensato il vittorioso Shikuyu, lasciò la capitale e si recò alla massima velocità sulla scena del disastro. Vide che il cielo e la terra avevano subito danni, e il luogo era così buio che dovette accendere la propria lampada per rendersi conto di quanto grande fosse la devastazione che si era prodotta.
Accertato tutto ciò, si mise al lavoro per rimediare al disastro. A questo scopo ordinò ai propri sudditi di raccogliere pietre di cinque colori: blu, giallo, rosso, bianco e nero. Quando le ebbe, le fece bollire in un enorme calderone insieme a un certo tipo di porcellana finché il miscuglio divenne un impasto di gradevole aspetto, e lei capì che con esso avrebbe potuto riparare il cielo. A questo punto era tutto pronto.
Radunò le nuvole che veleggiavano in alto sopra di lei, montò su di esse e salì verso il cielo portando tra le mani il vaso che conteneva l’impasto fatto con le pietre di cinque colori. Presto raggiunse quell’angolo del cielo che si era rotto, applicò l’impasto e lo aggiustò. Ciò fatto, rivolse l’attenzione alla colonna spezzata e la riparò con le zampe di un enorme tartaruga. Terminato ciò, risalì sulle nuvole e scese sulla terra con la speranza che tutto fosse tornato alla normalità, ma con sgomento trovò che l’oscurità era ancora fitta. Di giorno non splendeva il sole e di notte non brillava la luna.
Molto perplessa, decise di chiamare a consiglio tutti i saggi del regno e chiese il loro parere su cosa fare in quella situazione misteriosa.
Due dei più saggi dissero:
«Le strade del cielo sono state danneggiate dal recente disastro, cosicché il Sole e la Luna sono stati costretti a rimanere a casa. Per colpa delle strade accidentate il Sole non può fare il suo viaggio durante il giorno e la Luna non può farlo durante la notte. Il Sole e la Luna non sanno ancora che vostra maestà ha riparato tutto ciò che aveva subito danni, per cui andremo loro e recheremo la notizia che vostra maestà ha rimediato e che le loro strade ora sono sicure».
L’imperatrice approvò il suggerimento dei due saggi e ordinò loro di partire per la missione. Ma non era facile, poiché il palazzo del Sole e della Luna si trovava a una distanza di centinaia di migliaia di miglia a est. Se avessero viaggiato a piedi, non sarebbero mai arrivati, sarebbero morti di vecchiaia lungo la strada. Ma Jokwa ricorse alla magia. Diede ai due ambasciatori dei carri incantati in grado di percorrere nell’aria mille miglia al minuto. I due vi sedettero contenti cavalcando sopra le nuvole e dopo parecchi giorni raggiunsero il paese dove il Sole e la Luna vivevano felici insieme. I due ambasciatori ottennero di essere ricevuti dalle Maestà di Luce e chiesero loro per quale motivo erano stati tanti giorni segregati dall’universo. Non sapevano forse che così facendo avevano precipitato il mondo e tutti i suoi abitanti nella più grande oscurità sia di giorno che di notte?
Il Sole e la Luna risposero:
«Certo saprete che il Monte Shu è improvvisamente esploso eruttando fuoco e che le strade del cielo hanno subito gravissimi danni. Io, il Sole, ho trovato impossibile fare il mio viaggio durante il giorno lungo strade così accidentate, e sono certo che anche la Luna non è in grado di uscire di notte. E così ci siamo ritirati per un po’ a vita privata».
Allora i due saggi si inchinarono fino a terra e dissero:
«La nostra imperatrice Jokwa ha già riparato le strade con le prodigiose pietre di cinque colori, per cui abbiamo l’onore di garantire alle vostre maestà che le strade sono di nuovo come erano prima che si verificasse l’eruzione».
Ma il Sole e la Luna esitavano ancora e dissero di aver udito che anche una delle colonne del cielo si era spezzata e quindi avevano temevano che, anche se le strade erano state rifatte, sarebbe stato ancora pericoloso per loro uscire a compiere i loro viaggi abituali.
«Non dovete preoccuparvi per la colonna spezzata» dissero i due ambasciatori. «La nostra imperatrice l’ha aggiustata con le zampe di una grande tartaruga e ora è salda come non mai».
Allora il Sole e la Luna sembrarono essere soddisfatti, uscirono entrambi per provare le strade e riconobbero che quanto avevano detto loro gli inviati dell’imperatrice rispondeva a verità.
Dopo aver esaminato le strade del cielo, il Sole e la Luna donarono di nuovo luce alla terra. Tutta la gente se ne rallegrò moltissimo, e pace e prosperità furono assicurate per lungo tempo alla Cina sotto il regno della saggia imperatrice Jokwa.

 
 
 

Fear

Post n°52 pubblicato il 07 Maggio 2012 da kaori_chan


Are you scared of the dark
Are you afraid they’ll break your heart
Are you afraid you’ll lose yourself
Are you afraid of your own health

Are you scared to lose
Are you afraid to choose
Are you afraid you’ll win
Are you scared of your own sin

Are you scared to forgive
Are you afraid to live
Are you afraid to die
Do you think it's all a lie

To live
When you think you’re dying
To laugh
When you feel like crying
To stand
When you think you’re gonna fall
It’s just fear after all
It’s only fear after all

Are you afraid you’ll be alone
Are you scared to pick up the phone
Are you scared of the past
Do you think that you might crash
Do you think you’re in too deep

Are you afraid to sleep
Are you scared there’s no stability
Are you afraid of your own fragility

To live
When you think you’re dying
To laugh
When you feel like crying
To stand
When you think you’re gonna fall
It’s just fear after all
It’s only fear after all

To mend
When you’re think you’re breaking
To strength
When you know you’re shaking
To pray
When your back’s against the wall

It’s only fear after all

Are you scared of the end
Are you scared to begin
Are you scared of the start
Do you think they’ll break your heart
Do you think they’ll break your heart

To live
When you think you’re dying
To laugh
When you feel like crying
To stand
When you think you’re gonna fall
It’s just fear after all
It’s only fear after all

It’s only fear
The only fear is fear itself
The only fear is fear itself
The only fear is fear itself
It’s only fear

 
 
 

Lo specchio di Matsuyama (parte 1)

Post n°51 pubblicato il 23 Aprile 2012 da kaori_chan

Tantissimi anni fa,http://t1.gstatic.com/images?q=tbn:ANd9GcTZku0nc_qGs_lANXbKDTWz5LiQ2_vjP0_7wcIL7eoZyZ2WIXM3PUbpo8bIkg
nell’antico Giappone,
vivevano a
Matsuyama, nella Provincia di Echigo (una remotissima del Giappone perfino ai giorni nostri), un uomo e sua moglie. Quando questa storia ha inizio, erano già sposati da alcuni anni e la loro unione era stata benedetta dalla nascita di una bambina, che era la gioia e l’orgoglio della loro vita, e pensavano che sarebbe stata una fonte d’infinita felicità nella loro vecchiaia.
Giorni incisi a lettere d’oro nella loro memoria erano stati quelli che avevano segnato l’uscita della bambina dalla prima infanzia; la visita al tempio quando aveva appena tredici giorni, con la mamma che la portava in braccio orgogliosa, vestita con il kimono da cerimonia, per metterla sotto la protezione della divinità di famiglia; e poi la sua prima festa delle bambole, quando i genitori le avevano regalato una serie di bambole e i loro corredini da arricchire un anno dopo l’altro; e poi l’avvenimento forse più importante, al suo terzo compleanno, quando il suo primo obi, tutto oro e scarlatto, era stato legato intorno al suo vitino a simboleggiare che aveva oltrepassato la soglia della prima infanzia e l’aveva lasciata alle spalle.
Adesso aveva sette anni, e aveva imparato a parlare bene e a servire i genitori in tutte quelle piccole cose che deliziano il cuore dei genitori amorosi. La loro felicità era al colmo. Non si sarebbe potuta trovare in tutte le isole del Giappone una famigliola più felice di quella.
Arrivò un giorno in cui c’era molta agitazione in casa, poiché il padre era stato improvvisamente convocato alla capitale per affari.
In questi tempi di aerei, ferrovie, automobili e altri rapidi mezzi per viaggiare è difficile rendersi conto che razza di viaggio fosse allora andare da Matsuyama a Kyoto. Le strade erano brutte e accidentate, e la gente che viaggiava doveva percorrere tutto il tragitto a piedi, sia che la distanza fosse di un miglio o di cento miglia o di centinaia di miglia. Insomma a quei tempi per un giapponese recarsi fino alla capitale era un’impresa più difficile che andare adesso dal Giappone all’Europa.
Per questo la moglie era molto preoccupata mentre aiutava il marito a prepararsi per il lungo viaggio, poiché sapeva quale duro compito lo aspettava. Inutilmente desiderava di poterlo accompagnare, perché la distanza era troppo grande per la mamma e la bambina, e per di più la moglie aveva il dovere di prendersi cura della casa.
Finalmente tutto fu pronto, e il marito raccolse attorno a sé nel portico la sua piccola famiglia.
«Non preoccuparti» disse alla moglie «tornerò presto. Mentre sarò via, prenditi cura di tutto, e specialmente della nostra figlioletta».
«Sì, farò tutto per bene, ma tu, tu dovrai aver cura di te e non tardare neppure un giorno nel tornare da noi» rispose la moglie mentre le lacrime le scendevano copiose dagli occhi.
La bambina era l’unica che sorrideva, perché ignorava quanta pena porta con sé dover partire e non poteva sapere che andare fino alla capitale era ben diverso che fare una passeggiata fino al villaggio vicino, cosa che il padre faceva molto spesso. Corse al fianco del padre e lo prese per la lunga manica per averlo un momento tutto per sé.
«Papà, sarò buona mentre aspetterò che tu ritorni, ma per favore portami un regalo».
Quando il padre si voltò per dare un ultimo sguardo alla moglie in lacrime e alla bambina sorridente e speranzosa, gli sembrò come se qualcuno lo tirasse indietro per i capelli, tanto era duro lasciarli, perché non si erano mai separati prima di allora. Ma sapeva che era necessario partire, perché la chiamata era un ordine. Si sforzò di non pensarci e, voltatosi con decisione, lasciò velocemente il piccolo giardino e uscì dal cancello. La moglie prese la figlia tra le braccia, corse il più vicino possibile al cancello e guardò il marito mentre percorreva la strada fra i pini, finché si perse nella nebbia della distanza e tutto ciò che riusciva a vedere fu solo il curioso cappello a punta. Poi sparì anche quello.
«Papà è partito» disse la mamma «e io devo prendermi cura di tutto finché tornerà indietro», e riprese la via per tornare a casa.
«Sì, sarò molto buona» disse la bambina chinando il capo «e quando papà tornerà a casa, digli per favore quanto sono stata buona, così forse mi farà un regalo».
«Tuo padre ti porterà sicuramente una cosa che desideri molto. Lo so, perché gli ho chiesto di portarti una bambola. Devi pensare a tuo padre tutti i giorni e pregare perché faccia un viaggio sicuro fino a quando ritornerà».
«Oh sì, sarò tanto tanto felice quando tornerà» disse la bambina battendo le mani, mentre il suo visino s’illuminava sempre più per la felicità e per il piacere che le dava quel pensiero. La mamma, mentre guardava il viso della bambina, sentiva il suo amore crescere sempre più a ogni istante.
Poi si mise al lavoro per cucire i vestiti per l’inverno di tutti e tre. Preparò il suo semplice arcolaio e filò la lana per cominciare a tessere. Nelle pause del lavoro giocava con la bambina e le insegnava a leggere le antiche storie del suo paese. In questo modo si consolava durante i giorni di solitudine mentre il marito era assente. Intanto che il tempo scorreva veloce in queste occupazioni nella casa tranquilla, il marito sbrigò tutti i suoi affari e ritornò
Sarebbe stato difficile riconoscerlo per chiunque non lo conoscesse bene. Aveva viaggiato per giorni e giorni, esposto a tutte le intemperie, per quasi un mese intero, e il sole lo aveva fatto diventare del colore del bronzo, ma la moglie e la figlia lo riconobbero al primo sguardo e gli corsero incontro prendendolo ciascuna per una manica nel loro appassionato saluto. Sia l’uomo che la donna furono felici di ritrovarsi in buona salute. Era sembrato a tutti che fosse passato un tempo lunghissimo. Poi la mamma e la bambina lo aiutarono a slacciare i sandali di paglia, portarono via il suo grande ombrello, e lui si ritrovò nuovamente in quel soggiorno che conosceva bene e che era stato tremendamente vuoto mentre era lontano.
Non appena si fu seduto sulla stuoia bianca, il padre aprì un cesto di bambù che aveva portato con sé e tirò fuori una bella bambola e una scatola laccata di dolci.
«Questo» disse alla bambina «è un regalo per te. È il premio per esserti presa cura della mamma e della casa mentre ero lontano».
«Grazie» disse lei, piegando la testa verso terra, e stese la mano come una piccola foglia di acero, con le dita ansiose tutte allargate per prendere la bambola e la scatola, entrambe, dato che venivano dalla capitale, più belle di tutte quelle che avesse mai visto. Non ci sono parole per raccontare quanto la bambina fosse estasiata. Sembrava che il suo viso si stesse sciogliendo dalla gioia, e non riusciva a vedere e a pensare ad altro che a quei due oggetti.
Il marito mise di nuovo la mano nel cestino e questa volta tirò fuori una scatola di legno quadrata, legata accuratamente con lacci bianchi e rossi, e porgendola alla moglie disse:
«E questo è per te».
La moglie prese la scatola e apertala con cautela ne estrasse un disco metallico con un manico. Uno dei lati era lucido e brillava come cristallo, l’altro era ricoperto di immagini in rilievo che raffiguravano pini e gru, intagliate in modo realistico sulla superficie morbida. Non aveva mai visto niente di simile in vita sua, dal momento che era nata e cresciuta nella provincia rurale di Echigo. Guardò a lungo nel disco brillante e, scorgendo con sorpresa e meraviglia il suo volto riflesso, disse:
«Vedo qualcuno che mi osserva da questo oggetto rotondo! Cosa mi hai portato?»
Il marito rise e disse:
«È perché stai vedendo il tuo viso. L’oggetto che ti ho portato si chiama “specchio”, e tutti quelli che guardano nella sua lucida superficie possono vedervi riflesso il loro aspetto. Anche se in questi luoghi lontani non se ne sono mai visti, nella capitale sono usati fin dai tempi più antichi. Da quelle parti lo specchio è considerato un oggetto assolutamente necessario per una donna. Dice un proverbio: “Come la spada è l’anima di un samurai, così lo specchio è l’anima di una donna”, e secondo una tradizione popolare lo specchio di una donna riflette il suo cuore: se lo mantiene lucido e pulito, anche il suo cuore è buono e puro. Lo specchio è anche uno dei tesori che fanno parte delle insegne imperiali. Perciò lo devi conservare con la massima cura e usarlo con delicatezza».
La donna ascoltò tutto quello che il marito le diceva e fu contenta di imparare tante cose nuove per lei. Ed era ancora più contenta per quel dono prezioso, pegno del fatto che l’aveva pensata mentre era lontano.
«Se lo specchio è il simbolo della mia anima, lo stimerò come una proprietà preziosa e non lo userò mai senza delicatezza». Così dicendo, lo sollevò in alto sopra la fronte per indicare che lo accettava come un dono gradito, poi lo ripose nella scatola e lo portò via.
La donna vide che il marito era molto stanco e cominciò a servirgli la cena e a fare tutto quello che poteva per metterlo a suo agio. A quella famigliola sembrava di non aver mai conosciuto la felicità prima di allora, tanto grande era il piacere di trovarsi di nuovo insieme, e quella sera il padre aveva tante cose da raccontare sul suo viaggio e su quello che aveva visto nella grande capitale.
Il tempo scorreva in quella casa tranquilla, e i genitori videro realizzarsi le loro più grandi speranze quando la loro bambina crebbe fino a diventare una splendida ragazza di sedici anni. Come uno che possiede un gioiello di inestimabile valore lo tiene tra le sue mani orgogliose, così essi l’avevano allevata con cura e amore incessanti, e adesso le loro pene erano state ricompensate più del doppio. Che soddisfazione per la madre quando la ragazza girava per casa occupandosi della sua parte di faccende domestiche, e come era orgoglioso di lei suo padre perché somigliava tanto alla madre da ricordargli il suo aspetto quando l’aveva sposata.
Ma, ahimè!, su questa terra niente dura per sempre. Neppure la luna ha sempre una forma perfetta e con l’andare del tempo perde la sua rotondità, e i fiori prima sbocciano ma poi appassiscono. E così alla fine la felicità di questa famiglia fu spezzata. Quella moglie e madre buona e gentile un giorno si ammalò.
Nei primi giorni di malattia il padre e la figlia pensarono che fosse un semplice raffreddore e non si preoccuparono molto. Ma i giorni passavano e la madre non accennava a stare meglio; stava sempre peggio, e il dottore era perplesso: malgrado tutto quello che faceva, la povera donna diventava sempre più debole di giorno in giorno. Il padre e la figlia erano sconvolti dalla pena, e la figlia non si allontanava dal fianco della madre né di notte né di giorno. Ma purtroppo, malgrado tutti i loro sforzi, non fu possibile salvarle la vita.
Un giorno, mentre la ragazza stava seduta accanto al letto della madre cercando di nascondere dietro un sorriso la preoccupazione che la rodeva, la madre si sollevò e prendendo la mano della figlia la fissò intensamente negli occhi con tristezza e amore. Il suo respiro era affannoso e parlava con difficoltà:
«Figlia mia, sono sicura che nessuno potrà salvarmi ormai. Promettimi che quando sarò morta ti prenderai cura del tuo amato padre e farai di tutto per essere una donna buona e obbediente».
«Oh, mamma» disse la ragazza mentre le lacrime le scendevano dagli occhi, «non devi dire queste cose. Tutto quello che devi fare è sbrigarti a guarire. Questa sarebbe la più grande felicità per mio padre e per me».
«Lo so, ed è una consolazione nelle mie ultime ore sapere quanto ardentemente desideri che io stia meglio, ma non è possibile. Non essere tanto triste. Era stabilito nel mio stato di esistenza precedente che avrei dovuto lasciare questa vita proprio in questo momento. È una consapevolezza che mi rende rassegnata al mio destino. E adesso devo darti una cosa per ricordarti il momento in cui ti ho lasciata».
Tirò fuori una mano e prese da un lato del cuscino una scatola quadrata di legno legata con una laccio di seta che terminava con dei fiocchi. Lo sciolse con cura e tirò fuori dalla scatola lo specchio che il marito le aveva regalato tanti anni prima.
«Quando eri ancora una bambina tuo padre andò fino alla capitale e mi portò in dono questo tesoro. Si chiama “specchio”. Te lo regalo prima di morire. Quando avrò lasciato questa vita, tu ti sentirai sola e qualche volta avrai il desiderio di vedermi, prendi questo specchio e sulla sua superficie luminosa e brillante vedrai sempre me. In questo modo potrai incontrarmi e aprirmi il tuo cuore. Non ti potrò parlare, ma ricordati che io ti ascolterò e capirò i tuoi sentimenti e saprò tutto ciò che potrà accaderti in futuro».
Con queste parole la donna morente porse lo specchio alla figlia.
Poi la sua mente sembrò pensare soltanto al riposo. Si piegò all’indietro senza dire altro, e il suo spirito passò tranquillo al di là di questa vita.
Il padre e la figlia disperati erano distrutti dal dolore e si lasciarono andare al più amaro dei rimpianti. Sembrava loro impossibile abbandonare quella donna che avevano tanto amato, che aveva dato un senso alle loro vite, affidare il suo corpo alla terra.
Ma quella incontenibile esplosione di dolore passò, tornarono padroni di sé, e si rassegnarono.
Però, malgrado la rassegnazione, alla ragazza la vita sembrava vuota. Il suo amore per la madre che non c’era più non diminuiva col passare del tempo, e il ricordo di lei era così forte che in ogni momento nella vita di tutti i giorni, cadesse la pioggia o soffiasse il vento, tutto le ricordava la morte della mamma e le cose che avevano amato e condiviso insieme.
Un giorno, mentre il padre era fuori casa e lei aveva terminato i lavori domestici, la solitudine e la tristezza le sembrarono più grandi di quello che poteva sopportare. Si recò nella camera della mamma e pianse come se il suo cuore si fosse spezzato. Ah, se quella povera piccina avesse potuto vedere solo per un attimo quel viso adorato, ascoltare il suono di quella voce che la chiamava con il solito soprannome o dimenticare completamente per un attimo il doloroso vuoto del suo cuore! Improvvisamente si sedette. Le ultime parole di sua madre che fino a quel momento erano state offuscate dal dolore, le erano tornate in mente.
«Oh! Quando la mamma mi ha dato lo specchio come dono d’addio, mi ha detto che in qualsiasi momento avessi guardato dentro di esso, avrei potuto incontrarla... vederla. Avevo dimenticato queste parole... che sciocca sono. Andrò a prendere lo specchio e vedrò se tutto questo è possibile».
Si asciugò gli occhi e prese dall’armadio la scatola che conteneva lo specchio. Il cuore le batteva per l’attesa quando sollevò lo specchio e guardò il suo viso levigato. Le parole di sua madre erano vere! Nello specchio vedeva il viso di sua madre... ma (che piacevole sorpresa!) non era il viso scarno e devastato dalla malattia, ma quella bella e giovane donna che le tornava in mente quando pensava ai giorni della sua prima infanzia. Sembrava che la ragazza che la guardava dallo specchio stesse per parlarle, era come se udisse la voce di sua madre che le ripeteva di crescere e di diventare una brava ragazza e una figlia rispettosa, talmente la riportavano indietro nel tempo gli occhi che vedeva nello specchio.
«È certamente l’anima di mia mamma quella che sto vedendo. Lei sa quanto sono infelice senza di lei e che deve venire a consolarmi!».
E a partire da quel momento quel giovane cuore sentì molto meno il peso delle sofferenze. Ogni mattina, per raccogliere le forze per gli impegni quotidiani che l’aspettavano, lasciava da parte tutto, tirava fuori lo specchio e guardava quella ragazza che nella sua ingenuità credeva fosse l’anima della madre. Giorno dopo giorno il suo carattere diventava come quello della madre, era dolce e gentile con tutti e sottomessa al padre.
Era trascorso così un anno nel cordoglio in quella piccola casa quando, su consiglio dei parenti, l’uomo si risposò, e la figlia si ritrovò sotto l’autorità di una matrigna.
Era una posizione difficile, ma i giorni passati nel ricordo dell’amata madre e nel tentativo di essere come lei voleva che fosse, avevano fatto diventare la ragazza docile e paziente, tanto che decise di essere come una figlia obbediente in tutto per la moglie di suo padre. All’apparenza ogni cosa andò liscia per un po’ in famiglia in quel nuovo modo di vivere; non c’era alcun sentore di discordia che disturbasse la vita di tutti i giorni, e il padre era soddisfatto.

 
 
 

Lo specchio di Matsuyama (parte 2)

Post n°50 pubblicato il 23 Aprile 2012 da kaori_chan

http://t2.gstatic.com/images?q=tbn:ANd9GcRhlazrzV85Y61S5xPGSHJxVOuNhkcQKD6tVfLkIkV8GQtNaagEMa quello che rende pericolosa una donna è il fatto di essere modesta e insignificante, e le matrigne lo sono tradizionalmente in modo particolare, e questa non era precisamente quanto di più delizioso.
Quando i giorni e le settimane diventarono mesi, la matrigna cominciò a trattare l’orfanella in modo poco gentile e cercò di interferire nei rapporti fra padre e figlia. A volte andava dal marito e si lamentava dell’atteggiamento della figliastra. Ma il padre se lo aspettava e non faceva caso a quelle lamentele snaturate. Il suo affetto per la figlia, invece di diminuire come la moglie avrebbe desiderato, cresceva più aumentavano i lamenti della donna.
Ben presto la donna si accorse che il marito era sempre più affezionato alla sua unica figlia. Questo la faceva decisamente infuriare, e cominciò a pensare al modo per riuscire, in un modo o nell’altro, a cacciare via di casa la figliastra. Il suo cuore era sempre più pieno di cattiveria.
Controllava la ragazza con la massima attenzione e un giorno, sbirciando nella sua camera, scoprì qualcosa che le sembrò abbastanza grave da parlarne al padre e accusarla di una colpa. Si sentiva molto spaventata da quello che aveva visto.
Allora andò dal marito e, piangendo lacrime finte, gli disse con una voce triste:
«Concedimi il permesso di lasciarti immediatamente».
Davanti a una richiesta così inaspettata, la sorpresa dell’uomo fu totale e chiese alla moglie il motivo:
«Cos’è che trovi tanto insopportabile da non voler più rimanere in questa casa?»
«Non ho nulla contro di te, non mi sono mai sognata di allontanarmi dal tuo fianco. Il fatto è che trovo meglio per tutti che tu mi permetta di tornarmene nella mia casa».
E ricominciò a piangere.
Il marito, che non voleva vederla così infelice e pensava di non riuscire più ad ascoltarla, disse:
«Svelami il tuo pensiero! Perché ritieni che la tua vita qui sia in pericolo?».
«Dato che me lo chiedi, te lo dirò. Tua figlia mi odia perché sono una matrigna. Per un bel po’ si è chiusa nella sua stanza al mattino e alla sera, e adesso sono arrivata alla convinzione che si sia procurata un mio ritratto e stia cercando di uccidermi con arti magiche, lanciandomi incantesimi ogni giorno. Non è più sicuro per me rimanere qui se le cose stanno in questo modo, e quindi... quindi devo andarmene, non posso continuare a vivere con lei sotto lo stesso tetto!»
L’uomo ascoltò questo spaventoso racconto, ma non poteva credere che la sua dolce figlia fosse capace di un atto così malvagio e terribile. Sapeva che per una superstizione popolare certa gente credeva possibile che si potesse far morire a poco a poco una persona creando un suo ritratto e mandando maledizioni alla immagine odiata un giorno dopo l’altro, ma... come aveva fatto quella ragazza a saperlo? Impossibile!
Allora si ricordò che gli avevano riferito che la figlia rimaneva molto in camera sua e si teneva lontano da tutti, anche se arrivavano ospiti in casa. Collegò questo fatto con l’avvertimento della moglie e pensò che in quella strana storia ci fosse qualcosa di vero. Il suo cuore era spezzato: credere a sua moglie o fidarsi della figlia? Non sapeva che fare.
Decise di andare prima di tutto dalla figlia per cercare di scoprire la verità. Consolò la moglie dicendole che i suoi timori erano infondati e andò tranquillamente nella camera della figlia.
Da tanto tempo la ragazza era molto infelice. Aveva provato a essere amabile e obbediente per mostrare la propria buona volontà e per rendere un po’ più dolce la nuova moglie, in modo da abbattere quel muro di pregiudizi e incomprensioni che sempre, ne era ben consapevole, si interpone fra patrigni, matrigne e figliastri. Ma si era accorta ben presto che i suoi sforzi erano inutili. La matrigna non le aveva mai dato confidenza, sembrava che interpretasse male tutte le sue azioni, e la povera ragazza sapeva bene che spesso raccontava al padre cose false e cattive. Ancor meno la aiutava confrontare la sua infelice condizione attuale con il tempo in cui sua mamma era viva, solo poco più di un anno prima... che cambiamento immenso in così poco tempo! Mattina e sera piangeva a quel ricordo. Appena poteva, andava in camera sua, chiudeva i pannelli, tirava fuori lo specchio e fissava lo sguardo – così lei credeva – sul viso della mamma. Era l’unica consolazione che aveva in quei giorni infelici.
Il padre la trovò mentre era intenta a questa occupazione. Quando spinse di lato i fusama, la vide piegata verso qualcosa con la massima concentrazione. Guardando sopra le sue spalle per vedere chi era entrato nella stanza, la ragazza fu sorpresa di vedere suo padre, perché di solito la mandava a chiamare quando voleva parlare con lei. Si sentiva anche imbarazzata per essere stata sorpresa a guardare nello specchio, in quanto non aveva mai detto a nessuno dell’ultima promessa che aveva fatto a sua madre, ma aveva tenuto chiuso nel suo cuore quel sacro segreto. E così, prima di girarsi verso il padre, fece scivolare lo specchio nella sua lunga manica. Il padre, accorgendosi che era confusa e che aveva nascosto qualcosa, disse con un tono severo:
«Figlia, che stai facendo? E cosa hai nascosto nella manica?»
La ragazza fu spaventata dalla severità del padre: non le aveva mai parlato con quel tono. La confusione divenne apprensione, il suo viso passò dal rosso al bianco. Se ne stava seduta muta e vergognosa, incapace di rispondere.
Le apparenze erano senza dubbio contro di lei. Aveva un aspetto colpevole, e il padre, pensando che tutto sommato quello che gli aveva detto la moglie poteva essere vero, disse con rabbia:
«Allora è vero che ogni giorno lanci maledizioni contro la tua matrigna e preghi perché muoia! Hai dimenticato quello che ti ho detto? Anche se è la tua matrigna, devi esserle fedele e obbediente! Quale spirito maligno si è impadronito del tuo cuore perché tu sia tanto malvagia? Come sei cambiata, figlia mia! Cos’è che ti ha fatto diventare disobbediente e infida fino a questo punto?»
E gli occhi del padre si riempirono improvvisamente di lacrime al pensiero di aver potuto rimproverare così sua figlia.
Lei per parte sua non capiva il significato delle parole del padre perché non aveva mai sentito parlare di quella superstizione secondo cui, pregando su un immagine, si può causare la morte di una persona odiata. Ma si rese conto che doveva parlare e giustificarsi in qualche modo. Stese la mano sul ginocchio e si lamentò:
«Padre, oh padre! Non dirmi queste cose così tremende! Sono ancora la tua bambina obbediente. Lo sono ancora, davvero. Per quanto pazza potessi essere, non sarei mai capace di maledire una persona che ti appartiene, e tanto meno pregare per la morte di qualcuno che ami. Certamente qualcuno ti ha raccontato delle bugie, e tu sei fuori di te e non sai quello che dici, o forse è del tuo cuore che si è impadronito uno spirito maligno. Quanto a me, ne so quanto una goccia di rugiada di quello spirito maligno di cui mi accusi».
Ma il padre ricordava che aveva nascosto qualcosa appena era entrato nella camera, e neppure le sue proteste accorate riuscivano a soddisfarlo. Voleva chiarire i suoi dubbi una volta per tutte.
«Allora perché in questi giorni te ne stai continuamente sola nella tua camera? E cosa hai nascosto nella manica? Fammelo vedere».
Allora la ragazza, anche se esitava un po’ a confessare al padre quanto aveva cara la memoria della madre, capì che doveva dirgli tutto per discolparsi. E così fece scivolare lo specchio fuori dalla manica e lo posò davanti a lui.
«È questo» disse «che mi hai visto guardare poco fa».
«Ma come» disse il padre al colmo della sorpresa. «Questo è lo specchio che portai in dono a tua madre tanti anni fa quando tornai dalla capitale! E lo hai tenuto con te per tutto questo tempo? Ma perché stai così a lungo davanti a questo specchio?»
Allora lei gli riferì le ultime parole della madre e della promessa che le aveva fatto di tornare a trovare la sua bambina tutte le volte che avesse guardato nello specchio.
Ma il padre non riusciva ancora a capire l’ingenuità del carattere della figlia e il fatto che lei non si rendeva conto che il volto riflesso nello specchio era il suo e non quello della madre.
«Che intendi dire?» chiese «Non capisco come fai a incontrare l’anima della tua povera mamma guardando in questo specchio?»
«Eppure è vero» disse la ragazza «e se non credi a quello che dico, guarda tu stesso». E si mise lo specchio davanti al viso. Dal lucido disco metallico il suo dolce viso la guardava. Indicò con aria seria l’immagine riflessa e chiese al padre:
«Dubiti ancora di me?»
Comprendendo improvvisamente tutto, il padre batté le mani.
«Quanto sono sciocco! Finalmente ho capito! Il tuo viso è uguale a quello di tua madre come le due metà di una mela, e così per tutto questo tempo hai guardato il tuo volto riflesso credendo di trovarti di fronte alla tua povera mamma! Sei veramente una figlia fedele. Sembra una cosa sciocca, ma non lo è. Anzi, dimostra quanto è profondo il tuo amore di figlia e quanto è innocente il tuo cuore. Vivere nel costante ricordo di tua madre ha fatto in modo che tu crescessi con un carattere uguale al suo. Com’è stato intelligente da parte sua dirti una cosa del genere! Ti ammiro e ti rispetto, figlia mia, e mi vergogno al pensiero di aver creduto anche per un solo istante alla storia piena di sospetti della tua matrigna, di avere pensato che tu fossi malvagia e di essere venuto da te con l’intenzione di rimproverarti duramente, mentre invece per tutto questo tempo sei stata così buona e onesta. Perdonami, ti prego».
E cominciò a piangere. Pensava a quanto doveva essersi sentita sola quella povera ragazza e a tutto quello che doveva aver subito dalla matrigna. Quella figlia che aveva mantenuto salda la propria fiducia e semplicità in mezzo a circostanze tanto avverse, sostenendo tutti i suoi turbamenti con tanta pazienza e dolcezza, gliela faceva paragonare al loto, che fa sbocciare i suoi fiori di splendente bellezza al di sopra del fango e della melma di fossi e paludi, portando alto l’emblema di un cuore che, pur camminando per il mondo, riesce a mantenersi incontaminato.
Nel frattempo la matrigna, ansiosa di sapere cosa stava succedendo, era rimasta per tutto quel tempo fuori della camera. Aveva ascoltato sempre più interessata e un po’ alla volta aveva fatto scorrere il pannello finché aveva potuto vedere quello che accadeva. In quel momento entrò all’improvviso nella stanza e lasciandosi cadere sulla stuoia, piegò il capo sopra le sue mani tese davanti alla figliastra.
«Mi vergogno! Mi vergogno!» gridò con voce spezzata. «Non sapevo che figlia affezionata tu fossi. Anche se non avevi nessuna colpa, ti ho disprezzata per tutto questo tempo con un cuore geloso di matrigna. E poiché ti detestavo tanto, mi è venuto spontaneo pensare che tu ricambiassi il mio sentimento, e così, quando ti vedevo ritirarti tanto spesso nella tua camera, ti seguivo e poiché ti vedevo guardare a lungo ogni giorno dentro lo specchio, sono arrivata alla conclusione che ti eri accorta di quanto ti detestavo e volevi vendicarti cercando di togliermi la vita con arti magiche. Finché vivrò non dimenticherò mai quanto sono stata ingiusta nel giudicarti male e nel far nascere in tuo padre dei sospetti verso di te. D’ora in avanti getterò via il mio vecchio cuore arido e al suo posto ne metterò uno nuovo, pulito e pieno di pentimento. Guarderò a te come a una figlia che ho dato alla luce io stessa. Ti amerò e adorerò con tutto il cuore, e in questo modo cercherò di ripagare tutta l’infelicità che ti ho procurato. Ma, ti prego, passa un colpo di spugna a tutto quello che c’è stato prima e concedimi almeno un poco di quell’amore di figlia che finora hai concesso alla tua madre perduta».
E fu così che quella sgarbata matrigna si umiliò e chiese perdono alla ragazza per averla trattata in modo tanto ingiusto.
L’atteggiamento della ragazza fu così dolce che perdonò di buon grado la matrigna e per tutto il tempo a venire non dimostrò mai un attimo di risentimento o di rancore nei suoi confronti. Il padre capì dall’espressione della moglie che era sinceramente addolorata per quello che era successo e si sentì molto sollevato nel vedere che nessuna delle due si sarebbe più ricordata di quel terribile malinteso.
D’allora in avanti i tre vissero insieme felici come pesci nell’acqua. Nessuna preoccupazione venne più a turbare quella casa, e la ragazza dimenticò un po’ alla volta quegli anni infelici, circondata dalla tenerezza e dalle attenzioni che la matrigna le dedicava.
Finalmente la sua pazienza e la sua bontà erano state premiate.

 
 
 
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