Creato da Superfragilistic il 30/07/2008

Sonoviva

Un blog di denuncia, osservazione e critica possibilmente costruttiva

 

 

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QUELLA DOMENICA POMERIGGIO

 

 

segue da questo post dallo stesso titolo che a sua volta è il seguito del precedente post dal titolo passo dopo passo verso la vita

 

 

 

Al suo ritorno a casa Maria aveva subito annusato l’aria: quando al mattino aveva lasciato l’appartamento per recarsi a messa, Annina non aveva ancora iniziato a cucinare se si eccetttuano quelle operazioni preliminari che già facevano intendere di un pranzo succulento, come sempre del resto avveniva, e tanto più la domenica. . 

L’odore del ragù invadeva la cucina espandendosi per il resto delle stanze e gli gnocchi di patate erano ben sistemati sulla spianatoia di legno. Il roastbeaf era stato affettato ed il sugo raccolto in una ciotola di porcellana bianca e verde, mentre l’insalatiera era tutta colorata dalle diverse verdurine che al suo interno erano state accuratamente tagliate e condite per il gusto del palato. La tavola era apparecchiata alla perfezione e non sarebbe potuto essere diversamente perché sua madre era una donna perfetta in queste cose e perciò aveva educato Annina a compiere gesti precisi e curati e a non trascurare i particolari. Lei non mangiava con loro alla stessa tavola, ma serviva in silenzio e limitando al massimo ogni commento ed intrusione perché quello del mangiare insieme era, per i suoi genitori, un momento speciale, dedicato alla famiglia e per la famiglia, ed avere allo stesso tavolo una persona estranea, sarebbe stato come consentire a quella di esserne parte; così Annina mangiava in cucina e non se ne rammaricava anzi, si sentiva più libera nel consumare il pasto  senza dover in qualche modo essere testimone di discorsi di cui si chiedeva la riservatezza e, cosa non trascurabile, senza doversi attenere a quelle regole di galateo che venivano imposte invece ai bambini, nel tentativo di educarli ad essere composti a tavola in ogni occasione presente e futura.

La bambina lo sapeva bene perché a lei quelle regole non piacevano neanche un poco e poi, soprattutto, non sapeva perché ma, ogni qualvolta le era richiesto di mangiare senza parlare o di mantenere un contegno, le scappava così tanto da ridere da non poter resistere; e più la madre le chiedeva perché ridesse e perché si comportasse in quel modo sconveniente, più la risata diveniva irrefrenabile: fino al tragico epilogo dello spruzzo finale del contenuto della bocca in faccia al commensale che, sfortunatamente per lui, le fossse stato  di fronte. Ma raramente riusciva a raggiungere indenne tale tragico stadio ed era più facile che venisse cacciata dalla tavola, come  punizione estrema, e mandata a mangiare in cucina con Annina. Una vera pacchia: lì poteva parlare e ridere, appoggiare i gomiti sul tavolo, farsi fare da lei tutti quei rutti che solo lei era capace di eseguire a comando, ed infine mangiare doppia razione di dolce. Ma quella domenica tutto era diverso per lei ed il volto, le parole, le immagini viste nella casa dove si era recata per, come pensava, vendere un calendario, tutto le aveva aperto gli occhi sulla vita facendogliela apparire assai diversa. Quello che le era accaduto sovrastava ogni cosa, persino la sua grande golosità che la spingeva a forzare credenze ancorché chiuse a chiave, per poter rubare ogni dolciume disponibile.

E poi c’era una cosa: aveva un segreto da mantenere, una cosa da non dire per non essere sgridata,  e questo la faceva stare veramente male. Nella sua pur giovane vita alcuni principi erano sacri ed il primo di essi era dire sempre la verità. A qualsiasi costo, a qualsiasi prezzo. Lo aveva sempre fatto e voleva che questo almeno non cambiasse. Maria sapeva che la verità non sempre è piacevole e che a volte può far male a qualcuno e provocare dolore. E sapeva anche che sua madre era malata, molto malata, e che presto li averebbe lasciati tutti orfani della sua grande presenza: lei, i suoi fratelli maggiori, suo padre. Tante volte, in momenti di abbandono, l’aveva tenuta sulle ginocchia ed aveva pianto abbracciandola e coccolandola. Le aveva raccontato che averla messa al mondo era stata una sfida che lei aveva compiuto con fede in Dio e che, al momento della nascita, i medici le avevano chiesto quale delle due vite salvare: la sua, ossia quella di una giovane madre di due gemelli di quattro anni, bisognosi di  amorevoli cure materne;  o quella della bambina che stava per partorire;  e di come lei, senza esitazioni, avesse dichiarato di affidare entrambe le vite a Dio e che fosse Lui  a decidere; e che Dio aveva voluto che lei nascesse e che potesse avere una madre viva, anche se ancora un po’ più malata di quanto già non fosse. Per questo, oltre al nome di Maria, le erano stati aggiunti altri due nomi: quello di Anna e di Rita: il primo per onorare la Santa protettrice delle partorienti, l’altro per ringraziare la Santa delle grazie impossibili. Maria sentiva di portare impressa nella sua stessa carne una responsabilità sovraumana; il suo carattere era stato forgiato interamente dalla consapevolezza di ciò e prestissimo aveva condiviso con sua madre la fisicità spinta anche ai temi della fede che la portavano, piccolissima, a vivere il senso del peccato e dell’espiazione. A sette anni aveva voluto a forza comunicarsi e cresimarsi e, in quello stesso anno, sua madre era stata sul punto di morire ed una sera non era più tornata a casa dopo esserne uscita solo poche ore prima. Ricordava che suo padre era tornato  in lacrime e, senza dire nulla, si era fatto dare da Annina delle lenzuola pulite, una camicia e pochi effetti personali. Poi era di nuovo uscito, con gli occhi rossi di pianto e lei non ricordava di averlo mai visto così. Poi ad Annina era stato dato il compito di dire che no, non sarebbe tornata la mamma, né quella sera né le altre a seguire e che dove era non si poteva andare. Lei ed i suoi fratelli avevano vissuto un mese d’inferno tra mezze parole sussurrate perché non sentissero, sguardi compassionevoli di parenti ed insegnanti e tutte quelle cose che dovrebbero proteggere i bambini e che invece, nei fatti, acuiscono in loro il senso del dolore e dell’impotenza. Poi era passato un mese ed il babbo aveva annunciato:’Oggi andremo dalla mamma’. La gioia aveva pervaso i loro animi ed avevano gridato ai loro compagni di scuola ed alle maestre che quel giorno avrebbero rivisto la loro madre.

Una bambina di sette anni ed i suoi fratelli di undici, ogni bambino di quell’età, se sottratto alla realtà con pietose bugie o anche con cose non dette, se poi in quella realtà entra all’improvviso, ne rimane sconvolto.  Era stato così anche per Maria quando aveva varcato la soglia del Policlinico: lei, abituata ai dolci profumi della sua casa, all’odore dei libri e dei quaderni e del suo cestino della mensa; al profumo del borotalco sparso con amorevole cura sul suo corpo dopo il bagno, sentì nelle narici un acre odore di male, di dolore, di sofferenza. Attraversò corridoi fino ad arrivare in un luogo orribile: un’immensa camerata con tantissimi letti posti sui lati lunghi, così tanti che non li si poteva contare; e dentro ogni letto una storia, una vita sofferta, delle persone care accanto. Aveva cercato con gli occhi sua madre tra tutte quelle teste che spuntavano dalle lenzuola ed infine l‘aveva vista: il suo bel volto contratto e non più come prima, una rigidità nelle sue braccia che non le permettevano più di abbracciarla, e la stessa rigidità in uno dei due arti inferiori. Nel sorridere la sua bocca non si apriva più mostrando i suoi bei denti bianchi ma solo un lato di essa: il che dava al suo volto uno strano aspetto. Lei avrebbe potuto piangere e ne avrebbe avuto il diritto: era piccola e la sua mamma era molto malata, ma non l’aveva fatto perché non voleva essere considerata una sciocca piccola bambina da non portare più con sé; voleva tornare lì ancora, nonostante l’acre odore di dolore le rendesse insopportabile lo stesso respirare. Voleva farlo nonostante avesse visto quel volto  a lei tanto caro distorcersi in un ghigno. Sua madre, nonostante tutto, era una donna forte e combattiva e non si sarebbe arresa: per questo aveva fatto amicizia con la vecchina che aveva accanto e con il suo aiuto si esercitava a tirare uno straccio che l’altra afferrava saldamente dall’altro capo, o a fare ciao con la mano, o a stringere una spugna. E ripeteva rassicurante che sarebbe tornata a casa presto e che di certo sarebbe stata in grado di fare tutto quello che faceva prima. Un mese dopo, infatti, era tornata ed, a parte quello strascinare un poco il piede nel camminare e tener la mano in una posizione semichiusa innaturale, aveva ripreso la sua vita normale ed a viaggiare per andare a fare il lavoro per lei più bello del mondo, quello di insegnante ed educatrice. 

Da allora in poi ad ogni visita di controllo, il medico si era rivolto a lei, la ribelle della casa, e prima di andare via severo, con la borsa in mano, era swolito raccomandarle di fare la buona e non far arrabbiare la mamma. Questa raccomandazione non la sopportava proprio e quando qualcuno la rimproverava per non aver ubbidito senza rispondere, se ne era indispettita ed ora aveva intenzione di chiarire con la madre il rapporto e sfondare ogni limite fino ad essere franca all’inverosimile; anche se aveva solo 10 anni. Per questo decise di affrontarla proprio quella domenica pomeriggio, dopo il pranzo che si era svolto in perfetto silenzio da parte sua, senza disobbedienze o risate inopportune: lei era in salotto sulla poltroncina verde a fianco al marito, come ogni pomeriggio, e lei dal vetro smerigliato della porta del salotto, ne indovinava le sagome. Appoggiando la mano sulla maniglia si ripromise di dire tutto quello che aveva dentro, anche a costo di essere punita e darle un dispiacere. Appena abbassata la maniglia ed introdottasi nell’ambiente, sentì il sospiro di suo padre, segno tangibile del pover’uomo rassegnato alla tempesta che si sarebbe di lì a poco scatenata.

 

 

 
 
 
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