Ci sono matrigne nelle fiabe: tante.
Specialmente se paragonate alle poche (e scialbe) madri.
La famiglia è spesso disequilibrata: nonni al posto di genitori; tanti orfani; padri vedovi, tutto tranne che inconsolabili e infatti, ahimé, spesso rimaritati male; sorelle e fratelli, anche in numero spropositato (al ché non si fa fatica a capire perché quelle povere madri siano morte); madrine e tutori.
Ma madri poche. E spesso appena appena accennate: narrate quel tanto che basta a partorire il figlio o la figlia che poi sarà il protagonista.
Come la mamma di Biancaneve la cui esitenza è ricordata solo per l'evento simbolico che sarà all'origine del nome della fanciulla. Si punge un dito cucendo alla finestra e vedendo il sangue cadere sul davanzale di legno, coperto di neve, proferisce il famoso voto: " Se potessi avere una bambina dai capelli neri come l'ebano, dalle labbra rosse come il sangue e dalla pelle bianca come neve!".
All'origine di questa assenza delle madri nelle fiabe pare corrispondere un tabù ancestrale. Non è accettabile che la mamma possa essere "cattiva". La sua faccia oscura viene esorcizzata dalla creazione di un suo alter, la matrigna. Questa assolve il ruolo femminile nella famiglia immaginaria e archetipa, e al tempo stesso si carica delle valenze crudeli senza per questo mettere in discussione la totale bontà che alla figura materna si deve e si vuole attribuire.
Così, mentre l'autorità spetta comunque al padre, che quindi è assolto da accuse di severità, crudeltà, freddezza, proprio perché sono attributi che gli competono in quanto giudice e sovrano, la creazione della matrigna risolve il conflitto esistente tra ventre che genera (e quindi buono) e comportamenti malvagi.
Ma questo fa anche pensare che questa crudeltà delle madri deve esserci sempre stata. E con una frequenza e un parossismo tale da doverla censurare ed escludere dalla elaborazione dell'inconscio collettivo che la è la fiaba.
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