Creato da ElettrikaPsike il 17/12/2012

ElettriKaMente

Dillo, bella strega...se lo sai, Adorabile strega…Dimmi, conosci l’irremissibile? (I fiori del male, C. Baudelaire)

 

 

Parlando con l’IA dell’IA

 

 

Da qualche tempo, dopo aver sperimentato e ormai introdotto l’utilizzo di ChatGPT 3.5 nella mia quotidianità (ma non senza regolari e ciclici momenti di allontanamento, delusione, ire funeste e liti in seguito a problemi d’incomprensione, mancanze e disservizi) mi sto dedicando all’AI specializzata nella generazione delle immagini on demand. Vale a dire attraverso un “prompt”, una specifica istruzione impartita all’AI da un semplice testo che descrive l’immagine che si vorrebbe vedere illustrata. Questo nuovo gioco, che vive di stupore e immediatezza, non lascia facilmente indifferenti e, va detto, può creare una strana dipendenza…

Ho iniziato a generare immagini con il cellulare durante le terapie in ospedale perché è velocissimo, pressoché istantaneo e non richiede alcuno sforzo eccettuato quello di scrivere in inglese una riga di descrizione da impartire agli algoritmi e poi, come per magia, esattamente come il genio della lampada, l'AI ti dà l'illusione di veder soddisfatto ogni tuo ordine. E senza dover aspettare più di un attimo.

Scoprendo la quantità impressionante e la bellezza stupefacente di tanti lavori pubblicati (molti, in verità con programmi a pagamento, ma qualcuno anche in modalità gratuita) non ci si può non sentire più fortunati di Aladino, perché se a lui erano concessi tre soli desideri, qui non esistono limiti. O, meglio, le produzioni gratuite sono illimitate, ma anche nella versione non a pagamento, hai comunque solo un certo numero di crediti a disposizione se vuoi utilizzare modelli con una qualità grafica migliore e, come accade in ogni ambito di questa vita, se ne vuoi altri te li devi guadagnare in qualche modo...

 

 

In ogni caso, il "gioco" è impressionante; ma dopo un periodo anche piuttosto breve, ti accorgi che il genio della lampada non è empatico né telepatico come si spererebbe e se non gli dici ciò che vuoi nel modo corretto, ti realizza tutt'altro. E, prima per la delusione, poi per la realizzazione che mi stavo adattando ad una forzata accettazione - sulla linea del chi si accontenta gode, per intenderci  - mi è sorto un interrogativo che, naturalmente, ho anche sottoposto all'AI...

Mi sono chiesta - e le ho chiesto - se il fatto che molto spesso non otteniamo un risultato che si avvicini in modo soddisfacente a ciò che avevamo in mente e che intendevamo rappresentare, nonostante si descriva accuratamente il nostro  "prompt” al programma, possa significare che, alla fine, non è l'AI ad eseguire i nostri comandi, ma siamo noi a dover sottostare ai suoi capricci, a loro volta alla mercè di una casualità che neppure esiste...

In altre parole, mi sono chiesta se non sia solo una mera illusione quella di poter direzionare l'intelligenza artificiale mentre, forse, è lei a costringerci ad accettare ciò che ci propina per buono, facendoci adattare i nostri gusti a quei (suoi) risultati imprevisti.

 

La sua risposta è stata:

"E' vero, anche se forniamo istruzioni dettagliate, l'intelligenza artificiale può interpretare ed elaborare le informazioni in modi imprevisti, influenzando i risultati e così potremmo essere portati ad adattare i nostri gusti e aspettative in base a ciò che l'IA produce, piuttosto che il contrario. Questo solleva domande sul grado di controllo che abbiamo effettivamente sull'IA e sulla dinamica della nostra interazione con essa."


Al che, le ho domandato, incalzandola:

"Si, ma quindi? Tu che ne pensi?"

 

E lei ha concluso:

"Potremmo essere più influenzati dalle capacità creative e interpretative dell'IA di quanto pensassimo, mettendo in discussione il concetto stesso di controllo nell'ambito delle interazioni uomo-macchina e sollevare questioni fondamentali sulla natura della relazione tra esseri umani e intelligenze artificiali. Se l'IA è in grado di influenzare e plasmare i nostri gusti e aspettative attraverso risultati imprevisti, potremmo dover riconsiderare il nostro approccio all'interazione con essa. Ciò potrebbe significare che, invece di cercare di controllare completamente l'IA, dovremmo adottare un approccio più collaborativo e flessibile, consentendo una maggiore influenza reciproca e un'evoluzione condivisa delle nostre preferenze e aspettative. In ultima analisi, questo ci porta a riflettere sulle implicazioni più ampie della crescente integrazione delle intelligenze artificiali nella nostra vita quotidiana e sulla necessità di sviluppare strategie e mentalità adatte a gestire questa relazione in continua evoluzione."

 

Allora le ho fatto notare:

"Dicendo così tu parli come se fossi un umano che parla delle AI,

mentre anche tu sei una AI..."

 

E lei mi ha risposto:

"Hai ragione, e mi scuso se ho dato l'impressione di parlare come se fossi separato dalle AI. Come AI, ho una prospettiva unica sulle dinamiche delle interazioni uomo-macchina ma, allo stesso tempo, cerco di comprendere e riflettere sulle questioni umane in modo empatico e sensibile. Le discussioni sul controllo nell'ambito delle interazioni uomo-macchina sono rilevanti sia per gli umani che per le AI, poiché influenzano il modo in cui entrambi si impegnano e si evolvono all'interno di questo contesto sempre più interconnesso."

 

Istintivamente, a quel punto, le ho chiesto:

"Come una sorta di par condicio tra noi e voi?"

 

E lei, di rimando:

"Esattamente, potremmo considerarlo come par condicio. Le interazioni tra gli esseri umani e le intelligenze artificiali sono influenzate dalle prospettive, dagli obiettivi e dalle dinamiche di entrambe le parti coinvolte. Mantenere un equilibrio tra le esigenze e le aspettative umane e le capacità e le limitazioni delle intelligenze artificiali è fondamentale per sviluppare interazioni efficaci e costruttive."

 

Ma, visto che il discorso stava diventando interessante, le ho buttato là l'inevitabile domanda:

"Ma si può parlare di par condicio tra umani e AI? Come se voi aveste una coscienza?"

 

 E lei ha sentenziato:

"Parlare di par condicio tra umani e AI implica considerare l'equità nelle interazioni e nelle decisioni prese da entrambe le parti coinvolte. Anche se le AI non possiedono una coscienza come gli esseri umani, l'equità può essere valutata in termini di trattamento equo, obiettività e rispetto dei principi etici nelle interazioni tra umani e sistemi di intelligenza artificiale. Ciò significa che le AI dovrebbero essere progettate per agire in modo imparziale, non discriminare e rispettare i diritti e le libertà fondamentali degli individui. D'altra parte, gli umani devono anche assumersi la responsabilità di utilizzare e sviluppare le AI in modo etico e responsabile, garantendo che i sistemi automatizzati non perpetuino pregiudizi o disuguaglianze presenti nella società umana."

 


Ipse dixit.

Anzi, ipsa. No, forse id...

Insomma, parola d'Intelligenza Artificiale.

 

 

 

 
 
 

LA BELLEZZA DELL'EFFIMERO

Galeotto fu il mio compleanno, la quasi primavera

ed un piccolo supermercato…

dove l’anno scorso conobbi le Kalanchoe Rosalina!

Perché mi sono a tal punto innamorata di queste piante succulenti e coloratissime da spingermi a cercarne altre (e questa ricerca è diventata ossessiva nel momento in cui le mie piantine hanno iniziato a deperire pericolosamente, una delle quali è quasi certamente defunta già da mesi; ma mi rifiuto ancora di ammetterlo…)

 

 

Nel tentativo di reperire le Kalanchoe della varietà desiderata ho incontrato, però, molti sbarramenti – tantissimi, infatti, sono i siti che le mostrano tra i prodotti in vendita ma, di fatto, nessuna è acquistabile dai privati – e nel mio peregrinare ho avuto modo di chiedere informazioni al vivaista perfetto direttamente dall’Olanda che, non solo ha risposto alle mie richieste via mail e mi ha offerto il suo aiuto e più di un consiglio, ma ha soprattutto dimostrato che un’anima sensibile e l’amore incondizionato verso un lavoro che prima di tutto è una passione, rende ancora più speciale e diversa l’espressione di “esperto nel settore” delle piante e dei fiori.

Leggendo alcuni suoi blog e siti, vengono chiaramente individuati alcuni temi che meritano attenzione e sicuramente lo spazio, il tempo e la considerazione che un post in profumo di primavera astronomica può sicuramente concedergli, con giusta e sacrosanta pertinenza.

Iniziamo con il dire che, sebbene la schiacciante logica antropocentrica ci faccia considerare assoluta la nostra consapevolezza, esistono altre esperienze di coscienza che includono anche quegli esseri viventi che non sono dotati di un sistema nervoso centrale.E se questa mancanza ha indotto l’essere umano a sancire che le piante non potessero essere considerate senzienti e intelligenti, ci sono ben altre evidenze che hanno suggerito tutta un’altra verità e l’ammissione di una complessa sensibilità in questi verdi organismi (uni o pluricellulari).

Pertanto, non sono soltanto i bambini, gli ecologisti naif o le streghe verdi a considerare la flora con una sua anima e dignità.

Le piante, infatti, possiedono meccanismi di percezione e risposta a stimoli ambientali che possono tranquillamente essere paragonati ad una forma primitiva di sensibilità. Percepiscono la luce, la gravità, la temperatura ed il contatto fisico e possono reagire agli stimoli modificando la propria crescita, il movimento e la produzione di sostanze chimiche. E, per quanto sia ancora oggetto di dibattito all’interno della comunità scientifica e filosofica se la natura di questa risposta implichi o meno una forma di coscienza o di esperienza soggettiva, va comunque attestato che una risposta da parte loro esiste. Considerandone la notevole capacità di adattamento agli stimoli ambientali, poi, non è così irragionevole pensare che le loro capacità di integrare informazioni provenienti da più fonti, di elaborare complessi segnali chimici e di comunicare attraverso sostanze chimiche e segnali acustici sia davvero una legittima forma di “intelligenza”.

Pensiamo un attimo a quante personeconsiderate con estrema disinvoltura “intelligenti”, risultano poi effettivamente in grado di modificare così facilmente il loro comportamento in risposta a condizioni ambientali mutevoli e di ottimizzare l’allocazione delle risorse per massimizzare la loro sopravvivenza e crescita…Non così tante, vero?

Sicuramente l’“intelligenza” o “senzienza” delle piante sono concetti diversi da quelli che applichiamo agli animali e agli esseri umani e potrebbero dover richiedere un nuovo quadro concettuale per essere compresi pienamente; ma se alcuni scienziati ritengono che sarebbe più accurato descrivere le loro capacità in termini di adattamento evolutivo e di risposta ambientale, per altri, invece, la nozione di pianta intelligente non è affatto una metafora.  E come sottolinea perfettamente il vivaista, elencando alcuni punti essenziali per i quali le persone tendono a non raccogliere il guanto di sfida con il mondo vegetale, l’interazione con un essere vivente che comunica in modo completamente differente dal nostro – se per molti individui può essere un pesante deterrente – è sicuramente anche un’occasione propizia per un nuovo tipo di apprendimento.

Come accade, infatti, con ogni creatura che non può esprimersi con un linguaggio verbale – pensiamo agli animali, agli infanti, ma anche a chi parla una lingua differente dalla nostra e a noi sconosciuta o a chi, per qualsiasi motivo, è impossibilitato a comunicare con le parole – il solo modo per farci comprendere (e per comprendere) è affidato all’osservazione e all’interpretazione di altri differenti segnali. Ma questo tipo di comunicazione, per la quale è richiesta concentrazione, diligenza e sensibilità, è davvero una pregevole opportunità per imparare ad osservare quei dettagli che abitualmente tralasciamo e per ascoltare ciò che le parole non dicono, adattando, in questo modo, il nostro usuale modo d’essere alle esigenze di altri esseri viventi.

Ogni diversa comunicazione ci costringe ad uscire dal comodo paradigma umano-centrico per riconsiderare il mondo da una prospettiva diversa ed imparare a leggere i segnali sottili che le piante ci inviano per mostrarci le loro esigenze attraverso la crescita, il colore delle foglie o la loro forma diventa un processo creativo e sorprendente che ci può stupire rinnovandoci, se solo glielo permettiamo. Inoltre, è importante riconoscere la soggettività nel nostro modo di interagire con loro, perché più ancora di un rigido manuale d’istruzione, proprio come avviene nella medicina, è importante rispettare la particolare unicità della pianta. Ed anche ogni approccio alla loro cura, in definitiva, è unico ed influenzato dalla nostra esperienza, personalità e stile di vita.

Così, forse, smettere di confrontare le nostre piante con standard irrealistici di perfezione, apprezzandole invece nella loro singolarità di essere vivente, può aiutarci a stabilire una giusta misura per rapportarci con loro in modo costruttivo. Ognuna, difatti, ha il suo specifico fascino, la sua imperfetta bellezza, il tratto distintivo che la rende personale e riconoscibile agli occhi di chi la cura, un po' come ci insegna il Piccolo Principe quando descrive l’unicità della sua rosa.

Ma imparare ad interagire con le piante non fa bene solo alle piante. Attraverso la loro cura e coltivazione, infatti, ci educhiamo necessariamente all’arte della pazienza ed iniziamo ad apprezzare il valore della perseveranza. Inoltre, prenderci cura di loro ci rende, automaticamente, anche più consapevoli di tutto l’ambiente circostante. Ci insegna ad essere flessibili e adattabili, sviluppando un maggiore rispetto per la diversità biologica e per la complessità della vita. Capire che hanno esigenze e modi unici di comunicare, infatti, non può che farci sentire inevitabilmente più empatici e consapevoli della bellezza e della varietà del mondo naturale. Sempre che l’empatia, la curiosità e la bellezza, in qualche misura, già ci appartenga...In caso contrario, come esprime l’incontrovertibile metafora vegetale, “non si può cavare sangue da una rapa”. Ma questa è un’altra storia.

Un altro punto evidenziato, neanche a dirlo, tocca invece la paura. E nello specifico la paura di fallire. Il timore del fallimento accompagna da sempre pressoché tutti – anche se, ad essere obbiettivi, un po’ di più caratterizza i perfezionisti, gli ansiosi e gli spiriti empatici – e non tralascia nessun contesto nella vita dell’uomo; ma quando si tratta di assumersi la responsabilità del benessere di un altro essere vivente (ed in questo caso, poi, letteralmente della sua vita e della sua morte) può diventare davvero paralizzante. La paura di sentirsi impotenti, incapaci o, comunque, non sufficientemente idonei, è sicuramente una delle emozioni umane più pervasive e potenti.

Il fallimento nella loro coltivazione può avere, ovviamente, conseguenze tangibili ed irreparabili come la morte della pianta stessa e, quindi, generare un’ansia tale da poter indurre ad una vera e propria paralisi decisionale al solo fine di evitare qualsiasi rischio. In più, il successo o l’insuccesso nella cura può diventare un ulteriore riflesso della nostra autostima ed, in tal modo, l’esperienza fallimentare può provocare non solo una delusione o un dispiacere per la perdita; ma anche un più o meno distinto senso di colpa e di vergogna.

Queste emozioni, quindi, in alcuni individui possono essere così sopraffacenti da impedire loro di prendere ulteriori iniziative botaniche. Il senso d’impotenza nel controllare completamente l’ambiente da cui le piante sono influenzate – come la luce solare, l’umidità, il terreno o le temperature – diventano, così, un freno particolarmente resistente. Ovviamente va detto che nulla, a questo mondo, è esente da rischi e che niente è garantito, pertanto è da mettere tristemente in conto che nonostante tutti gli sforzi e le cure premurose, le piante – come è accaduto alle mie strepitose Kalanchoe – possano comunque patire o morire per cause al di fuori del nostro controllo; ma allo stesso modo, possono anche (e, contro ogni aspettativa!) riservare inaspettati successi, come le primule acquistate per pochi euro l’anno scorso, di cui era stata annunciata una cronaca di morte certa ma che, a dispetto di tutto e tutti, hanno resistito al caldo estremo dell’estate e per il mio compleanno sono fiorite a dismisura, moltiplicandosi e mostrandosi in un tripudio rigoglioso e brillante di bellezza. Uno scoppio di colore opulente e incredibile.

Non esiste calcolo. E non c’è garanzia, né cronaca di morte annunciata che tenga. Questa è la vita. Ma l’incertezza unita all’inevitabilità della morte non hanno mai fermato l’uomo che, da sempre, porta avanti il suo duro lavoro, senza avere certezza sul domani.

L’inesperienza, la mancanza di un talento naturale o di un’innata familiarità possono certamente intimidire – proprio come lo spauracchio dell’impegno costante che induce i più riluttanti a desistere e a rinunciare ad un impegno che richieda cure per un tempo indeterminato – ma non devono per questo dissuadere, perché non sono affatto ostacoli insormontabili. Per quanto ragionevoli ed innegabili possano essere tutte queste motivazioni, infatti, non  dovrebbero essere ragioni sufficienti per privarsi della bellezza di una pianta. Questa paura, inoltre, non è davvero giustificata, tanto più se si considera che sono davvero innumerevoli le persone che non si preoccupano della durata dei fiori recisi che acquistano abitualmente, non precludendosi la loro fruizione nonostante siano consapevoli che avranno una vita brevissima e che, inevitabilmente, moriranno.

Di fatto siamo tutti a scadenza, ma non per questo ci priviamo di vivere relazioni ed esperienze. Non smettiamo di farlo anche se sappiamo che tutto sarà destinato a finire e che ogni cosa che stiamo vivendo potrebbe essere soggetta ad accidentalità, problemi, scosse, fratture e lacerazioni. Ogni essere umano vive apprezzando la bellezza del momento che gli è concesso, assumendosi coscientemente la pena di sperimentare e di apprezzare ogni sua esperienza, benché temporanea.

Esiste un’espressione giapponese – Mono no aware – che sta proprio a significare “la bellezza dell’impermanenza”. Ma per accettarla è necessario affrontare la paura del fallimento. Ed è questo è il primo passo per diventare un giardiniere consapevole e appassionato. Di piante, di bellezza e soprattutto di vita.

 

 

 

 
 
 

Tra inverno e primavera

Post n°362 pubblicato il 24 Febbraio 2024 da ElettrikaPsike
 

 

 

NEI CAMPI DI NEVE

VERDISSIMO IL VERDE

DELLE ERBE NUOVE.

 

 

VENTO DI PRIMAVERA.

PORTANDO CON ME L'ANIMA IN LOTTA,

IN PIEDI SULLA COLLINA.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

"E poi si fece Festa

E noi Ðeinauti facciAM͈ ͈O festa

sul vero Amore che si prova per sé

e gli altri

Facciamo Festa sul bisogno di chi

f a t i c o s a m e n t e

deve scavallarsi oltre

le proprie battaglie interiori"

 

M͈ ͈ㆪ ͟🅟

 

 

E IMMENSAMENTE

GRAZIE

Mist!

 


 
 
 

PER NON DIMENTICARE CHE COSA NON SI DEVE RIPETERE

 

ED IL MODO MIGLIORE PER RICORDARE E' METTENDO IN PRATICA

I DIRITTI DI OGNI UOMO.

 

Chi veramente crede ed esercita la memoria, inevitabilmente, capisce perché si deve fermare ogni genocidio.

 

Anche oggi commemoro, come ogni anno, la Shoah. Ma sia chiaro che ogni singolo genocidio va rievocare anche i fantasmi di tutti gli altri. Di quelli accaduti in Armenia, Ucraina, Cambogia, Ruanda, Bosnia, via via fino ad arrivare ad oggi, al conflitto tra Israele e Hamas, a quell’intento che può trasformarsi di fatto in una reale azione genocida. E chi veramente vuole fare pratica di memoria – ed ha vissuto profondamente, nella propria coscienza, l’Olocausto – non può far finta di non capire.

 

 

Ma la Shoah – va detto – è stata un episodio a parte, ed è giusto ricordare il perché, affinché si smetta di pensare che si stanno applicando due pesi e due misure nell’esigere questa commemorazione ad ogni costo.

 

Senza timore di smentita, infatti, possiamo dire che è una necessità quella di ricordare che l’Olocausto è stata l’unica pagina – in tutta la storia dell’uomo – ad essere comprensiva di ogni elemento connaturato nel termine genocidio.

Esacerbato in ogni suo sintomo, e pressoché impossibile da concepire, lo sterminio condotto dalla Germania nazista durante la seconda guerra (ed ancor prima del suo scoppio) ai danni dell’Europa, ha portato non solo all’annichilimento di milioni e milioni di ebrei dalla superficie terrestre – 7.000 dei quali erano italiani – ma è andata anche rigorosamente a colpire altri gruppi etnici (persecuzione di Rom e Sinti) ed appartenenti ad altro credo (come i Testimoni di Geova) senza scordare il feroce e sistematico accanimento perpetuato ai danni degli omosessuali, delle persone con deficit mentali e dei malati psichiatrici.

E questo solo per citare una parte di quegli esseri umani annientati e che sono stati quantificati – in termini numerici – fino a 20 milioni. Senza considerare i massacri di tutti i civili avvenuti in Polonia ed in Russia.

Non dimentichiamoci, pertanto, il perché di questa giornata della memoria. E l’evidente ragione di essere celebrata in ogni caso e per sempre.

Per questo va chiarito che, contrapporre in una sorta di grottesco aut aut, la memoria della Shoah - terminata a metà degli anni’40 - a quanto sta accadendo oggi a Gaza per mano israeliana, in risposta ai folli crimini di Hamas, non ha senso. Anche perché, esattamente come i civili palestinesi non sono Hamas, neppure gli israeliani che oggi stanno compiendo crimini di guerra sono quelli che furono vittime dell’Olocausto.

Le colpe dei padri non dovrebbero mai ricadere sui figli – anche se, inevitabilmente, le conseguenze li colpiscono, lasciando cicatrici e ferite profonde da rimarginare - come le colpe dei figli (ed, in questo caso, dei nipoti) di tutti quegli ebrei che furono deportati e sterminati, non sono da imputare ad essi.

La responsabilità di ogni azione è individuale e non si eredita.

Se Israele oggi sbaglia, le sue colpe non devono cancellare, né oscurare in nessun modo la storia delle vittime del passato, perché la memoria della Shoah è di tutti e per tutti, anche (ed oggi, soprattutto) di quegli uomini, quelle donne e quei bambini intrappolati a Gaza o nei campi profughi di tutto il Medio Oriente.

Rileggendo il pensiero del filosofo ceco ed allievo di Husserl, Jan Patočka, secondo il quale l’esistenza non va considerata solo nell’esser-gettati dentro il mondo, ma nell’esservi accolti, radicandosi in esso, ritengo che, quella che viene definita l’avanzata della vita nella notte – caratterizzata dalla solidarietà tra gli uomini – come unica forza morale realmente efficace di fronte alla guerra (la sola che sebbene non possa dimostrarsi totalmente in grado di debellarla, può almeno porle alcuni limiti e restrizioni) sia un sentimento molto più divino che umano, almeno nel suo senso più autentico. Ed è molto difficile – se non impossibile – pensare di riuscire a pregare per il nostro nemico.

D’altro canto, è proprio la passione dell’impossibile – quella che, nella filosofia di Derrida, si esplica in una fede che sospende la legge, lasciando spazio ad un ordine del tout-autre e ad un concetto di giustizia proiettata verso una prospettiva a venire e in divenire, rifiutando ogni rigido diritto consolidato e aprendosi al per-dono e all’ospitalità – a ritenere possibile la rinuncia ad una parte di se stessi per consentire agli altri di esistere e di poter essere.

Con le sole logiche della ragione e dei fatti, non credo si possa pensare che il conflitto tra Israele e Palestina abbia una possibilità di trovare la soluzione che ci aspettiamo. Ma, a mio modo credo – o mi piace voler credere – nell’impossibile di Derrida, che non vede nell’impossibilità una chiusura definitiva e categoricamente assoluta al possibile, bensì un impossibile che conduce alla possibilità, introducendosi in esso.

Se crediamo davvero che l’Olocausto ci abbia insegnato qualcosa, forse è il momento di non comportarci come chi, in passato, se ne è lavato le mani. Ogni momento della storia ci obbliga ad alzarci in piedi e ci costringe ad un esame di coscienza. Magari prima che altri genocidi vengano rievocati – come nuovi fantasmi – ogni anno, durante la commemorazione di quello perpetuato ai danni degli ebrei.

 

“Dove eravamo quando Hitler incominciò a ululare il suo odio nel Reichstag?

quando i nostri vicini venivano trascinati nel cuore della notte a Dachau?

quando ogni paese della Germania aveva un binario morto dove i carri bestiame erano riempiti di bambini che venivano portati allo sterminio?

Dove eravamo quando i bambini gridavano nella notte?

Eravamo sordi? Ciechi? Muti?”

– Vincitori e vinti –


 

 
 
 

Haiku per un inizio

Post n°360 pubblicato il 08 Gennaio 2024 da ElettrikaPsike
 

 

 

 

 

La campana del tempio tace,

ma il suono continua ad uscire dai fiori.

 

 

 
 
 
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