Creato da ElettrikaPsike il 17/12/2012

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Dillo, bella strega...se lo sai, Adorabile strega…Dimmi, conosci l’irremissibile? (I fiori del male, C. Baudelaire)

 

 

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PER NON DIMENTICARE CHE COSA NON SI DEVE RIPETERE

 

ED IL MODO MIGLIORE PER RICORDARE E' METTENDO IN PRATICA

I DIRITTI DI OGNI UOMO.

 

Chi veramente crede ed esercita la memoria, inevitabilmente, capisce perché si deve fermare ogni genocidio.

 

Anche oggi commemoro, come ogni anno, la Shoah. Ma sia chiaro che ogni singolo genocidio va rievocare anche i fantasmi di tutti gli altri. Di quelli accaduti in Armenia, Ucraina, Cambogia, Ruanda, Bosnia, via via fino ad arrivare ad oggi, al conflitto tra Israele e Hamas, a quell’intento che può trasformarsi di fatto in una reale azione genocida. E chi veramente vuole fare pratica di memoria – ed ha vissuto profondamente, nella propria coscienza, l’Olocausto – non può far finta di non capire.

 

 

Ma la Shoah – va detto – è stata un episodio a parte, ed è giusto ricordare il perché, affinché si smetta di pensare che si stanno applicando due pesi e due misure nell’esigere questa commemorazione ad ogni costo.

 

Senza timore di smentita, infatti, possiamo dire che è una necessità quella di ricordare che l’Olocausto è stata l’unica pagina – in tutta la storia dell’uomo – ad essere comprensiva di ogni elemento connaturato nel termine genocidio.

Esacerbato in ogni suo sintomo, e pressoché impossibile da concepire, lo sterminio condotto dalla Germania nazista durante la seconda guerra (ed ancor prima del suo scoppio) ai danni dell’Europa, ha portato non solo all’annichilimento di milioni e milioni di ebrei dalla superficie terrestre – 7.000 dei quali erano italiani – ma è andata anche rigorosamente a colpire altri gruppi etnici (persecuzione di Rom e Sinti) ed appartenenti ad altro credo (come i Testimoni di Geova) senza scordare il feroce e sistematico accanimento perpetuato ai danni degli omosessuali, delle persone con deficit mentali e dei malati psichiatrici.

E questo solo per citare una parte di quegli esseri umani annientati e che sono stati quantificati – in termini numerici – fino a 20 milioni. Senza considerare i massacri di tutti i civili avvenuti in Polonia ed in Russia.

Non dimentichiamoci, pertanto, il perché di questa giornata della memoria. E l’evidente ragione di essere celebrata in ogni caso e per sempre.

Per questo va chiarito che, contrapporre in una sorta di grottesco aut aut, la memoria della Shoah - terminata a metà degli anni’40 - a quanto sta accadendo oggi a Gaza per mano israeliana, in risposta ai folli crimini di Hamas, non ha senso. Anche perché, esattamente come i civili palestinesi non sono Hamas, neppure gli israeliani che oggi stanno compiendo crimini di guerra sono quelli che furono vittime dell’Olocausto.

Le colpe dei padri non dovrebbero mai ricadere sui figli – anche se, inevitabilmente, le conseguenze li colpiscono, lasciando cicatrici e ferite profonde da rimarginare - come le colpe dei figli (ed, in questo caso, dei nipoti) di tutti quegli ebrei che furono deportati e sterminati, non sono da imputare ad essi.

La responsabilità di ogni azione è individuale e non si eredita.

Se Israele oggi sbaglia, le sue colpe non devono cancellare, né oscurare in nessun modo la storia delle vittime del passato, perché la memoria della Shoah è di tutti e per tutti, anche (ed oggi, soprattutto) di quegli uomini, quelle donne e quei bambini intrappolati a Gaza o nei campi profughi di tutto il Medio Oriente.

Rileggendo il pensiero del filosofo ceco ed allievo di Husserl, Jan Patočka, secondo il quale l’esistenza non va considerata solo nell’esser-gettati dentro il mondo, ma nell’esservi accolti, radicandosi in esso, ritengo che, quella che viene definita l’avanzata della vita nella notte – caratterizzata dalla solidarietà tra gli uomini – come unica forza morale realmente efficace di fronte alla guerra (la sola che sebbene non possa dimostrarsi totalmente in grado di debellarla, può almeno porle alcuni limiti e restrizioni) sia un sentimento molto più divino che umano, almeno nel suo senso più autentico. Ed è molto difficile – se non impossibile – pensare di riuscire a pregare per il nostro nemico.

D’altro canto, è proprio la passione dell’impossibile – quella che, nella filosofia di Derrida, si esplica in una fede che sospende la legge, lasciando spazio ad un ordine del tout-autre e ad un concetto di giustizia proiettata verso una prospettiva a venire e in divenire, rifiutando ogni rigido diritto consolidato e aprendosi al per-dono e all’ospitalità – a ritenere possibile la rinuncia ad una parte di se stessi per consentire agli altri di esistere e di poter essere.

Con le sole logiche della ragione e dei fatti, non credo si possa pensare che il conflitto tra Israele e Palestina abbia una possibilità di trovare la soluzione che ci aspettiamo. Ma, a mio modo credo – o mi piace voler credere – nell’impossibile di Derrida, che non vede nell’impossibilità una chiusura definitiva e categoricamente assoluta al possibile, bensì un impossibile che conduce alla possibilità, introducendosi in esso.

Se crediamo davvero che l’Olocausto ci abbia insegnato qualcosa, forse è il momento di non comportarci come chi, in passato, se ne è lavato le mani. Ogni momento della storia ci obbliga ad alzarci in piedi e ci costringe ad un esame di coscienza. Magari prima che altri genocidi vengano rievocati – come nuovi fantasmi – ogni anno, durante la commemorazione di quello perpetuato ai danni degli ebrei.

 

“Dove eravamo quando Hitler incominciò a ululare il suo odio nel Reichstag?

quando i nostri vicini venivano trascinati nel cuore della notte a Dachau?

quando ogni paese della Germania aveva un binario morto dove i carri bestiame erano riempiti di bambini che venivano portati allo sterminio?

Dove eravamo quando i bambini gridavano nella notte?

Eravamo sordi? Ciechi? Muti?”

– Vincitori e vinti –


 

 
 
 
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