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la musica, suonare il pianoforte, suonare il mio violino, la luce del tramonto, ascoltare il mare in una spiaggia deserta, guardare il cielo stellato, l’arte, i frattali, viaggiare, conoscere e scoprire cose nuove, perdermi nei musei, andare al cinema, camminare, correre, nuotare, le immagini riflesse sull’acqua, fare fotografie, il profumo della pioggia, l’inverno, le persone semplici, il pane fresco ancora caldo, i fuochi d’artificio, la pizza il gelato e la cioccolata


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l’ipocrisia, l’opportunismo, chi indossa una maschera solo per piacere a qualcuno, l’arroganza, chi pretende di dirmi cosa devo fare, chi giudica, chi ha sempre un problema più grosso del mio, sentirmi tradito, le offese gratuite, i luoghi affollati, essere al centro dell’attenzione, chi non ascolta, chi parla tanto ma poi…, l’invidia, il passato di verdura





 
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Impromptu n.2 op.142




 

Messaggi di Marzo 2017

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Post n°684 pubblicato il 28 Marzo 2017 da enodas

 

 

C’è stata questa boutade, la settimana scorsa, che, grazie anche ai tragici eventi avvenuti quasi in contemporanea, è praticamente scemata con una certa rapidità. Si tratta della sparata di Jeroen Dijsselbloem - non un politico olandese qualunque, ma uno degli uomini forti a Bruxelles, di quelli che per intendersi propinano le cure a "lacrime e sangue" a Paesi come l'Italia - riguardo alcool, donne e Sud Europa.
Ho trovato sul Corriere della Sera una pillola a firma di Massimo Gramellini che riporto qui di seguito in integrale, tanto bene riesce ad esprimere il mio pensiero, dal titolo eloquente "Il Perego d'Olanda". Non nascondo che l'accostamento di nome sia una piccola ironica vendetta.
Nel frattempo, pensavo come nel giro di poco tempo, uno dei vantaggi di essere espatriati sia ora di essere riuscito a farsi offendere da politicanti di due Paesi differenti - si veda il caso Poletti, che peraltro non termina di dispensare nuove pillole di saggezza. Non so se rendo l'idea. Gramellini si domanda cosa pensino di noi in Olanda "i regressisti": beh, questo lo posso dire senza problemi che non ci vuole molto per raccogliere ignoranza ed arroganza da queste parti e che non bisogna nemmeno cercare un qualsivoglia zoccolo duro per raccogliere questo tipo di pensiero. Peraltro, in una terra dove in materia di alcool e sesso a pagamento si potrebbe dire più di qualcosa.
Ieri mi è capitato uno sketch che col senno di poi ho giudicato molto significativo. A dispetto di quanto gli Olandesi pensino di se stessi, una delle tante opinion diffuse tra expat è che non sappiano guidare. La mia macchina nuova è stata colpita e sfregiata in più punti, nel giro di pochi mesi, senza colpo ferire, e soprattutto senza che nessuno abbia mai lasciato un biglietto di scuse ed un numero di telefono: una cosa che mi getta non poco nella frustrazione e nella rabbia. L'ultimo "regalo", impressionante l'ho trovato la settimana scorsa. Bene, raccontavo questo, ieri, a tavola, e quello che ho raccolto è stato che in Italia siamo abituati che tutte le macchine siano danneggiate di fronte e sul retro. Stavo raccontando ad un povero Olandese medio dall'elevata istruzione quanto i suoi compaesani siano incapaci e maleducati, e questo personaggio non ha esitato un attimo a sputare fuori uno stereotipo qualsiasi.
E' l’ottusità di questo tipo che sta dietro le parole di Jeroen Dijsselbloem, che non è né una cosa da prendere con pacioneria, né un pensiero tanto isolato. Perché tanto lo pensa da non sentirsi nemmeno limitato dal politically correct. E questa è l'Europa, nell'immagine della sua disastrosa guida - in senso figurato e non.

 

"Jeroen Dijsselbloem, presidente olandese dell’Eurogruppo, ha dichiarato al più autorevole giornale tedesco che le nazioni del Sud Europa “non possono continuare a spendere soldi in donne e alcol e poi chiedere aiuto”. Che a casa sua Dijsselbloem sia considerato un progressista getta un’ombra inquietante su che cosa pensino di noi, in Olanda, i regressisti. Quest’uomo ha inanellato tanti di quegli stereotipi da fare ammutolire un congresso internazionale di Bar Sport. Per ragioni molto simili, alla Rai hanno appena rimosso una conduttrice. Ma, a differenza della Perego, lui i testi se li scrive da solo. Strano, si pensava che ad Amsterdam avessero una certa pratica di pub e bordelli, e che spendessero qualche spicciolo anche dentro i coffee shop. Nelle classifiche sul tasso d’ubriachezza, l’Italia e le sue sorelle meridionali precedono di pochissimo l’Olanda, ma rimangono ampiamente dietro Germania, Ungheria e Danimarca. Quanto ai piaceri del sesso, ormai soppiantati dai brividi del calciomercato, una breve indagine tra le donne latine porterebbe Dijsselbloem a scoperte sconfortanti. Eppure a quelle latitudini continua a riscuotere un certo successo l’immagine del contribuente nordico che sgobba sotto cieli tristi per consentire a noi terroni di ballare il sirtaki in una damigiana di bordeaux con Penelope Cruz e Monica Bellucci vestite completamente di nero. L’Europa è disfatta. Restavano da disfare gli europei, ma si direbbe che siamo già piuttosto avanti col programma."

(dal Corriere della Sera [...], di Massimo Gramellini)

[...]

 
 
 

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Post n°683 pubblicato il 20 Marzo 2017 da enodas

 

 

 

E’ sempre una sensazione simile quella che provo quando mi trovo a camminare lungo le strade delle città polacche. Sono tornato molte volte, cercando in ogni occasione una destinazione nuova. Eppure, arrivato sempre nella parte vecchia di queste città, sopravvissuti o ricostruiti nonostante le ferite della Storia, trovo sempre una piazza colorata e case dalle facciate eleganti, mazzi di fiori venduti sul selciato, e strade segrete in cui avventurarsi ai suoi lati. Ho percorso arcate che voltavano colore, attendendo che un carillon, in alto battesse il mezzogiorno. E nel frattempo cercavo riparo in uno dei locali che ancora brillavano dalla notte precedente. Sono stato a Poznan, con ritmo lento, perché in fondo niente era veramente speciale e non è che ci fosse tanto da vedere, se non tornare soprattutto su una di queste piazze, come un flash-back, cercare un colore, un profilo ed una linea elegante, e tastare sapori semplici e corposi, prima di ripartire e cercare di perdermi in un labirinto notturno.

 

 

Siamo saliti su un treno, un po’ indietro nel tempo: è sempre così quando ci si addentra in campagna, anche quando questa scorre ai lati di un vetro. Destinazione Torun, Pomerania, nel cuore della Polonia e medioevo nascosto dietro la difesa di mura possenti, o almeno così dovevano essere, tanto che se non fosse per i negozi e le luci, forse davvero immagineresti di aver varcato una porta speciale. Torun è la città di Copernico, un’università antica, cavalieri teutonici e la leggenda variante del pifferaio magico, che qui aveva un violino ed incantava rane. Ognuno, a suo modo, passato attraverso le ali del tempo, che come arcate gotiche si spalancano per perdersi nell’ombra di una vista irraggiungibile. Torun è attraversata dalla Vistola, quel fiume che come filo conduttore mi lega ad altri luoghi ed altri tempi, ritorno dopo ritorno, quasi raccogliessi una barchetta di carta affidata alle sue acque dalle sponde di qualche altro luogo. Il fiume ne è la silenziosa voce narrante.

 

 

 
 
 

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Post n°682 pubblicato il 16 Marzo 2017 da enodas

 

 

"... Lei guarda all’esterno, ed è appunto questo che ora non dovrebbe fare. Nessuno può darle consiglio o aiuto, nessuno. Non v’è che un mezzo. Guardi dentro di sé. Si interroghi sul motivo che le intima di scrivere; verifichi se esso protenda le radici nel punto più profondo del suo cuore; confessi a se stesso: morirebbe, se le fosse negato di scrivere? Questo soprattutto: si domandi, nell’ora più quieta della sua notte: devo scrivere? Frughi dentro di sé alla ricerca di una profonda risposta. E se sarà di assenso, se lei potrà affrontare con un forte e semplice «io devo» questa grave domanda, allora costruisca la sua vita secondo questa necessità. La sua vita, fin dentro la sua ora più indifferente e misera, deve farsi insegna e testimone di questa urgenza. Allora si avvicini alla natura. Allora cerchi, come un primo uomo, di dire ciò che vede e vive e ama e perde.
[...] Perciò rifugga dai motivi più diffusi verso quelli che le offre il suo stesso quotidiano; descriva le sue tristezze e aspirazioni, i pensieri effimeri e la fede in una bellezza qualunque; descriva tutto questo con intima, sommessa, umile sincerità, e usi, per esprimersi, le cose che le stanno intorno, le immagini dei suoi sogni e gli oggetti del suo ricordo. Se la sua giornata le sembra povera, non la accusi; accusi se stesso, si dica che non è abbastanza poeta da evocarne le ricchezze; poiché per chi crea non esiste povertà, né vi sono luoghi indifferenti o miseri. E se anche si trovasse in una prigione; le cui pareti non lasciassero trapelare ai suoi sensi i rumori del mondo, non le, rimarrebbe forse la sua infanzia, quella ricchezza squisita, regale, quello scrigno di ricordi? Rivolga lì la sua attenzione. Cerchi di far emergere le sensazioni sommerse di quell’ampio passato; la sua personalità si rinsalderà, la sua solitudine si farà più ampia e diverrà una casa al crepuscolo, chiusa al lontano rumore degli altri. E se da questa introversione, da questo immergersi nel proprio mondo sorgono versi, allora non le verrà in mente di chiedere a qualcuno se siano buoni versi. Né tenterà di interessare le riviste a quei lavori: poiché in essi lei vedrà il suo caro e naturale possesso, una scheggia e un suono della sua vita. Un’opera d’arte è buona se nasce da necessità..."

(Rainer Maria Rilke - Lettere ad un giovane poeta)

 

 

Questo è un libretto che sto leggendo con molta difficoltà. Ciononostante, non posso nascondere che leggendo questo passaggio, un po’ inflazionato in realtà, tra le prime pagine, non abbia potuto evitare di guardarmi e soppesarmi su queste parole.
Forse, la realtà è che non sappia se e cosa sia ciò che voglio con tutto me stesso. A seconda dei momenti, si trattava di qualcosa che facevo, e di cui avrei voluto fare la mia vita, malgrado fosse solo una passione, o vedere, conoscere, imparare, oppure un luogo che mi porto dentro. In alcuni momenti, si trattava forse pure di una persona che da qualche parte esisteva, fuori dai miei sogni.
Ma la realtà è che non so definire me stesso e non so trovare molto di tutto questo. In un certo senso, ho fallito. In un altro, probabilmente, non ho dato abbastanza di me. Non lo so. Ma non posso evitare che poche righe, un po’ belle ed un po’ fatte, siano capaci di bloccare il mio sguardo ed immalinconirmi. In ogni caso, mi sento in colpa e rimango nascosto dietro me stesso, dietro il mio “sovrapensare” e la mia incapacità di cambiare le cose, finanche di definirmi.


 
 
 

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Post n°681 pubblicato il 14 Marzo 2017 da enodas

 

 

 

Quando sono atterrato non ci avevo fatto caso. E’ stato guardando fuori dal finestrino e scorgendo i profili dei pini marittimi che ho davvero realizzato di essere in Italia e di essere tornato a Roma. In quel profilo, d’improvviso, ho identificato tutto ciò che mi piaceva nel trovarmi lì.
Roma fa schifo. Per essere chiari, è una provocazione. Ma è anche una presa di conoscenza dolorosa nell’osservare con gli occhi distaccati di un mezzo straniero quello che è la città: la vergogna delle immondizie, pure in un centro che sicuramente beneficerà del suo status, la condizione pietosa degli autobus che partono per Tivoli, così come per altre destinazioni in periferia, il sali scendi che lo accompagna, ed altre piccole cose che magari saranno solo dettagli pesanti, sono una storpiatura ed uno sfregio ad un passato del quale inappropriatamente ci si fa vanto.

 

 

Ho visitato due luoghi belli ed affascinanti in questa domenica romana. Sono giunto a Tivoli, a Villa d’Este, ascoltando madrigali d’epica cortese e note pirotecniche estratte sul pianoforte da mani gigantesche. Tutto ruotava attorno a quei giochi d’acqua, un giardino incantato, così sembra, come spettacolare è la vista che da qui si gode sulla campagna romana. Ho trattenuto il fiato, come il tempo incero che rimaneva sospeso all’orizzonte. E, seguendo decorazioni a grottesca, sala per sala, all’ombra di gesta eroiche e racconti epici, riecheggiavano note di musica e si riaffermava lo smisurato potere dei principi di Roma.

 

“Oh gran bontà de’ cavallieri antiqui!
Eran rivali, eran di fe’ diversi,
e si sentian degli aspri colpi iniqui
per tutta la persona anco dolersi;
e pur per selve oscure e calli obliqui
insieme van senza sospetto aversi,
da quattro sproni il destrier punto arriva
ove una strada in due si dipartiva…”

 

[…]

 

 

“…Vi sono già zone della mia vita simili alle sale spoglie d'un palazzo troppo vasto, che un proprietario decaduto rinuncia a occupare per intero…”

 

Sono sceso a Villa Adriana. E la sensazione che mi ha preso, in questo labirinto di rovine eleganti che potrebbero benissimo essere un’intera città romana, questo silenzio impresso nei ruderi, riflesso nell’acqua e protetto dai pini, mi è suonata come un’antica narrazione di solitudine. Questo ho pensato, nell’immaginare cosa sorgesse tra questa immensa distesa di ulivi, forse al posto di questi stessi ulivi. Era un silenzio di pace, una luce tranquilla che riscaldava il terreno umido di pioggia. Eppure, attraverso i secoli, mi trasmetteva questo tocco gelido di solitudine.

 

“…Mi dicevo che è vano sperare, per Atene e per Roma, quell’eternità che non è accordata né gli uomini né alle cose, e che i più saggi tra noi negano persino agli dei. [...]
«Natura deficit, fortuna mutatur, deus omnia cernit.» La natura ci tradisce, la fortuna muta, un dio dall'alto guarda ogni cosa. [...]
Là dove un tessitore rattopperebbe la sua tela, dove un calcolatore correggerebbe i suoi errori, dove l'artista ritoccherebbe il suo capolavoro ancora imperfetto o appena danneggiato, la natura preferisce ricominciare dall'argilla, dal caos; e questo sperpero è ciò che si chiama l'”ordine delle cose”.”

 

 

 
 
 

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Post n°680 pubblicato il 10 Marzo 2017 da enodas

 

 

Questa è una “non-mostra”. Forse una specie di viaggio, un tuffo nel vuoto, un navigare nel mare dell’anima, alla ricerca di un colore perduto, un tratto che è graffio, volo nel cielo, ondeggiare di un fiore. Accompagnato da frammenti delle numerose lettere scritte al fratello Theo, che come brevi lampi possano squarciare il buio di questo mare ed accompagnare la rotta. Non solo colore, ma sentimento. E tormento, soprattutto. Questo è il viaggio.

Sono uscito col cuore pesante, segnato da questo tormento interiore, dai rapidi passaggi, come una musica violenta ed improvvisa, e dal disperato tentativo di cercare la felicità. In un labirinto senza vie di fuga, uno sforzo continuo ed implacabile. Le parole ed i colori, uniti a questa storia che chiunque conosce, sono sassi che affondano e, una volta fuori per strada, nel tentativo di immaginare e rivivere le linee tortuose della notte e cercando in un cielo nascosto la luce delle stelle, ancora premono sul cuore.

 

“Sono alla ricerca, mi sto sforzando,
ci sono dentro con tutto il cuore.”

 

 

“Non si può essere al polo e all’equatore allo stesso tempo. Devi scegliere la tua linea, come spero di fare anche io e probabilmente la mia sarà il colore.”

“Un grande fuoco è dentro di me ma nessuno ci si siede accanto per scaldarsi. I passanti vedono solo una breccia di fumo e continuano per la loro strada.”

“Desidero esprimere non la malinconia ma la vera sofferenza sia nei personaggi che nei paesaggi.”

“Al momento sento il bisogno assoluto di disegnare un cielo stellato. Spesso ho l’impressione che la notte sia più colorata rispetto al giorno: ci sono tonalità di viola, blu e verdi più intensi. Se presti attenzione, vedrai che alcune stelle sono giallo limone, altre rosa o di una brillantezza verde o blu non ti scordar di me. E senza dilungarmi sul tema, è ovvio che mettere puntini bianchi sul blu-nero non è sufficiente a creare un cielo stellato.”

 

 

Però va sottolineato che questa è una non-mostra. Un’installazione multimediale che ha lo scopo di coinvolgere il visitatore a 360 gradi. E forse per questo l’installazione a Roma non è stata delle più felici, organizzata in due uniche sale ampie sulle pareti delle quali scorrevano le immagini Quella sensazione di surrounding veniva un po’ meno e quasi si riduceva ad una proiezione. Un’idea in generale interessante, anche se un po’ eccessivamente di facile marketing e prezzo del biglietto decisamente spropositato.

 

 

 
 
 

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Post n°679 pubblicato il 07 Marzo 2017 da enodas

 

 

 

"...non sempre il cielo ci accorda cio che desideriamo [...]
Le note rimasero sospese nel buip che si andava infittendo, e sapevo che anche quella serata sarebbe rimasta sospesa, come una stella dietro le nubi, nella mia memoria..."

 

Sono rimasto alle pagine di un libro. Tra le vie di Roma, Firenze, Napoli. Vi si alternavano donne eroiche, pagine di sangue, fragilità e solitudine. Passione. Come tratti di pennello, colpi alla tela ed alla vita. Eccole, quelle donne, i loro mille volti che si riconoscono nella stessa immagine, come uno specchio d’acqua per quegli stessi occhi che ora guidano il pennello, trasformano l’ombra in colore ed il colore in luce. Vittime e vendicatrici: dagli sguardi amorevoli di una madre agli occhi orgogliosamente infuocati di nobildonne e regine della storia, dalla furia intrisa del sangue delle eroine della Bibbia all’estasi di un altro mondo di sante, è un universo intero che sembra ruotare attorno ad un volto, che osserva, e si mostra, dietro dei lineamenti nascosti. Sono gli occhi di una donna ed a volte, oltre quei colori, di cui era “maestra illustrissima”, la sensibilità dei gesti parla per loro. Come a dire, anche, quanto abbia perso il mondo dell’arte in passato. Come a dire, questo è un viaggio affascinante che arde negli occhi e nei colori.

 

“Ricordai la mia delusione quando papà mi aveva fatto vedere la Giuditta di Caravaggio…aveva concentrato tutta l’emozione sull’uomo. Evidentemente non riusciva a immaginare che una donna fosse in grado di pensare. Io invece volevo dipingere i suoi pensieri, se una cosa del genere era possibile…”

 

 

Questo nome, questi sguardi: è un viaggio affascinante in una vita romanzata ed un periodo in subbuglio. Perché, se ci sono veramente pochi artisti dei quali è possibile dire che abbiano avuto, in vita, vicende intense e appassionanti quanto la loro arte, tra loro c'è, senz'ombra di dubbio, Artemisia. Anche a rischio di ripercorrere un cliché ed in qualche modo tradire la forza straordinaria di una pittrice che seppe farsi largo nel mondo chiuso e prettamente maschile del suo tempo. All’ombra di quello stupro subito e del processo che ne conseguì: rimane difficile nonostante tutto credere che le sue eroine ne fossero uscite distaccate e lontane. Ma certo ci fu anche l’artista, il cui talento esplose presso le corti più prestigiose del tempo, consapevole di se stessa. L’amicizia con Galileo, con i grandi nomi della Roma artistica prima, Firenze e Napoli poi, la gestione di uno studio di pittura proprio e le lotte alla pari con i fratelli ed un padre padrone, testimoniano una personalità emancipata, ed intellettualmente vivace, forte come le donne che pose al centro dei suoi racconti.

 

 

“…Una mattina, passò nella nostra stretta via della Croce una pescivendola con due ceste di pesce secco. Aveva le maniche arrotolate e le braccia muscolose erano robuste e nerborute come quelle, solcate di vene, del Mosè di San Pietro in Vincoli. Erano quelle le braccia che doveva avere Giuditta: più robuste e forti di quanto le avessi disegnate e anche con le maniche arrotolate, pronta al bagno di sangue, irrigidita nella determinazione e dalla ripugnanza, mentre affondava nella gola di Oloferne la sua stessa lama d'acciaio. E la serva di Giuditta, Abra, anche lei doveva avere braccia robuste, per poter schiacciare il petto del tiranno. Inoltre, la mia Giuditta avrebbe tenuto un ginocchio sul letto del tiranno, come una contadina che sta scannando un maiale…”



 

[...]

 

“Un viaggio nell’arte della prima metà del XVII secolo seguendo le tracce di una grande, vera donna. Una pittrice di prim’ordine, un’intellettuale effervescente, che non si limitava alla sublime tecnica pittorica, ma che seppe, quella tecnica, declinarla secondo le esigenze dei diversi committenti, trasformarla dopo aver assorbito il meglio dai suoi contemporanei, così come dagli antichi maestri, scultori e pittori. La parabola umana e professionale di Artemisia Gentileschi (1593-1653), straordinaria artista e donna di temperamento, appassiona il pubblico anche perché è vista come un’antesignana dell’affermazione del talento femminile, dotata di un carattere e una volontà unici. Un talento che le consentì, giovanissima, arrivata a Firenze da Roma, prima del suo genere, di entrare all’Accademia delle Arti e del Disegno di Firenze; che le fece imparare, già grande, a leggere e scrivere, a suonare il liuto, a frequentare il mondo culturale in senso lato; una volontà che le consentì di superare le violenze familiari, le difficoltà economiche; una libertà la sua che le permise di scrivere lettere appassionate al suo amante Francesco Maria Maringhi, nobile raffinato quanto tenero e fedele compagno di una vita. Una tempra la sua, che pure sotto tortura (nel processo che il padre intentò al suo violentatore Agostino Tassi) le fece dire: “Questo è l’anello che tu mi dai et queste le promesse”, riuscendo così a ironizzare, fino al limite del sarcasmo, sulla vana promessa di matrimonio riparatore. […]”

(dall’Introduzione alla mostra: Artemisia e il suo tempo)

 

 

“[…] Il tempo, i documenti, le carte uscite fuori dagli archivi, e forse ancora molte da trovare, han reso giustizia a una donna, a un’artista, a un’eroina che non si fa scrupoli perché solo in questo modo è possibile esser donna e pittrice in quell’epoca, in quel mondo. Non era affatto bambina quando conobbe il Tassi che amò per quasi un anno. E certo il processo ci fu e alla fine non si sposarono. Sposò lo Stiattesi ma chi tra i due ci guadagnò, non è chiaro. Amò furiosamente un suo coetaneo alla corte di Firenze, il nobile Francesco Maria Maringhi, come testimoniano le sue lettere appassionate, che la salvò dall’accusa di furto di colori quando scappò con i figli, che molti ne ebbe, da Firenze a Roma. Cambia case, si fa nuovi amici, non paga i debiti, pur di lavorare e di essere grande tra i grandi del suo tempo. L’amico Vouet ci lascia un suo ritratto (ma il suo volto lo si conosce a memoria, che lo regala alle sue donne di pennello più crudeli). È a Venezia e poi a Napoli. Si fa agente di se stessa. Ha a che fare coi grandi della nostra penisola, come d’Europa, raccomandando perfino famiglia e parenti, rimandando consegne di lavori, scrivendo lettere tanto supplichevoli quanto furbe. Scrive a Galileo di cui è amica. Il suo amante di sempre, il Maringhi, la raggiunge a Napoli. Girolamo Fontanella compone un’ode per lei e negli anni successivi addirittura sette per le sue opere. Parte per Londra, dove raggiunge il padre, e dove rimane anche dopo la sua morte per rientrare poi a Napoli dove lavora molto e molto promette, pur di farsi anticipare danari e colori.
Secondo le fonti vien sepolta nella Chiesa di San Giovanni dei Fiorentini. “Heic Artemisia” sulla sua lapide. Perché da questo momento è solo Artemisia, la grande, immensa pittrice.”

(dall’Introduzione alla mostra: Artemisia e il suo tempo)

 

 

 
 
 
 
 

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