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L'ALBERGO (capitolo III)

Post n°113 pubblicato il 18 Maggio 2010 da fittavolo
 

Un taxi si è fermato davanti all’albergo, lei è scesa ed è subito ripartito. Guarda il mare, la strada che comincia a popolarsi, ascolta il brusio che fa da sottofondo a questo inizio di giornata. La osservo a tratti, mentre ascolto le lamentele del signore della stanza 130, sostiene di essere stato svegliato dal passaggio di un treno, la scorsa notte.
“È impossibile signore la più vicina linea ferroviaria è a cinque chilometri” dico.
“Eppure io le garantisco che nonostante questa distanza è riuscito a farmi sobbalzare nel letto, potrebbe cambiarmi di stanza, magari una nella parte anteriore dell’albergo” chiede.
Lo guardo mantenendo il sorriso ben stampato sulla faccia, anche se so il motivo per il quale vuole cambiare stanza.
“Mi spiace non è possibile, quelle stanze sono tutte occupate. Invece ne ho libere tre due piani più in alto, però lato nord” propongo.
Non mi pare sia molto contento della proposta, ci pensa un po’ e poi finalmente rinuncia.
“Faccio un altro tentativo, spero che l’episodio della scorsa notte, sia un caso isolato. Altrimenti dovrò prendere altri provvedimenti” afferma.
“Spero che non pensi di lasciarci, sarebbe una grave perdita per noi, ne parlerò al direttore appena arriva” dico.
Lui mi guarda meravigliato e aggrotta la fronte.
“Ma cosa va a pensare! Intendevo dire che mi comprerò un bel paio di tappi per le orecchie” e scoppia a ridere, mi dà un colpetto sul braccio e se ne va. Bel cliente, anche se ha cercato, con una scusa inconsistente di passare in una stanza con vista sul mare; le più richieste e immancabilmente già occupate da gennaio.
La vedo entrare, indugia, si ferma un attimo nella hall. Guarda indietro, verso l’ingresso, poi prende un fazzoletto dalla sua borsetta e lo appoggia sui bordi degli occhi. Lentamente si avvicina al banco. Ha gli occhi tristi, arrossati, come se abbia pianto.
“Posso aiutarla, ha perso qualcosa?” chiedo.
Lei è assente, mi guarda come se non capisca quello che dico.
“Ha bisogna d’aiuto?” insisto.
“No no, va tutto bene. Questa maledetta allergia mi intontisce. È pronta la colazione?” chiede.
Difficile credere a un attacco allergico così forte in piena estate, tuttavia il cliente ha sempre ragione: le forme allergiche importanti esistono anche d’estate, anzi soprattutto d’estate!
“Certo signora, si accomodi pure in sala, la serviranno subito” dico.
Si gira a guardare verso la sala e fa un cenno di assenso con il capo, poi mi fredda “non ci davamo del tu, io e te, poche ore fa?”.
Senza dire altro si allontana con un sorriso amaro.
A volte questo lavoro mi lascia senza parole. Avere a che fare con tanta gente, mi ha fatto crescere, ma non abbastanza. Sono le persone come la signora della 115 e suo marito, che rendono saporita la vita nell’albergo e se pur ho deciso di starne alla larga, m’incuriosiscono.
Dopo mezz’ora arriva Alberto e prende possesso del banco. Dalla faccia sembra che si sia svegliato solo dieci minuti fa. Spara quattro sbadigli di seguito e sull’ultimo mi congeda dondolando la mano destra come per dire “va va”. Torno al mio lavoro: cameriere tuttofare. Ormai le colazioni sono quasi al termine, mi infogno in cucina e do una mano al cuoco. Se non fosse per il calore dei fornelli, sarebbe il secondo posto dove preferirei stare. Qui il condizionatore funziona male e si suda a star fermi, in compenso la mansione è ben definita dallo chef, e il direttore ne sta alla larga.

Un altro giorno di lavoro è quasi al termine, solo poche cose da sistemare prima di essere di nuovo libero. Non vedo l’ora di stendermi sulla mia sdraio, e spero che gli scocciatori stiano alla larga, anzi la scocciatrice.
Prendo una birra, saluto Vittorio e mi avvio verso la spiaggia. Guardo in giro con attenzione. Il posto è libero. Mi stendo e guardo le stelle. Ogni tanto ingollo un sorso di birra. L’aria è quiete, ma fa meno caldo di ieri. Di solito verso mezzanotte si alza una leggera brezza e mi ricorda l’ora. Questa sera ho finito prima, c’è un concerto in paese, offerto dal comune e tanti villeggianti hanno cenato velocemente e sono spariti. Buon per me, così potrò godermi un po’ di riposo in più. Chissà dov’è la signora, come si chiama…a già Luigia. Sarà anche lei al concerto. Il firmamento è qualcosa di strabiliante, m’affascina in un modo incredibile, starei a guardare le stelle per tutta la notte. Qualche volta mi è capitato di vedere anche stelle cadenti, e di esprimere dei desideri. Non se n’è avverato nessuno, naturalmente. Sono tutte balle, come quelle strane catene di Sant’Antonio che qualche credulone mi manda per e-mail. Incredibile come si possa essere così succubi di certe credenze infondate.
Quella lunga scia luminosa è la Via Lattea, un insieme di stelle che viste dalla nostra distanza sembrano toccarsi, e invece tra loro sono lontanissime.
“Sono fantastiche vero?” dice una voce alle mie spalle.
Mi alzo di soprassalto e faccio cadere la bottiglia di birra. Il liquido schiumoso penetra velocemente nella sabbia lasciando una traccia biancastra, così come il ricordo della Via Lattea nella mia mente. La signora della 115, Luigia, è ferma con il naso all’insù, nelle mani due bottiglie di birra, fredde. Me ne porge una e quasi senza abbassare gli occhi si siede sul lato opposto della sdraio.
“Speravo di trovarti qui…ti disturbo?” dice e ingolla un bel sorso di malto fruttato. Ora mi guarda e cosa spera che le dica, che la stessi aspettando ché morivo dalla voglia di fare quattro chiacchiere con lei. Le sorrido, cos’altro posso fare.
“Non mi disturba, non si preoccupi” dico.
“Dammi del tu, per favore” dice.
“È molto difficile accorciare le distanze tra noi, io resto sempre un cameriere dell’albergo, e di giorno debbo darti del lei, la sera invece…” dico.
Resta sorpresa di questa mia affermazione come se non mi avesse mai considerato un cameriere. Mi prende la mano e molto dolcemente me la stringe.
“Da ieri hai smesso di essere un semplice cameriere, vorrei che fossimo amici, sento di potermi fidare di te” afferma.
Questa volta sono io che la guardo con stupore, non riesco a realizzare cosa voglia da me. Comunque sto al suo gioco, per il momento lo considero tale.
“Va bene, per me non ci sono problemi, ma di giorno sono costretto a trattarti come tutti gli altri clienti, questione di facciata. E poi non voglio essere cazziato!” dico.
Lei sorride e nel chiarore pallido della luna vedo i suoi occhi brillare.
“Va bene, lo sopporterò” dice simpaticamente.
Questa donna è un enigma, vorrei risolverlo, ma ho paura di scottarmi. Io mi affeziono alle persone, ci soffro, quando soffrono, e ne ho nostalgia dopo tanto che non le vedo.
“Perché io?” chiedo.
Non è una bella domanda, ma vorrei capire meglio in che guaio mi sto cacciando, in fondo non ho fatto niente per attirare la sua attenzione.
“Perché nonostante il tuo lavoro ti costringa in un ruolo con pochi margini d’azione, in più occasioni hai avuto il coraggio di non assecondare mio marito, anche stamani…ho colto nel tuo atteggiamento quell’ironia che sa di presa per il culo, e lui dall’alto del suo piedistallo non l’ha capito. Anzi, mentre andavamo alla stazione si è vantato di averti piegato, rilegato nel tuo compito di servitore, pronto a leccargli il culo” dice tutto d’un fiato.
“Tuo marito è uno stronzo!” dico e ingollo nervosamente della birra.
“Lo so e non sei l’unico a pensarlo…” afferma e non va avanti come se voglia lasciarmi la possibilità d’immaginare qualsiasi cosa.
“Anche tu lo pensi?” chiedo.
Si alza e porta la bottiglia alla bocca, lo sguardo perso verso il nero dell’orizzonte, come se ne cerchi dentro la risposta.
“Vorrei solo che fosse diverso…solo un po’ diverso” dice.
“Tu lo ami” chiedo.
“Sì” risponde subito senza pensarci.
Lo ama.
Il silenzio riempie gli spazi che altrimenti resterebbero vuoti o riempiti da parole inutili. Tale affermazione mi coglie alla sprovvista, mi sarei aspettato un attimo, solo un piccolo dubbio, un minimo di incertezza verso l’uomo che la rende infelice. Invece il suo è stato un sì secco, incontestabile, per come è stato pronunciato. Questa donna ama suo marito, anche se la lascia da sola al mare, in un paesino ai piedi del Gargano e scappa via per questioni di lavoro. L’amore ha sfumature che sfuggono ai sensi, la cui percezione è destinata solo alle persone interessate. È difficile accettare un ruolo di secondo piano in un rapporto che dovrebbe essere alla pari. Mi sembra che lei l’abbia fatto.
Una leggera brezza stuzzica la pelle, la fa increspare. È quasi mezzanotte, è ora di andare. Mi alzo e raccolgo le bottiglie vuote, le butto nel cestino.
“È tardi?” chiede, è una donna attenta ai più semplici gesti e li capisce.
“Devo dormire almeno quattro ore di seguito, altrimenti domani non mi reggerò in piedi” dico.
“Ti svegli così presto?” chiede.
“Non sempre, solo quando ho la giornata libera” dico.
Aggrotta la fonte, ha un’aria perplessa.
“Di solito si dorme di più, quando non si lavora…sapevo che eri un tipo fuori dal comune!” dice e ha un moto di rilassamento.
“È vero, ma nelle giornate libere torno a casa, dai miei. Andrei anche adesso, se ci sia un treno pronto a partire, e poi non voglio che mio padre vada in giro di notte: non ci sono mezzi per raggiungere il borgo dove vivono” dico.
“Dove vivono?” chiede.
“In campagna, hanno un piccolo podere in un borgo sperso nel tavoliere” rispondo.
Forse ho detto qualcosa che l’ha turbata, di colpo ha perso il sorriso, sembra pensierosa.
“Allora domani non ci sarai?” chiede.
“E anche dopodomani – rispondo – quando posso, unisco due turni di riposo per godermeli di più”.
Non so cosa si aspetti da me! Io ho la mia vita da vivere, le mie scelte da seguire, ciò nonostante mi sento a disagio, come se le abbia fatto un torto.
“Dirò a Fede’ il bagnino di prepararti comunque la sdraio” dico.
“Non è per questo…senti…posso venire con te?” chiede e lo fa sgranando gli occhi, come una bambina.
L’idea non è male, se non sia per le complicazioni che implica: cosa racconto ai miei? Però potrebbe essere una bella esperienza, i miei capiranno…ma sì capiranno. E mentre penso di accontentarla, sto già meglio.
“Bisogna svegliarsi presto, e tu sei in vacanza! Ti conviene? Polvere, caldo, niente aria condizionata, si mangia la sera quando torna mio padre dai campi, e”
“E mi sta bene, a che ora la sveglia?” chiede interrompendomi.
“Alle cinque e mezza in punto nella hall, se non ci sarai andrò via da solo” dico categoricamente, ma scherzo.
La lascio e mi dirigo verso l’albergo. Prima d’entrare mi giro a guardarla. Riesco a malapena a distinguere la sua sagoma nel buio, è seduta sulla sdraio e guarda il mare.

 
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