CANZONE TERAPIA: CANZONI PER CALMARE I NERVI

Post n°95 pubblicato il 03 Gennaio 2012 da iltuopsicologo1964
 

Farmacia canzonissima. Questo almeno è quanto sostiene un libro appena uscito negli Usa dal titolo che è tutto un programma - ovviamente discografico: "La tua playlist ti può cambiare la vita". La playlist, si sa, è la raccolta personalizzata di canzoni: un'espressione

diventata popolarissima negli ultimi anni grazie all'espansione della musica digitale e dei lettori come gli iPod e gli mp3, che ci permettono appunto di organizzare la nostra discoteca dando dei nomi particolari a dei programmi particolari.

E così come possiamo raccogliere le nostre canzoni in una playlist, chessò, di musica da ballare, o musica per bambini, o musica per viaggiare, gli psicologi autori di questo nuovo studio ci suggeriscono adesso di costruire una playlist per migliorare il nostro benessere.

Galina Mindlin, Don Durousseau e Joseph Cardillo sono tre big della psicologia e della divulgazione. E lo studio si presenta proprio come un manuale: "10 modi per cui la vostra musica favorita può rivoluzionare la vostra salute, memoria, organizzazione, attenzione e molto di più". Gli americani, si sa, sono fatti così: tutta ginnastica, anche per la mente. Ma lo dice anche quello snob inglese di mister Sting: "La vostra mente è uno strumento potente e questo libro vi aiuterà a rimodellare il ritmo della vostra vita".

Naturalmente nelle playlist c'è anche lui: Every Breath You Take dei suoi Police è - come Imagine - tra i brani che mettono calma ("grazie a quel ritmo trascinante che fa rilassare corpo e mente"). Altro esempio di canzone che riduce l'ansia? New York New York: sì, proprio l'inno di Frank Sinatra alla città che non dorme mai è al contrario estremamente rilassante per via di quel ritmo dondolante (27 beat al minuto, dicono gli esperti) che ammalia. Per non parlare di quella canzone positiva già nel titolo, Here Comes The Sun dei Beatles: come fai a non rasserenarti al pensiero del sole che arriva?

E se i Favolosi Quattro sono ideali per il relax, i loro sempiterni rivali serviranno naturalmente a ridarci la carica: e Brown Sugar dei Rolling Stones, che mica tanto velatamente già accennava appunto all'aiutino sintetico, è infatti nella lista delle canzoni che danno energia. Dove i nostri esperti hanno moltiplicato davvero gli sforzi: costruendo playlist particolari che creano uno stato di allerta che aumenta proporzionalmente con la velocità appunto dei beat per minuto, in codice Bpm.

Così da Pride (The Name of Love) degli U2, 106 Bpm, si finisce a Don't Phunk with My Heart del Black Eyed Peas, 130 Bpm, passando per Lady Madonna sempre dei Beatles, 110. Oppure da Back on the Chain Gang dei Pretenders, 138 Bpm, l'ideale da mettere su per ritrovare  l'energia per mettere a posto la casa, si sale fino a The Power of Love di Huey Lewis and the News, 155 Bpm.

E' proprio nella costruzione delle playlist l'aspetto scientifico più interessante di tutta l'operazione. In fondo lo dice anche il detto popolare: canta che ti passa. E un altro scienziato come Daniel Levitin aveva già chiarito in "Sei canzoni" che tutta la musica di questo mondo si potrebbe appunto ridurre a sei prototipi emozionali.

Ma i tre psicologi vanno oltre: notando come ritmo, armonia, risonanza e sincronia sono fra l'altro termini musicali che vengono sorprendentemente usati anche nello studio del cervello. E che i ritmi del cervello, viceversa, sono organizzati con gli stessi principi della musica. Noi stessi, dicono, siamo musica: "La prima musica codificata nella nostra memoria è proprio la prima vibrazione che ci ha generato: il ritmo delle nostre prime cellule". "Imagine" te stesso: la droga naturale che ci portiamo dentro.

articolo completo al seguente indirizzo: http://www.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2012/01/03/news/musica_anti_stress-27522931/?ref=HRERO-1

per approfondimenti: http://www.iltuopsicologo.it/

 
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IL SONNO E' TERAPEUTICO PER I RICORDI DOLOROSI

Post n°94 pubblicato il 28 Dicembre 2011 da iltuopsicologo1964
 

DORMIRCI sopra, per stemperare il dolore di un'esperienza emotiva particolarmente spiacevole. Tra i numerosi effetti benefici del sonno c'è anche la facoltà di alleviare, in particolare durante la fase REM - quella in cui si sogna - ricordi dolorosi, permettendoci di riviverli in un contesto privo di stress che li rende meno difficili da affrontare.

Ad indicare questa funzione emotiva del sonno paradosso, che riguarda una specifica fase del riposo notturno,  dagli aspetti contrastanti, è una ricerca coordinata dal professor Matthew Walker, dell'università di americana di Berkeley. Che, insieme ai suoi colleghi dell'ateneo californiano, ha osservato come nel sonno Rem i circuiti chimici dello stress si spengano e si riesca a cancellare la parte più dolorosa delle esperienze più difficili.

Una scoperta che aiuta anche a comprendere perché chi soffre di disturbo post- traumatico da stress, come i veterani di guerra, abbia più difficoltà a liberarsi da incubi ricorrenti e dal ricordo di esperienze drammatiche. 

La fase Rem del sonno, una delle più misteriose, occupa circa il 20 per cento del riposo totale di una persona in salute; è caratterizzata da movimenti oculari rapidi e da un'elevata attività cerebrale. E sembra funzionare come una terapia notturna, "una sorta di balsamo che smussa gli aspetti più acuti delle esperienze emotive vissute in precedenza", ha spiegato Walzer, professore associato di psicologia e neuroscienze nell'ateneo californiano, coordinatore dello studio uscito su Current Biology.

Chi soffre di disturbo post-traumatico da stress, che, come in altri tipi di disturbi fra cui la depressione, ha un ciclo alterato del sonno, non ne beneficia: in questo caso, i ricordi drammatici, scatenati da eventi diversi, anche banali, vengono rivissuti con la stessa intensità proprio perché manca questa "pulizia notturna" delle esperienze emotive.

Mentre dormiamo - lo facciamo per un terzo della nostra vita - ci troviamo in uno stato unico, in cui il cervello funziona in maniera diversa, alternando stadi di profondo rilassamento ad altri di agitazione. E' un viaggio per molti aspetti ancora oscuro, fondamentale per il nostro benessere e per la salute. Ed è stato osservato che il sonno è fondamentale per consolidare la memoria, per l'apprendimento e per la regolazione dell'umore.

Durante la fase Rem "vengono riattivati i ricordi, ma in prospettiva e in uno stato in cui le sostanze neurochimiche legate allo stress sono soppresse, con tutti i benefici del caso", riassume Els van der Helm, primo autore dello studio.

Alla ricerca hanno partecipato 35 giovani, cui state mostrate immagini fortemente emotive, per due volte, a distanza di 12 ore l'una dall'altra, mentre la loro attività cerebrale veniva misurata con la risonanza magnetica. 

Quando ci troviamo nella fase dei sogni, spiegano i ricercatori, c'è un brusco calo nei livelli di norepinefrina, neurotrasmettitore del cervello associato allo stress. "Riprocessando, quindi, le esperienze emotive del giorno precedente in un ambiente 'sicuro', data la sua mancanza, ci svegliamo il giorno dopo e queste risultano ammorbidite nella loro forza emotiva. Ci sentiamo meglio, in grado di gestirle", spiega il professor Walker. 

L'intuizione è venuta quasi per caso, quando un collega medico gli ha riferito degli effetti benefici di un farmaco generico per il controllo della pressione sanguigna che, inavvertitamente, preveniva anche gli incubi in pazienti affetti da disturbo post-traumatico da stress. Uno degli effetti collaterali del farmaco è proprio quello di sopprimere la norepinefrina nel cervello, creando quindi una condizione di maggiore rilassamento durante il sonno Rem, riducendo incubi e favorendo un sonno maggiormente ristoratore.

(23 novembre 2011)

articolo completo al seguente indirizzo: http://www.repubblica.it/scienze/2011/11/23/news/sonno_rem_aiuta_dimenticare_dolore-25467330/index.html?ref=search

 
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QUANDO L'ANIMALE DIVENTA UN FAMILIARE

Post n°93 pubblicato il 28 Dicembre 2011 da iltuopsicologo1964
 

L'abitudine di trattare gli animali domestici come membri di famiglia è sempre più diffusa in Europa, anch'essa come Halloween e il fast food importata dagli Stati Uniti. Nelle case italiane, in particolare, vivono circa 20 milioni di pets e per il loro benessere i padroni spendono due miliardi di euro l'anno. Oltreoceano il fenomeno è talmente esasperato da aver di recente conquistato anche le pagine di Usa Today, che denuncia come siano sempre di più gli americani che trattano l'animale di casa come un essere umano.

Secondo un'indagine dell'American Pet Products Association, il 53 per cento dei proprietari di un cane e il 38 per cento di quelli di un gatto fa loro abitualmente regali per Natale e secondo un sondaggio della Kelton Research

commissionato dalla Milo's Kitchen, l'81 per cento dei cittadini Usa considera il pet un membro di famiglia, il 58 per cento li chiama a sé con nomignoli come "mommy" o "daddy", il 77 per cento fa loro regali per il compleanno e più della metà ammette di parlare di loro più spesso di quanto non faccia di sesso o politica.

Niente paura, però: gli esperti avvertono che i "pet-obsessed" non hanno nulla che non va. "La cosa peggiore che può succedergli - spiega Stanley Coren, professore emerito di psicologia presso la University of British Columbia - è arrivare a spendere 20 dollari per un collare". Il problema riguarda gli animali. Che, come spiega il il Presidente della Società Italiana di Etologia, Enrico Alleva, soffrono di queste situazioni.

"Quelli che vengono trattati come persone - commenta l'esperto - sono vittime dell'egoismo e dell'arroganza dei proprietari, che non a caso definisco così e non padroni. Il cane è un lupo addomesticato e pensare che possa trovare piacevole guardare la televisione come noi non ha senso. Situazioni di questo tipo spesso portano l'animale a sentirsi depresso, apatico e a ingrassare. Infondono in lui un profondo senso di malessere".

Secondo l'etologo, la cosa migliore che si può fare per andare incontro ai bisogni dell'amico domestico è leggere libri scientifici che parlino della sua specie e che spieghino come rispettarne al massimo la natura. Perché se è vero, come dice una ricerca della Miami University in Ohio, che chi ha un animale è più sereno di chi non lo ha, è anche attendibile quanto sostiene uno studio pubblicato su Public Health Nutrition, secondo cui i problemi psicofisici dei padroni contagiano velocemente gli amici a quattro zampe, portando ad esempio un cane ad ingrassare se anche il proprietario aumenta di peso.

Il legame tra essere umano e animale di casa è dunque talmente stretto e delicato che - precisano gli esperti - va maneggiato con cura. Senza dimenticare che per loro l'unico regalo appetibile, al di là di una ciotola di cibo, è la nostra compagnia.

(23 dicembre 2011)

articolo completo al seguente indirizzo:

http://www.repubblica.it/ambiente/2011/12/23/news/animali-27009879/index.html?ref=search

per approfondimenti: http://www.iltuopsicologo.it/Psicologia_scolastica_e_dell_et%C3%A0_evolutiva.asp

 
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I SENSI DI COLPA SONO PECULIARI DELLE DONNE

Post n°92 pubblicato il 28 Dicembre 2011 da iltuopsicologo1964
 

I sensi di colpa sono una brutta bestia: ci affliggono e rovinano la vita senza ritegno e, come se non bastasse, spesso sono anche ingiustificati. Infine, a mettere la ciliegina sulla torta, pare che a esserne più afflitte siano le donne che rispetto ai maschi ne soffrono con maggiore frequenza e intensità.

Ce n’è per tutti, sostengono gli psicologi, e per tutte le età. I sensi di colpa non fanno distinzione – se non quando si tratti di genere. In questo caso, come detto, sono le femmine a essere le vittime predilette.
«La nostra ipotesi iniziale era che i sentimenti di colpa sono più intensi tra le femmine, non solo tra gli adolescenti ma anche tra le donne giovani e adulte, che hanno anche mostrato i più alti punteggi nei confronti della sensibilità interpersonale», spiega la dottoressa Itziar Etxebarria, autore principale dello studio e ricercatore presso l’Università dei Paesi Baschi (UPV/EHU).

I ricercatori spagnoli hanno pubblicato i risultati del loro studio sullo Spanish Journal of Psychology dopo aver studiato i comportamenti di un nutrito gruppo di volontari di entrambi i sessi ed età diverse: 156 adolescenti, 96 giovani e 108 adulti.
L’indagine verteva sull’analisi della risposta emotiva alle diverse situazioni. I partecipanti dovevano così rispondere su quali situazioni il più delle volte avessero causato loro sensi di colpa e, in più, sottoporsi a una serie di test per valutate la sensibilità interpersonale. 

 Dai dati raccolti è emerso che il punteggio era significativamente più alto per le donne che non per gli uomini. L’intensità mostrata dai punteggi, poi, differiva in base all’età: in particolare era maggiormente presente nella fascia di età tra i 40 e i 50 anni.
Se poi si confrontavano i dati tra maschi e femmine, appariva evidente come sia le adolescenti che le giovani donne fossero decisamente più sensibili al sentirsi in colpa che non i maschi della stessa età. Questa situazione, secondo la ricercatrice, può, tra gli altri, essere ricercata nell’educazione cui sono soggette ancora oggi le donne. Un’educazione che, all’apparenza, ha perduto molti dei tabù che legavano le donne a determinate condizioni ma che, nei fatti, è ancora radicata in molte famiglie.

Ecco quindi che, volenti o nolenti, molte donne si ritrovano a dover fare i conti con la propria coscienza alimentata, fin da piccole, con il cibo della colpa. Questi sensi di colpa affiorano così, senza che consciamente lo si voglia, ma hanno ancora il potere di complicare la vita – specialmente quando ingiustificati.
Certo, questo non vuole dire che bisogna per forza essere cinici: un po’ di “sano” senso di colpa, quando necessario potrebbe anche starci, ma quando è solo frutto di convinzioni o educazione errate allora…

articolo completo al seguente indirizzo: http://www3.lastampa.it/benessere/sezioni/lifestyle/articolo/lstp/423349/

per approfondimenti. www.maldamore.it

 
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LA VITA COMINCIA VERSO I 40 ANNI

Post n°91 pubblicato il 28 Dicembre 2011 da iltuopsicologo1964
 

C’è chi, in età adulta, rimpiange la spensieratezza degli anni passati; chi, invece, in età adolescenziale, ha fretta di crescere. Ma qual è, allora, l’età migliore? L’età di cui, in genere, sono tutti d’accordo essere quella in cui si sta bene e che si vorrebbe fermare il tempo? Bloccare istanti preziosi, come si fa con una foto?

Secondo un sondaggio britannico, la vita comincia intorno ai 40 anni, ma il culmine massimo nella nostra esistenza avverrebbe intorno ai 38 anni.
Si tratta di un’età in cui sembra che la gente riesca a rapportarsi meglio con il prossimo e che si sentirebbe a suo agio socialmente come non lo è mai stata prima e mai lo sarà dopo.
Ma la salita verso l’età dell’oro inizia con il raggiungere degli “enta”. Le donne, per esempio, iniziano invece a essere più soddisfatte del loro aspetto fisico intorno ai 31 anni, mentre gli uomini, mediamente, lo sono intorno ai 32. In accordo, entrambi i sessi, lo sono per quanto riguarda l’aspetto sessuale: su questa prospettiva infatti condividono l’idea che solo intorno ai 35 anni ci si senta più sicuri.

L’indagine, condotta dall’Huffington Post, mostra come le persone più giovani, in particolare i ventenni, siano ancora in prevalenza molto immaturi e invidiosi dei loro amici. Per loro sembra essere più importante il denaro, i beni materiali della salute. Secondo gli esperti a quell’età ancora non si comprenderebbe l’essenzialità della vita, dei rapporti sociali e dell’amore.
Tuttavia pare esista un modo infallibile, secondo il sondaggio, per non avere paura di invecchiare: avere un partner stabile o, ancor meglio, sposarsi. Le persone sposate allungano di po’ l’età ideale, affermando di raggiungere il culmine della loro esistenza poco dopo: intorno ai 42 anni – probabilmente anche a causa delle responsabilità in più che si hanno. Oppure il dovere imparare a convivere anche con quei piccoli esserini che orbitano intorno ai genitori.

articolo completo al seguente indirizzo:
http://www3.lastampa.it/benessere/sezioni/lifestyle/articolo/lstp/427648/

per approfondimenti http://www.iltuopsicologo.it/

 
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ESPORSI ALLA LUCE PER COMBATTERE LA DEPRESSIONE AUTUNNALE

Post n°90 pubblicato il 24 Novembre 2011 da iltuopsicologo1964
 

In autunno, si sa, molte persone vivono una sorta di depressione.
Le giornate si accorciano, aumenta il freddo e diminuisce il tempo in cui si può stare all’aperto durante il tempo libero. E così che si innesca quella che viene chiamata SAD, ovvero la sindrome da disturbo affettivo stagionale.

Tale sindrome sembrerebbe presentarsi sempre in questa stagione proprio a causa della diminuzione delle ore di luce. Quale terapia migliore, dunque, se non proprio quella della luce? Ovviamente non si possono allungare le giornate né tantomeno renderle più luminose, tuttavia pare si possano utilizzare delle apposite luci per star meglio.
Tra i sintomi della SAD si considerano anche la letargia, la mancanza di interesse verso il sesso, disturbi del sonno ecc. Le persone colpite, secondo dati britannici, sarebbero una percentuale abbastanza alta: il 17% delle persone. Mentre a una percentuale più ridotta (circa il 7%), si presentano sintomi molto più lievi, che prendono il nome di “winter blues”.

La soluzione, comunque, è uguale per tutti: si chiama Light cafés e si tratta di una terapia basata sull’installazione di luci che arrivano fino a 3.000 lux (misura della luminosità).
Secondo Victoria Revell, esperta di cronobiologia all’Università del Surrey, «Si tratta di benefici sia fisiologici che sociali. Utilizzando la terapia della luce in questo modo si può aiutare il nostro sonno, i livelli di energia e migliorare le nostre prestazioni».
Durante i mesi freddi, per via della ridotta quantità di luce, il nostro corpo produce una quantità eccessiva di melatonina, e riduce drasticamente quella della serotonina – l’ormone che ci aiuta a sentirci meglio interiormente.

«Un ruolo chiave della luce è quello di sincronizzare il nostro orologio circadiano per 24 ore al giorno», aggiunge Revell. E’ dunque evidente che le persone che soffrono di SAD hanno bisogno di quantità maggiori di luce per regolare il loro orologio biologico.
Oltre alla luce, spiegano gli esperti, l’ideale è nutrirsi di cibi del “buonumore” come il cioccolato, l’avena, i datteri, le banane, le noci, il latte, carboidrati derivanti da farine integrali e le uova. Quello che rimane sempre in pole position, nell’alleviare tali disturbi, resta sempre il buon vecchio cioccolato. Alimento che contiene molto triptofano, sostanza stimolante la produzione di serotonina nel corpo.
Infine, l’ultimo consiglio è quello di stare il più possibile all’aperto nelle ore più calde e luminose della giornata. Senz’altro la luce naturale è ancora meglio di quella artificiale.

Fonte ed articolo completo al seguente indirizzo : http://www3.lastampa.it/benessere/sezioni/salute/articolo/lstp/428558/

Per approfondimenti: http://www.iltuopsicologo.it/test_depressione.php

 
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LE REGOLE DELLO SHOPPING 'TERAPEUTICO'

Post n°88 pubblicato il 24 Novembre 2011 da iltuopsicologo1964
 

Il dilemma tra spendere e risparmiare e se i soldi facciano o meno la felicità sono stati al centro dell'attenzione di psicologi e sociologi, con montagne di carta e, talvolta, qualche banalità. Oggi, tra disoccupazione e precariato, c'è poco da andare per il sottile e stare a sentire storie di miliardari depressi non è certo di grande consolazione. Detto questo, alcuni piccoli trucchi per essere più sereni con quello che si ha ci sono, con i conseguenti vantaggi sia per il cervello che per il fegato. L'ultima guida allo "spendere sano" è in arrivo sul Journal of Consumer Psychology: otto regole per acquistare stando bene e trasformare i soldi in (vero) benessere. Il segreto? Puntare sulle esperienze piuttosto che sui beni materiali, pensando un po' anche agli altri.

1) Prima le esperienze, poi le cose. Secondo la guida, realizzata congiuntamente da studiosi della University of British Columbia, della Harvard University e della University of Virginia, il primo punto consiste nel privilegiare l'acquisto di esperienze piuttosto che di beni materiali. "La ragione  -  spiega da Vancouver Elizabeth W. Dunn  - 

è molto semplice: tendiamo ad abituarci alle cose molto più velocemente di quando accada per le esperienze". Secondo la ricercatrice  -  esperta in "miraggi" come felicità, auto-conoscenza e previsioni affettive - l'acquisto di esperienze come un viaggio o un corso di cucina dà benefici molto più duraturi rispetto, ad esempio, a un parquet in legno di ciliegio o a una pregiata bottiglia di Barolo. A riprova della sua tesi ci sono i numeri: su un campione di oltre 1.000 americani, quasi il 60% ha ammesso di aver tratto più piacere da una cosa "vissuta" piuttosto che "posseduta". "Con i cosiddetti acquisti esperienziali scatta il meccanismo della rivisitazione mentale", prosegue Dunn. "Torniamo più spesso con la mente a un concerto o a un'escursione piuttosto che a un paio di scarpe. D'altronde, le esperienze sono intimamente connesse alle nostre identità e al tempo che passiamo con gli altri, che alla fine sono la nostra più grande fonte di gioia".

2) Pensare agli altri, piuttosto che a se stessi. Non a caso, il secondo punto è dedicato proprio alle spese che facciamo per gli altri, sia in senso di regali a persone care che di beneficenza. Secondo Daniel T. Gilbert, psicologo di Harvard e autore dello studio insieme a Dunn e Timothy D. Wilson, la qualità delle nostre relazioni ha un ruolo fondamentale nel determinare il nostro grado di benessere. Una ricerca condotta nel 2008 proprio da Dunn e colleghi mostra come le spese pro-sociali (regali e donazioni) siano legate a un maggiore livello di soddisfazione e felicità. Il fenomeno  -  sostengono gli studiosi - trova riscontro anche a livello neuronale. In un altro studio, infatti, alcuni partecipanti sono stati sottoposti a risonanza magnetica funzionale: dall'esame è emerso che la decisione di donare dei soldi a una banca del cibo locale era accompagnata dall'attivazione dei neuroni in parti del cervello tipicamente associate alla gratificazione e al ricevimento di un premio o un riconoscimento. "Per quanto banale possa sembrare, siamo gli esseri più sociali del nostro pianeta: solo altri tre animali ci fanno concorrenza  -  le termiti, gli insetti eusociali e le talpe senza pelo. Forse il vero problema è che non siamo in grado di ammettere quanto, in realtà, la nostra felicità dipenda dagli altri", suggeriscono gli studiosi.

3) Meglio i piccoli piaceri dei "colpi di testa". Per non rischiare di far somigliare troppo la loro guida al manuale del buon samaritano, Dunn e colleghi ammettono l'importanza di concedersi, di tanto in tanto, un lusso. Il consiglio, tuttavia, è di non puntare sui grandi acquisti, quanto piuttosto su piccole spese frequenti, capaci di regalarci qualcosa di diverso ogni volta. "La tendenza ad abituarsi alle cose è un po' come la morte", sentenziano gli studiosi. "La temiamo, la combattiamo, a volte riusciamo a posticiparla, ma alla fine perdiamo sempre. Lo stesso vale per l'abitudine: se inevitabilmente tendiamo ad assuefarci ai lussi più grandi che si possono comprare con i soldi, tanto vale optare per una varietà di piccoli piaceri capaci di ripagarci con la loro frequenza". Evitando i "colpi grossi", inoltre, si è meno soggetti al fenomeno noto come "diminuzione dell'utilità marginale", in base al quale  -  spiega ancora Dunn - "mangiare dodici biscotti non dà due volte più piacere rispetto a mangiarne sei". "In termini tecnici  -  prosegue la ricercatrice  -  potremmo dire che l'impatto edonistico di un bene materiale o di un'esperienza diminuisce dopo che di quel bene si è già avuto un assaggio. Per questo segmentare e isolare l'esperienza del consumo può aiutare a sentirsi più felici".

4) Se la garanzia diventa un boomerang. Spesso presentate come le migliori amiche del cliente, queste forme di assicurazione contro gli acquisti sbagliati (in stile "soddisfatto o rimborsato" oppure "trenta giorni di prova") possono trasformarsi, secondo gli studiosi, in sanguisughe della felicità. La tesi è che gli esseri umani siano dotati per natura di un meccanismo di ridimensionamento dell'infelicità, per cui l'acquisto di garanzie estese e altre forme di rimborso della merce possa essere in realtà "una protezione emotiva non necessaria". "Molti consumatori  -  spiega  Wilson  -  sono disposti a pagare prezzi anche elevati pur di ridurre il rischio di pentirsi in futuro, ma diversi studi mostrano le falle di questo approccio". Sapere di poter cambiare un bene in qualsiasi momento, infatti, potrebbe minare alle basi il beneficio emotivo derivante dall'impegno di "fare un acquisto", collocando il consumatore in una dimensione iper-protetta simile a una bolla di sapone.

5) Dilatare il consumo nel tempo. Introducendo l'euristica del "compra ora, paga più tardi", le carte di credito hanno favorito una delle rivoluzioni più significative nella storia del nostro sistema economico. Eppure quel cambiamento, secondo Dunn e colleghi, danneggia in almeno due sensi il benessere dei consumatori. "Il primo, più scontato, è che può indirizzare verso comportamenti poco lungimiranti, come la tendenza ad accumulare debiti e a non mettere da parte nulla per la pensione", spiegano i ricercatori. L'altro senso, più sottile, si esplica a livello cerebrale. "E' un principio che elimina del tutto il meccanismo dell'anticipazione, che è una fonte di felicità gratuita", spiega Dunn. Numerosi studi, infatti, mostrano che spesso gran parte della felicità connessa a una spesa dipende del pensiero dell'esperienza futura, più che dal consumo in sé. Ciò che è vero per una vacanza  -  argomentano  -  vale anche per un concerto, una partita, un'ordine di libri. D'altronde, cullare il progetto di un viaggio non è forse parte del viaggio stesso?

6) La felicità è nei dettagli. Più che a un principio, il sesto punto somiglia a un monito: "Attenzione a non farsi abbagliare dai grandi acquisti e tenere sempre in mente i dettagli, ossia come un bene può influenzare a livello pratico la vita di tutti i giorni". Il riferimento, in questo caso, è agli acquisti più impegnativi, come auto, case, prodotti di lunga durata. "Molte volte i consumatori si aspettano che un singolo acquisto possa avere un impatto duraturo sulla loro felicità, per poi rendersi conto, miseramente, che non è così. Per evitare le brutte sorprese è importante avere sempre in mente la propria giornata-tipo e come il nuovo acquisto potrebbe nei fatti modificarla".

7) Apprendere l'arte della comparazione. Con il successo di siti come bitzrate. com, che al motto inquietante di "Cerca. Compra. Conquista" vanta la bellezza di 20 milioni di visitatori al mese, fare shopping ai tempi di internet può essere allo stesso tempo una croce e una delizia. Come al solito, la virtù sta nel mezzo, ossia nel saper comparare in maniera intelligente. "Il pericolo  -  spiegano gli autori  -  è quello di farsi sommergere dalle differenze tra un prodotto e l'altro, finendo per sovrastimare l'impatto edonistico dell'oggetto in sé". Sì dunque al "comparison shopping", ma senza pretendere di voler fare l'affare perfetto.

8) Fidarsi dei consigli altrui. L'ultimo principio, infine, torna sull'importanza degli altri e il consumo sociale. "Molto spesso le spese che possono farci più felici sono quelle che hanno fatto felici altri prima di noi", concludono Dunn e colleghi. Da questo punto di vista la rete è certo un patrimonio di risorse, ma mai quanto possono esserlo i consigli delle persone che ci vogliono bene e sanno, ad esempio, se stiamo comprando qualcosa per colmare un vuoto affettivo. In questo caso non c'è bene materiale che tenga, una chiacchierata con un buon amico varrà sempre di più.

Fonte ed articolo completo al seguente indirizzo:

http://www.repubblica.it/scienze/2011/04/07/news/consumi_felicit-14575820/

Per approfondimenti : http://www.iltuopsicologo.it/Dipendenza_da_Shopping_Compulsivo.htm

 

 
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UN CONFLITTO INTERIORE PUO' FAR NASCERE L'ANORESSIA

Post n°87 pubblicato il 24 Novembre 2011 da iltuopsicologo1964
 

Un conflitto interiore, questo potrebbe essere il motivo per cui si sviluppa uno dei più gravi e drammatici disturbi alimentari: l’anoressia.
Secondo un nuovo studio britannico, capire cosa si cela dietro all’anoressia nervosa è indispensabile per poter offrire un reale e concreto aiuto a chi ne soffre, e saper discernere quando si debba optare o meno per il trattamento forzato.

I ricercatori hanno coinvolto in questo studio 29 donne in cura per anoressia nervosa. Alle partecipanti hanno sottoposto un questionario a cui dovevano rispondere e che conteneva domande su come loro vedessero la propria condizione, in che misura la comprendessero, cosa provassero nei confronti del trattamento forzato e, infine, come la malattia influisse sul processo decisionale.
La sorpresa è arrivata dalle risposte: nonostante i ricercatori non avessero incluso domande che riguardavano l’identità e l’autenticità di sé, la quasi totalità delle partecipanti ha citato il rapporto che avevano con se stesse e il proprio reale o autentico sé, in contrasto con un sé sentito come non vero.

Quello che è quindi emerso è stato come molte delle pazienti vedessero l’anoressia nervosa come un qualcosa di separato dal loro vero Io. Di queste, alcune hanno espresso l’idea che vo fosse una vera e propria lotta di potere tra il sé reale e quello falso.
Una condizione comune è quella che vede le pazienti sentirsi soccombere durante questa lotta, e ritenere che gli altri potrebbero fornire loro un supporto per consentire all’autentico sé di acquistare forza per combattere in questa guerra.

Dopo la sorpresa, il sentimento suscitato nei ricercatori è stato la speranza. Difatti, secondo loro, il vedere la malattia come un qualcosa separato dal proprio autentico sé da parte delle pazienti può essere importante per chi deve offrire una speranza alle persone sofferenti di anoressia.
«Concettualizzare il comportamento anoressico come parte inautentica del sé può essere per molti una strategia valida nel contribuire a superare [il conflitto]», scrivono gli autori dello studio, aggiungendo che la distinzione tra un sé autentico e uno non autentico non è necessariamente la stessa cosa di una mancanza di capacità decisionale e non può giustificare il prevalente rifiuto del paziente nei confronti del consenso al trattamento. Tuttavia, i ricercatori ritengono che i risultati forniscono i motivi per non avallare semplicemente il rifiuto di aiuto.

In sostanza, i ricercatori sostengono che l’anoressia nervosa possa essere segno di un conflitto interiore e che, questo, possa in certe circostanze impedire alla persona di esprimere questo sentimento intimo. Da qui, la necessità di agire con il trattamento quando la paziente non sia in grado di comprendere quanto sta accadendo. «Alcune autorità affermano che il trattamento forzato non dovrebbe mai essere utilizzato per l’anoressia nervosa. Crediamo, tuttavia, che dovremmo prendere sul serio la possibilità che una persona in preda all’anoressia nervosa possa avere esperienza di un sostanziale conflitto interiore, anche se la persona non può esprimere questo sentimento in quel momento. Forse la prova da questi studi è sufficiente per ignorare il rifiuto di trattamento nel migliore interesse delle persone», concludono i ricercatori.
A parte il trattamento forzato, suggerito dai ricercatori, forse sarebbe il caso di esplorare meglio il perché di questo conflitto interiore e tra sé autentico e no e, magari, da questo riuscire a trovare il modo per guarire.

Fonte ed articolo completo al seguente indirizzo : http://www3.lastampa.it/benessere/sezioni/medicina/articolo/lstp/431380/

Per approfondimenti: http://www.iltuopsicologo.it/Anoressia.htm

 
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APERTURA BLOG SULLA CINETERAPIA

Post n°86 pubblicato il 26 Ottobre 2011 da iltuopsicologo1964
 

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UNA DIETA CONTRO LA DEPRESSIONE

Post n°85 pubblicato il 26 Ottobre 2011 da iltuopsicologo1964
 

C’è un nesso tra dieta e benessere della psiche. I cibi che assumiamo ogni giorno possono avere una influenza sull’umore e un ruolo nella depressione – vera e propria malattia sempre più diffusa nella società moderna.

In inglese, “food” fa rima con “mood” che significa “umore”, come a rimarcare il legame tra cibo e umore appunto. Non a caso, è già da tempo che nutrizionisti e psichiatri concordano sul potenziale ruolo attivo che gli elementi che compongono gli alimenti hanno nei confronti della nostra psiche, e dunque non solo sul fisico.
Se quindi da un lato il cibo serve a sostenerci materialmente, dall’altro agisce allo stesso modo a livello emozionale influenzando in positivo o negativo anche l’umore.

In tutto questo, giocherebbero un ruolo di primo piano gli antiossidanti. E, a rimarcarlo è l’Osservatorio AIIPA (Associazione Italiana Industrie prodotti Alimentari – Area Integratori Alimentari) insieme al  professor Giovanni Scapagnini, biochimico clinico dell’Università del Molise. L’accento è posto su alcune evidenze scientifiche relative al ruolo e alle proprietà benefiche degli antiossidanti.
«Fino a ora gli studi scientifici alla base di questa teoria si sono concentrati sulla capacità di alcuni alimenti di modulare il rilascio e la sintesi dei neurotrasmettitori responsabili del tono dell’umore, quali serotonina, dopamina e noradrenalina – spiega Scapagnini – Nell’ambito dell’ultimo congresso della Società Europea di Neuro Farmacologia, che si è da poco concluso a Parigi, è stato posto invece l’accento su un’altra possibile via di influenza degli alimenti sulla sfera psichica: l’apporto di sostanze antiossidanti e il loro ruolo sul benessere mentale».

Il Congresso di Parigi ha visto anche la partecipazione del professor Michael Maes (*), il quale ha presentato numerosi dati sperimentali e clinici sull’effetto degli antiossidanti nutrizionali sui disturbi del comportamento. Lo stesso Maes è stato uno dei primi scienziati a dimostrare come vi fosse un nesso di causa tra lo stress ossidativo a livello cerebrale e la depressione.
Altri studi, pubblicati di recente, hanno dimostrato la capacità della vitamina E e la vitamina C – note antiossidanti –  di ridurre i sintomi depressivi. Inoltre, diversi polifenoli vegetali come per esempio la curcumina e le catechine del tè, hanno altresì dimostrato la capacità di ridurre disturbi del comportamento. Questa azione sull’umore e sul comportamento è stata associata alle proprietà antiossidanti e antinfiammatorie di questi composti.

Due anni fa circa è stato uno studio spagnolo (SUN), condotto dall’Università di Navarra, a dimostrare come seguire la dieta mediterranea e una corretta assunzione di sostanze nutrizionali ad azione antiossidante svolga un ruolo benefico nei confronti dell’insorgenza di disturbi depressivi nella popolazione sana. Un recente lavoro tutto italiano e sviluppato nell’ambito dello studio InChianti, è stato condotto in Toscana su una popolazione di circa 1.000 anziani. Questo studio ha evidenziato come una scarsa assunzione di carotenoidi attraverso la dieta e un basso livello nel sangue di queste sostanze, sia fortemente associato a un maggior rischio di sviluppare una sindrome depressiva.

Lo stesso disturbo bipolare, risente degli affetti della dieta, come rimarcato da uno studio pubblicato sul Journal of Affective Disorders. Lo ha presentato il professor Berk, dell’Università australiana di Melbourne, dimostrando come l’N-acetil-cisteina, un integratore antiossidante precursore del glutatione, somministrato a persone con disturbo bipolare, sia più efficace dei farmaci antidepressivi nel ridurre la sintomatologia depressiva.
«Ciò che risulta da questi studi è che una “dieta della felicità” dovrebbe sicuramente contemplare un’adeguata assunzione di sostanze, come quelle presenti in frutta e verdure, in grado di ridurre stress ossidativo e infiammazione a livello cerebrale», conclude Scapagnini.
In sostanza, se l’umore va giù, tiriamolo su con una bella mangiata… che sia sana però.
[lm&sdp]

(*) Director Clinical Research Center for Mental Health (CRC-MH) vzw (Klinisch Onderzoekscentrum Geestelijke Gezondheidszorg), OCMW, Antwerp, Belgium.

Source: Ufficio Stampa AIIPA – Ketchum

Articolo completo al seguente indirizzo: http://www3.lastampa.it/benessere/sezioni/alimentazione/articolo/lstp/426557/

per approfondimenti: http://www.iltuopsicologo.it/test_depressione.php

 
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UOMINI E DONNE SONO UGUALI NEI COMPORTAMENTI SESSUALI

Post n°84 pubblicato il 26 Ottobre 2011 da iltuopsicologo1964
 

Negli ultimi 20 anni, molti studi hanno dimostrato che, quando si tratta di sesso, maschi e femmine pensano e agiscono in modo simile.

I 'miti' del diverso approccio dei generi (lui più interessato al sesso, lei all'amore e così via) sono dunque destinato ad essere soppiantati dalla schiettezza della ricerca che, una volta tanto, vede i dati provenienti da più laboratori andar tutti nella stessa direzione.

Ad aver tirato le file di queste ricerche è l'Università del Michigan di Ann Arbor (Stati Uniti), con uno studio condotto dal dottor Terry Conley e pubblicato su Current Directions in Psychological Science, la rivista dell'Associazione per le scienze psicologiche.

L'analisi di Conley ha preso come primo punto di riferimento lo stereotipo che gli uomini pensano al sesso di più delle le donne, cercando riscontro della teoria in due decenni di ricerche sul comportamento degli esseri umani. Dopo aver notato che non esiste, a livello scientifico, nessuna conferma di questo mito popolare, Conley ha concluso che "le differenze di genere non devono esser prese alla lettera per quanto riguarda la sessualità", e ha poi demolito uno per uno sei luoghi comuni sul rapporto di uomini e donne con amore e sesso.

Il più diffuso è quello secondo cui gli uomini vogliono una compagna sexy e le . Che così non è, spiega Conley, lo ha dimostrato, nel 2008, uno studio della Northwestern University pubblicato sul Journal of Personality and Social Psychology, che ha usato la formula dello 'speed dating', ossia degli 'incontri lampo programmati', per scoprire che, al momento di scegliersi, uomini e donne sono imprevedibili allo stesso modo, non seguono regole e spesso si sentono attratti da un partner che sulla carta non rispecchia nessuna delle proprie aspettative. 

Altro luogo comune sfatato è che i maschi siano promiscui e le donne monogame. In effetti i primi, se interrogati sull'argomento, affermano di praticare il sesso più spesso e con più partner rispetto alle seconde. Tuttavia, uno studio condotto nel 2003 dagli psicologi Terri Fisher dell'Ohio State University e Michele Alexander dell'università del Maine ha rivelato che queste differenze sono dovute al fatto che le donne non sempre rispondono onestamente alle domande sul sesso.

"Sono sensibili alle aspettative sociali riguardo al loro comportamento - spiega Fisher - e potrebbero non essere del tutto oneste se interrogate sulle proprie abitudini sessuali". Il presidente dell'Istituto italiano di sessuologia scientifica Fabrizio Quattrini spiega: "Oggi uomini e donne hanno uguali desideri ma i primi continuano a pavoneggiarsi delle possibili conquiste, mentre le seconde furbamente collezionano esperienze tenendole tutte per sé. Gli uomini stereotipicamente restano agganciati al desiderare più donne (solo nel pensiero) ma poi difficilmente si vedono all'interno di un tradimento, mentre le donne, pur non promuovendo una campagna a favore delle conquiste, sono le prime a confessare eventuali tradimenti".

Secondo uno studio della Ohio State University di Mansfield, anche quella che gli uomini pensano al sesso ogni sette secondi sarebbe una leggenda metropolitana. Gli studenti universitari, scrivono gli scienziati, fantasticherebbero sul coito appena 18 volte al giorno (contro le 10 delle donne) e ci penserebbero con la stessa frequenza con cui rimuginano su cibo e sonno. Dunque sarebbero, a detta degli studiosi, più salutisti che sessuomani. "In effetti però - precisa la Tiberi - gli uomini sono più portati a pensare al sesso, perché nel sesso maschile ciò non è collegabile ad alcun moralismo. Per gli uomini è possibile avere pensieri sessuali senza vivere sensi di colpa. Nelle donne questa libertà ancora non esiste".

L'analisi di Conley e colleghi ha anche sfatato il mito della problematicità dell'orgasmo femminile, ricordando uno studio pubblicato nel libro "Families as They Really Are" (W.W. Norton and Co., 2009) e condotto chiedendo a 12.925 persone di parlare della propria vita sotto le lenzuola: dalle risposte è emerso che nelle relazioni stabili le donne nel 79% dei casi raggiungono il piacere tanto quanto l'uomo.

donne un partner benestante

Penultimo mito da sfatare: secondo la tradizione, il sesso occasionale piacerebbe più ai maschi che al gentil sesso. Falso anche questo. In un esperimento condotto nel 1989 dai ricercatori Rusell Clarck ed Helaine Hatfield era stata provata l'esistenza di una differenza di genere nella risposta agli approcci casuali (il 75% degli uomini avvicinati da una sconosciuta avevano acconsentito alla possibilità di farci sesso, mentre la percentuale di donne "disponibili" all'avventura di una notte con uno sconosciuto era dello 0%), e questa differenza poteva essere spiegata, secondo i ricercatori, col fatto che donne e uomini attribuissero, per motivi psico-biologici, un significato diverso alla cosa.

Secondo Conley invece le donne dicono di no solo perché sono più selettive: saprebbero insomma riconoscere a vista d’occhio un partner sessualmente poco soddisfacente. Questo comportamento, spiega lo studioso, ha origine nella loro minore capacità di raggiungere un orgasmo, il quale dipende in gran parte dalle doti amatorie dell'uomo. La 'Pleasure Theory', dunque, dice che uomini e donne agiscono entrambi in base alla ricerca dell'occasione in cui provare il massimo piacere. "E' sempre un gioco delle parti", precisa la Lucattini. "Le donne sono spesso molto attive nell'essere 'cacciate' e far sentire l'uomo 'predatore'. Vi è in loro un grande piacere nel gestire e organizzare dietro le quinte l'occasionalità delle relazioni maschili, facendo apparire le proprie molto più stabili di quello che non siano in realtà".

Infine, la capacità di scegliere accuratamente il partner e conquistarlo, fin qui riconosciuta più alle femmine che ai maschi. Nel 2009 Eli Finkel, ricercatore della Northwestern University, ha invece dimostrato su Current Directions in Psychological Science che entrambi i sessi sono abili a costruire il rapporto con la persona desiderata, autoimponendosi piccoli sacrifici e attuando il cosiddetto 'effetto Michelangelo', ovvero il raggiungimento dell'intesa a colpi di scalpello, come si fa con una scultura.

Secondo la ricerca, uomini e donne sarebbero dunque entrambi esigenti, perseveranti e pignoli quando si tratta di scegliere il partner, e lo scettro di 'cacciatrici perfette' non spetterebbe alle rappresentanti del sesso femminile.

Articolo completo al seguente indirizzo http://www.repubblica.it/salute/medicina/2011/10/24/news/differenze_sesso-23635729/?ref=HRERO-3

per approfondimenti http://www.iltuopsicologo.it/anoressia_e_bulimia_sessuale.htm

 
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APERTURA BLOG SULLA CINETERAPIA SULL'AMORE

Post n°83 pubblicato il 24 Ottobre 2011 da iltuopsicologo1964

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GLI SMEMORATI NON ESISTONO

Post n°82 pubblicato il 24 Ottobre 2011 da iltuopsicologo1964

IL NOSTRO CERVELLO è molto più esigente e perfezionista di noi. E per dare la risposta giusta ha bisogno della domanda giusta, specialmente quando si tratta di memoria. Secondo la scienza, tutte le volte che alla domanda "Ricordi...?" rispondiamo con un no secco, è matematicamente impossibile che ciò corrisponda a verità, perché la mente conserva sempre, anche in modo fugace, l'impronta di ciò che ha visto, sentito, toccato.

La convinzione di aver rimosso un ricordo nasce dal fatto che i neuroni, in certi casi, non trovano informazioni sufficienti a ricostruire un'immagine e, a una domanda puntuale come "Ricordi il volto di quel passante?", rispondono prudentemente di no. Basterebbe porre il quesito in modo diverso, lasciando un margine di elasticità alla risposta ("Sei proprio sicuro di non ricordare?" - "Pensi di poter definire anche un solo particolare?") per spingere la mente sulla buona strada e incoraggiarla a recuperare ciò che solo apparentemente ha scordato.

Una conclusione, quella dei ricercatori israeliani della Hebrew e della Bar-Ilan University, che potrebbe tornare utile alla polizia nell'identificazione di un criminale, e infondere nuova fiducia in chi è convinto di essere smemorato, poiché in fondo per ricordare basta rilassarsi e porsi domande appropriate.

La ricerca, di prossima pubblicazione su

Psychological Science, la rivista dell'associazione americana di psicologia, è stata condotta da Yaakov Hoffman, Anat Maril e Oded Bein con un esperimento semplice, facendo sedere dei volontari di fronte a un computer e scorrere sullo schermo delle parole per un quarto di secondo l'una. Quelli che avevano la possibilità di rispondere solo con un "sì" o con un "no" affermavano istintivamente di non ricordare nulla, mentre chi aveva a disposizione quattro opzioni ("Certo che sì", "E' probabile", "Non credo" e "Assolutamente no") dimostrava una memoria fotografica.

"E' chiaro che il modo in cui si risponde a una domanda dipende in gran parte da quante opzioni vengono offerte per la risposta", spiega Antonino Vallesi, ricercatore di neuroscienze cognitive presso la Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (Sissa-Isas). "Se si ha un'opzione categorica binaria, del tipo 'ricordo/non ricordo' - continua - si opta per il 'non ricordo' con una frequenza relativamente alta. In psicologia sperimentale, un sistema piú adatto a valutare il grado di ricordo è quello del 'remember/know', in cui vengono solitamente date tre opzioni di risposta: 'Si, mi ricordo bene' (remember), 'Ho un senso di familiaritá ma non ricordo i dettagli' (know) e 'Non ricordo affatto' (new)".

Ancora più adatti a rilevare anche fievolissimi segni di memoria sono gli 'interrogatori' in cui si chiede anche di indicare quanto si è sicuri della risposta che si fornisce. "Tuttavia - conclude Vallesi - il senso di familiarità porta spesso alla creazione di falsi ricordi, e si recupera sì un'informazione, ma ricostruendo il contesto e i dettagli in maniera sbagliata".

(26 settembre 2011)

Articolo completo al seguente indirizzo:

http://www.repubblica.it/salute/ricerca/2011/09/26/news/domande_memoria-22223471/index.html?ref=search

 
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ESISTE L'INTERRUTTORE ANTIDEPRESSIONE

Post n°81 pubblicato il 03 Novembre 2010 da iltuopsicologo1964
 

Un "pulsante" per cancellare la depressione. E' quanto sarà possibile in un prossimo futuro, in seguito ad uno studio effettuato dagli scienziati della Yale University. Secondo questa ricerca, infatti, c'è un interruttore molecolare che ha un ruolo chiave nella depressione e che potrebbe divenire il bersaglio d'azione di una nuova classe di farmaci antidepressivi. La scoperta, annunciata sulla rivista Nature Medicine, è frutto del lavoro svolto dall'Università americana sul cervello di 21 pazienti depressi deceduti, confrontato col cervello di 18 individui sani.

Si tratta del gene che produce una molecola che disattiva un processo vitale per la sopravvivenza e la funzionalità dei neuroni, favorendo in questo modo la comparsa di sintomi depressivi. I ricercatori di Yale, coordinati da Ronald Duman, hanno rilevato che nel cervello dei depressi c'è una quantità di questa proteina, la 'MKP-1', più che doppia rispetto alla concentrazione di questa molecola nel cervello degli individui sani.

La depressione è un disturbo complesso e pieno di sfaccettature, che si manifesta con sintomi più o meno gravi.
Forse è proprio per questo che i farmaci oggi in uso, che peraltro impiegano alcuni mesi prima di iniziare a manifestare un effetto, sono efficaci solo sul 60% dei pazienti.

Gli esperti hanno rilevato che la molecola MKP-1 è presente in quantità eccessiva nel cervello dei depressi e hanno visto che questa molecola è un interruttore che spegne un'altra molecola chiave per la sopravvivenza e il corretto funzionamento dei neuroni, la 'MAPK'.

Che MKP-1 giochi un ruolo chiave nella depressione lo hanno dimostrato in particolare i test sugli animali: rendendo inattiva la MKP-1 nel loro cervello, questi diventano resilienti (cioè totalmente immuni) allo stress; viceversa, iperattivando la MKP-1 i topolini iniziano a manifestare i segni del disturbo depressivo. Tutto ciò fa sperare nella possibilità di produrre una nuova classe di farmaci contro la depressione.

articolo completo al seguente indirizzo: http://www.repubblica.it/scienze/2010/10/17/news/l_interruttore_antidepressione-8158270/

per approfondimenti: http://www.iltuopsicologo.it/la_depressione.asp

(17 ottobre 2010)

 
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IL LATO POSITIVO DELLA RABBIA

Post n°80 pubblicato il 03 Novembre 2010 da iltuopsicologo1964
 

In genere si ritiene che la rabbia sia un sentimento esclusivamente negativo, ma in realtà ha alcuni aspetti positivi, secondo quanto risulta da una ricerca condotta presso l'Università di Utrecht e pubblicata sulla rivista Psychological Science. Questa emozione, in particolare, attiva un'area nell'emisfero sinistro del cervello che è associata a diverse emozioni positive e, al pari di queste, può motivare le persone a ottenere qualcosa.

"Solitamente le persone sono motivate a fare qualcosa o a ottenere qualcosa perché rappresenta una ricompensa. Ciò significa che l'oggetto è positivo e rende felici", osserva Henk Aarts, primo firmatario dell'articolo, in cui è descritta la ricerca volta a indagare il possibile legame fra rabbia e desiderio di ottenere qualcosa.

Nello studio ogni partecipante osservava un monitor su cui apparivano le immagini di diversi oggetti comuni, come una tazza o una penna. Tuttavia, appena prima di ciascuna immagine di oggetti appariva per un tempo brevissimo, in modo che il soggetto non ne prendesse coscienza, anche un viso con un'espressione neutra, arrabbiata o impaurita. In questo modo l'immagine subliminale associava a ogni oggetto una coloritura emotiva. Alla fine dell'esperimento, veniva chiesto alle persone quanto desiderassero i diversi oggetti.

In una seconda versione dell'esperimento i partecipanti dovevano stringere una manopola per ottenere l'oggetto desiderato, e chi stringeva più forte aveva l'opportunità di ottenerlo.

E' risultato che le persone mettevano il loro maggiore impegno per ottenere gli oggetti associati a facce arrabbiate.

"La cosa ha senso, se la pensiamo in termini di evoluzione della motivazione umana", osserva Aarts: se, per esempio, nell'ambiente c'è scarsità di cibo, le persone che associano il cibo alla rabbia e la convertono in una risposta di attacco per ottenerlo, è più facile che sopravvivano. Se il cibo non produce rabbia o aggressività nel proprio sistema, si può morire d'inedia e perdere la battaglia.

I partecipanti non avevano idea del fatto che l'oggetto del loro desiderio avesse a che fare con la rabbia: "Quando si chiedeva perché si fossero impegnati per ottenerlo, affermavano semplicemente: 'Perché mi piace'. E questo ci dice quanto poco sappiamo delle nostre stesse motivazioni", ha concluso Aarts. (gg)


articolo completo al seguente indirizzo: http://lescienze.espresso.repubblica.it/articolo/titolo/1345397

per approfondimenti: http://www.iltuopsicologo.it/impulsivit%C3%A0_patologica.htm

 
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LA DEPRESSIONE E' FEMMINA

Post n°79 pubblicato il 03 Novembre 2010 da iltuopsicologo1964
 

Che cosa intendiamo per DEPRESSIONE? Negli ultimi 15 anni gli psichiatri hanno finalmente accettato una definizione comune, migliorando cosi' non solo l'affidabilita' della diagnosi ma anche rendendo piu' facile la ricerca clinica internazionale, in quanto si parla un linguaggio comune. La DEPRESSIONE classificata secondo la definizione internazionale come  (piu' severa) e' la forma piu' comune tra un vasto gruppo di disturbi. E' caratterizzata non solo da un umore nero e pessimista ma anche da perdita di interesse e piacere per le attivita' piu' comuni. Questo disturbo e' preminentemente e persistentemente associato sia a sintomi somatici come perdita dell'appetito e del sonno, sia a disturbi mentali come agitazione o passivita', scarsa energia, sensazioni di colpa, difficolta' a concentrarsi, fino a giungere a pensieri di morte e desiderio di suicidio. Con criteri e metodi unificati di diagnosi e classificazione in Paesi e culture anche molto diverse si sono raccolti negli ultimi 10 anni dati epidemiologici importanti per la valutazione della frequenza e della distribuzione geografica della DEPRESSIONE nella societa' moderna. Nove studi maggiori fatti in 9 paesi europei, asiatici, in Usa, Canada e Nuova Zelanda, permettono di stabilire definitivamente che la DEPRESSIONE clinica e' un fenomeno piu' frequente nella donna che nell'uomo. I dati italiani ci giungono da uno studio compiuto a Firenze e pubblicato nel 1990 che dimostra anche qui una chiara prevalenza dei casi femminili sui maschili. Questi dati sono stati confermati recentemente da due grossi studi epidemiologici fatti in Usa ('94 e '95), con un rapporto 1,7 per le depressioni femminili rispetto a quelle maschili. Gli stessi studi dimostrano caratteristiche differenze tra i sessi con un esordio tipico tra i 13 e i 15 anni per le femmine, un massimo raggiunto durante il periodo fecondo e una diminuzione progressiva della frequenza con l'eta'. Sorprendente e' la mancanza di indicazioni a favore di un aumento delle depressioni durante la menopausa. Le depressioni durano piu' a lungo nelle donne che negli uomini e guariscono piu' difficilmente in modo spontaneo. Le ragioni non sono affatto chiare mentre e' palese che il periodo della gravidanza rappresenti una zona particolarmente pericolosa per la donna con una frequenza di depressioni di oltre il 10%. Tra i fattori di rischio piu' frequenti e determinanti lo scatenarsi di una severa crisi depressiva e' la gravidanza non desiderata. Tale condizione, di per se stessa gia' grave, puo' sommarsi a contrasti matrimoniali. Questa combinazione e' considerata tra le cause scatenanti piu' frequenti con alto rischio di suicidio combinato al non-desiderio di partorire e a un forte disinteresse futuro per la prole. Eventuali casi di DEPRESSIONE tra i familiari o episodi precedenti di DEPRESSIONE fanno parte della lista dei fattori che aumentano il rischio di una DEPRESSIONE dopo il parto. La tradizionale terapia farmacologica con antidepressivi di tipo triciclico o con quelli bloccanti la ricaptazione della serotonina e' molto efficace. Siamo pero' di fronte al pericolo di danneggiare il feto particolarmente nelle prime settimane di gravidanza. E' sorprendente la nostra ignoranza sugli effetti di farmaci antidepressivi e psicofarmaci in genere per la salute del feto. Non esistono praticamente studi a lungo termine che ci aiutino a stabilire dosi tollerabili non tossiche e i pericoli di una terapia farmacologica nella donna gravida. La regola d'oro e' di astenersi dalla somministrazione di ogni tipo di farmaco almeno durante le prime 12 settimane. Questa linea non e' facilmente applicabile nel caso di severe psicosi o depressioni con rischio di suicidio, in cui un intervento e' non solo opportuno ma in certi casi obbligatorio. Il periodo post-parto e' ugualmente pericoloso; con una zona di massimo rischio per sviluppo di depressioni nei trenta giorni seguenti il parto e per una durata che puo' estendersi fino a due anni. I disturbi psichiatrici puerperali possono essere di tre tipi: melancolia, vera DEPRESSIONE e stati psicotici. Questi ultimi hanno una frequenza di 1-4 ogni mille parti. La meta' di essi hanno le caratteristiche vere e proprie di gravi depressioni. Esistono anche qui fattori di rischio come la presenza di precedenti depressioni. La frequenza di tali episodi e' di circa il 10-15%. Il rischio di riavere la DEPRESSIONE in una successiva gravidanza puo' arrivare fino al 50%. Percio' le donne che hanno sofferto una prima volta di DEPRESSIONE durante la gravidanza devono ricevere particolare attenzione. Come anche nel caso precedente, un'interruzione di gravidanza deve esser tenuta in considerazione. Purtroppo anche qui emergono la nostra ignoranza e la mancanza di studi e ricerche in questo campo. Poiche' la DEPRESSIONE e' un disturbo assai frequente nelle donne durante il periodo fecondo e poiche' esistono gia' mezzi efficaci di trattamento sarebbe necessario rendersi conto degli effettivi pericoli di tali terapie sul feto. Gli studi dovrebbero essere completati da ricerche su modelli animali poiche' per ragioni etiche molte indagini non possono essere fatte direttamente su donne gravide. A causa di una deficiente organizzazione dell'assistenza sanitaria negli Stati Uniti la maggior parte delle persone adulte che soffre di depressioni anche gravi (donne o uomini che siano) non riceve alcuna terapia. Cio' e' particolarmente vero nel caso di donne prima e dopo il parto. Il danno dell'omissione delle cure alla madre sulla salute della prole e' stato sottolineato da recenti studi. Non esistono ricerche a lungo termine che abbiano seguito la salute mentale dei figli di madri con gravi e ricorrenti episodi di depressioni puerperali. La nostra conoscenza sulla DEPRESSIONE in genere e' notevolmente aumentata negli ultimi anni. Ma quello delle depressioni femminili rimane un capitolo oscuro. Molto rimane dunque da imparare sulla causa della DEPRESSIONE e sul trattamento specifico delle donne depresse nell'eta' feconda.

ARTICOLO COMPLETO AL SEGUENTE INDIRIZZO: http://archivio.lastampa.it/LaStampaArchivio/main/History/tmpl_viewObj.jsp?objid=1497588

PER APPROFONDIMENTI: http://www.iltuopsicologo.it/test_depressione.php

 
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TANORESSIA: DIPENDENZA DALL'ABBRONZATURA

Post n°78 pubblicato il 03 Novembre 2010 da iltuopsicologo1964
 

Passate ore e ore sotto il sole, magari senza usare creme protettive, alla ricerca della tintarella perfetta? In inverno, frequentate assiduamente i solarium e non riuscite a rinunciare alle lampade solari? Siete disposte a tutto pur di abbronzarvi, costi quel che costi? Attenzione! Siete probabilmente vittime della tanoressia - neologismo formato proprio dall'unione dei termini tan, (abbronzatura in inglese) e orexía, dal greco órexis (appetito) -, un comportamento che alcuni non esitano a definire patologico, caratterizzato da un bisogno quasi ossessivo di esporsi il più possibile ai raggi ultravioletti, naturali o artificiali che siano, per apparire sempre abbronzati.


Una percezione sbagliata di sé

La causa di questo problema? Innanzitutto una percezione distorta dell'immagine di sé, esattamente come accade nel caso della ben più nota anoressia. Infatti, così come l'anoressico è convinto di non essere mai sufficientemente magro, anche quando è ormai pelle e ossa, allo stesso modo il tanoressico pensa di non essere mai abbastanza scuro; è da qui a diventare abbronzatura-dipendenti il passo è breve. Alla base di tutto, come per il disturbo alimentare, una forte insicurezza, l'incapacità di accettarsi per come si è e, non ultima, una certa dose di autolesionismo. "Tuttavia, andrei cauto prima di affibbiare l'etichetta di tanoressico a chiunque esageri nella ricerca della tintarella", precisa il Prof. Giuseppe Monfrecola, Direttore della Scuola di Specializzazione in Dermatologia e Venereologia dell'Università degli Studi di Napoli Federico II. "Piuttosto, nella gran parte dei casi si tratta della pericolosa estremizzazione di una moda, quella dell'abbronzatura come status-symbol, che senza dubbio attecchisce in modo particolare nei soggetti più fragili e psicologicamente deboli". I più a rischio sembrano essere soprattutto le donne e i giovani, più sensibili al fascino delle mode e convinti di essere più belli, forti e desiderabili se super abbronzati.

Dipendenza da lettino solare

Se non è una vera e propria patologia, certo è che la tanoressia sembra andarle vicino, per lo meno quando si tratta di giovani e abbronzatura indoor. Una conferma viene da uno studio americano pubblicato da poco sulla rivista Archives of Dermatology, secondo cui l'uso continuativo dei lettini solari può sfociare nella dipendenza e in molti casi ne ha tutti i crismi. Gli autori della ricerca, un'équipe del Memorial Sloan-Kettering Cancer Center di New York, hanno studiato 421 studenti di college, 229 dei quali nell'anno precedente erano ricorsi abitualmente, in media una volta ogni 10 giorni, alle lampade UV. Ebbene, quasi il 40% è risultato dipendente dalla tintarella e aveva o aveva avuto sentimenti e comportamenti tipici della dipendenza: cercare di smettere senza successo, senso di colpa per questa necessità, trascurare il lavoro o altre attività a favore delle sedute abbronzanti, voglia di sottoporsi alle lampade come primo pensiero al risveglio.

articolo completo al seguuente indirizzo: http://donne.virgilio.it/benessere/salute-in-pratica/tanoressia-se-tintarella-diventa-malattia.html

per approfondimenti http://www.iltuopsicologo.it/dipendenze.asp

 
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I CINQUANTENNI SONO INVIDIOSI DEI GIOVANI ?

Post n°77 pubblicato il 05 Ottobre 2010 da iltuopsicologo1964
 

 

Apprezzano di più sentire parlare di situazioni sfortunate come "Tizio è stato bocciato all’esame" piuttosto che "Caio si sposa". Sembra proprio che le persone al di sopra dei 50 anni siano un po’ invidiosette. Per questo preferiscono sentire aneddoti negativi su giovani.

È questo il risultato di uno studio pubblicato sul Journal of Communication da Silvia Knobloch-Westerwick dell’Ohio State University (Usa) che ha messo a punto la ricerca in collaborazione con i ricercatori di Matthias Hastall Zeppelin dell’University di Friedrichshafen in Germania. I risultati provengono da un'analisi condotta su 276 tedeschi: 178 tra i 18 e i 30 anni e 98 tra i 50 e i 65 anni.

Dunque sembra che esista una sostanziale differenza. Mentre i giovani hanno maggiori livelli di incertezza e preferiscono leggere o sentire notizie sui propri coetanei per capire come vivono, le persone più in là con gli anni non hanno il bisogno di confrontarsi con i propri pari d’età. Anzi.

Sentire qualche storiella negativa che ha come protagonista un ragazzo, di tanto in tanto, aiuta l’autostima come spiegano i ricercatori stessi: “Un modo per combattere il tempo che passa e avere una sorta di iniezione di autostima. I nostri risultati sostengono la tesi secondo cui le persone utilizzano i media per rafforzare la loro identità sociale", conclude Knobloch-Westerwick.

ARTICOLO COMPLETO AL SEGUENTE INDIRIZZO:

http://www.libero-news.it/news/486331/Psicologia__gli_over____sono_invidiosi_dei_giovani.html

PER APPROFONDIMENTI

http://www.iltuopsicologo.it/il_dramma_del_gambero_il_passaggio_dell_adolescenza.htm

 

 
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LA TECNOLOGIA A LETTO FA' MALE AL SESSO

Post n°76 pubblicato il 05 Ottobre 2010 da iltuopsicologo1964
 

DESKTOP, laptop, telefoni intelligenti, Xbox, gameboy. La nostra camera da letto sembra la sala di controllo della Nasa. Ormai è la stanza più hi-tech della casa: non tanto e non solo per la tv al plasma con 900 canali ma per tutti gli altri gadget planati sopra le lenzuola, il blackberry, l'iPhone, il palmare multifunzione, la console coi videogiochi, il pc acceso fino a notte fonda per controllare la posta. E questa invasione danneggia non solo il sonno ma soprattutto la sessualità, è un'arma letale che uccide l'eros e moltiplica ansie e nevrosi. Vivere senza staccare mai, senza mai disconnettersi, neppure in camera da letto, dove trascorriamo - sempre più insonni, casti, agitati - quasi un terzo della nostra esistenza.

Specialisti di medicina del sonno, psicoterapeuti, sessuologi sono tutti concordi: staccate la spina, spegnete pc e cellulari, chiudete fuori della porta ogni strumento di tecnologia avanzata che sia foriero di stress. Basta con Facebook, con Twitter, con le chat, con le mail, con le news. Non c'è niente di meno afrodisiaco. Il 67 per cento dei cittadini statunitensi di sesso maschile si porta a letto il proprio cellulare e il 64 per cento delle donne fa altrettanto. Nel numero dello scorso gennaio della rivista scientifica "Fertility and Sterility" un gruppo di ricercatori della Cleveland Clinic ha dimostrato che l'uso massiccio del telefonino mina la qualità dello sperma: in pratica intontisce gli spermatozoi, che risultano meno numerosi, meno potenti, meno veloci. Stando a un'indagine commissionata dalla Bayer e pubblicata sul Daily Telegraph, 28 donne britanniche su cento accusano Internet, e in particolare i pc portatili usati dai partner per navigare in rete, di avere distrutto la loro vita sessuale.

E in Italia? Proprio nel nostro Paese qualche tempo fa fu realizzato un sondaggio in cui si dimostrava che guardare la televisione a letto - abitudine regolare, circa un'ora a sera, per ben sei milioni di coppie italiane - dimezza la frequenza dei rapporti sessuali. Chi non ha, o non guarda, la tv in camera fa l'amore con il proprio partner in media due volte a settimana, gli altri al massimo una.

 Per tenere sotto controllo questa sindrome, codificata negli Stati Uniti come Internet Addiction Disorder, nei mesi scorsi è nato in un grande ospedale di Roma, il Policlinico Gemelli, il primo ambulatorio psichiatrico che cura questa patologia. Strutturato come un day hospital, offre la consulenza di specialisti e prevede l'adozione di un protocollo di intervento.

Ma non è solo al sesso che i pc in camera da letto sono nocivi. La vittima numero uno è il sonno. Da uno studio condotto da ricercatori di neuroscienze dell'università di Edimburgo risulta che controllare le e-mail prima di andare a dormire equivale a bersi un caffè doppio, produce la stessa eccitazione. Lo conferma la neurofisiopatologa Maria Grazia Marciani, che dirige il Centro del sonno dell'Università di Torvergata, a Roma: "Se il riposo notturno è insufficiente o qualitativamente scarso, insorgono disturbi della concentrazione, della memoria, del rendimento, delle performance nella vita professionale e sociale. Vanno evitate in serata tutte le attività troppo impegnative intellettualmente. Il problema riguarda soprattutto gli adolescenti. Da uno studio pubblicato dalla rivista scientifica "Sleep Medicine 2010" risulta che, secondo un dato della National Sleep Foudation americana, il 97 per cento dei ragazzi negli Usa ha in camera da letto l'accesso a Internet. In Italia ci stiamo adeguando. L'unica soluzione è bonificare la camera da letto da ogni electronic device".

(04 ottobre 2010) ©

ARTICOLO COMPLETO AL SEGUENTE INDIRIZZO: http://www.repubblica.it/salute/ricerca/2010/10/04/news/l_hi-tech_in_camera_da_letto_fa_male_alla_coppia_e_al_sesso-7690135/

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DEPRESSIONE, ANSIA E BASSA AUTOSTIMA NEGLI ADOLESCENTI EMARGINATI

Post n°75 pubblicato il 05 Ottobre 2010 da iltuopsicologo1964
 

I giovani vittime di discriminazione non sempre reagiscono bene e, anziché fare spallucce, somatizzano con determinati sintomi: depressione, ansia, angoscia e anche ridotta autostima.
Ecco quanto suggerito da un nuovo studio pubblicato sul Journal of Research on Adolescence.

Sono 601 i ragazzi di età compresa tra i 17 e i 19 anni coinvolti nello studio condotto dai ricercatori dell’Università della California a Los Angeles (UCLA). I partecipanti sono stati invitati a registrare, per più di due settimane, ogni evento discriminatorio o eventuali commenti negativi a loro indirizzati. Allo stesso modo, sono stati invitati a tenere d’occhio e segnalare tutti i sintomi fisici che si presentavano, come mal di testa, mal di stomaco, dolori in genere e altri.

Analizzando i dati raccolti, i ricercatori hanno scoperto che più della metà dei ragazzi (quasi il 60%) ha riferito di aver avuto un’esperienza di discriminazione da parte di altri ragazzi e/o coetanei. Il 63% ha dichiarato di aver subìto discriminazioni da parte di adulti. Nel totale, il 12% ha detto di aver subìto almeno una discriminazione ogni giorno.

Valutando invece i sintomi accusati si è scoperto che nei ragazzi che avevano segnalato maggiori discriminazioni, sia da parte di altri giovani che da adulti, si presentavano maggiormente dolori vari, ansia, angoscia e mostravano un grado di autostima inferiore alla media.
Quello che è apparso evidente ai ricercatori è che la discriminazione può influire molto sui giovani, più di quanto si pensi.

(lm&sdp)

ARTICOLO COMPLETO AL SEGUENTE INDIRIZZO:

http://www3.lastampa.it/benessere/sezioni/lifestyle/articolo/lstp/332922/

PER APPROFONDIMENTI

http://www.iltuopsicologo.it/adolescenza.asp

 
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