Creato da: CarloCarlucci il 22/08/2004
"Pensieri oziosi di un ozioso"

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Post N° 49

Post n°49 pubblicato il 30 Settembre 2005 da CarloCarlucci

... e alla fine è meglio se scrivo le mie cose, e finiamola qui.
Cose che pochi leggeranno (e perché dovrebbe essere altrimenti?), e che nessuno capirà (e come potrebbe essere altrimenti?).
Scrivere come so di cose che so - fregandomene del resto, di tutto il resto.

E questo è solo un post solo apparentemente meno strutturato degli altri, e che - in questo sì del tutto simile alle decine d'altri - nessuno capirà.

 
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Post n°48 pubblicato il 19 Settembre 2005 da CarloCarlucci

Tra i giochini che impazzano in blogland ci sono questi test sulle canzoni.
Mai riuscito a finirne uno. Sono peggio di Rob Fleming, in Alta Fedeltà.
Stavolta mi ci sono messo d'impegno, ma mi ci sono riperso. È una cosa che non si può fare: come pensi di averla finita, scopri di aver dimenticato almeno cinque titoli irrinunciabili.

E allora, siccome qualcuno li avrà pur scritti questi test, ho pensato che la cosa migliore è prendere la faccenda da un'altra parte: prima scegliere le canzoni - alcune canzoni - e poi vedere a cosa sono adatte, se non addirittura le ragioni per le quali le ho scelte.
Non che abbia risolto granché: ben presto mi son scoperto ad aggiungere, ed aggiungere, e togliere, e spostare. Neanche Penelope ci avrebbe messo così tanto, e io non sono Penelope.

E allora, questo è il punto in cui sono, e questo è il punto che resta. casomai, cambierò, ma non credo.

Quella che vorresti aver scritto tu: Land of Hope and Dreams (Bruce Springsteen)

Quella che vorresti fosse stata scritta per te: The Boxer (Simon & Garfunkel); You’ve Got a Friend (Carole King)

Quella più piena di speranza: Grace Darling (Strawbs)

Quella per il futuro dietro alle spalle: There’s No Place Like Homerton (Hatfield & the North)

Quella più malinconica: Bonny Woodhall (Andy Irvine)

Quella per gli amici in difficoltà: If I Should Fall Behind (Bruce Springsteen)

Quella per i momenti di solitudine: Have a Little Faith on Me (John Hiatt)

Quella più triste: Canzone per te (Sergio Endrigo)

Quella per i momenti di tristezza: Mi le m’uilinn (Karen Matheson)

Quella più nostalgica: Farewell (Rod Stewart)

Quella per i momenti di nostalgia: If You See Her Say Hello (Bob Dylan)

Quella più disperatamente bella: Who Wants To Live Forever (Queen)

Quella dalla disperata bellezza: Smalltown Boy (Bronski Beat)

Quella più umbratile: In the Garden (Van Morrison)

Quella più ilare: Don Alfonso (Mike Oldfield)

Quella più divertente: Om Nama Shivaya (Steve Hillage)

Quella più trascinante: Moldavian Triptych (Dónal Lunny con Marta Sebestyén)

Quella più cazzuta: 5:15 (The Who)

Quella che ti dà la carica: Wha’ll Be King But Cherlie? (Silly Wizard)

Quella che ti porta in cielo e anche oltre: Eternity's Breath (Mahavishnu Orchestra)

Quella più suggestiva: Across the Borderline (Ry Cooder)

Quella più evocativa: Winter Wine (Caravan)

Quella più emozionante: Man on the Moon (R.E.M.)

Quella più commovente: The River (Bruce Springsteen)

Quella più mistica: Der Ruf (Popol Vuh)

Quella più esotica: Forbidden Colours (D.Sylvian & R.Sakamoto)

Quella più intensa: Down Where the Drunkards Roll (Maura O’Connell)

Quella per guardare lontano all’orizzonte verso l’Altrove: Flower of the West (Runrig)

Quella per i bambini: La leva calcistica del ‘63 (Francesco de Gregori)

Quella per l’amore lasciato andare: Next Time Around (Sandy Denny)

Quella per l’amore che ti vorrebbe sempre: Stand By Me e Don’t Go Away (Oasis)

Quella per l’amore che verrà: Advice for the Young at Heart (Tears for Fears)

Quella per l’amore assoluto: She Belongs to Me (Bob Dylan)

Quella più bella sull’amicizia: Bobby Jean (Bruce Springsteen)

Quella più bella da dedicare ad una donna: Your Song (Elton John)

Quella più bella dedicata ad una donna: Nancy Spain (Christy Moore)

Quella che ti fa venire in mente la prima cotta: Money (Pink Floyd)

Quella che ti fa sentire un gran fico: Subterranean Homesick Blues (Bob Dylan); Somebody to Love (Queen)

Quella per fare marameo: Ramblin’ Man (Allman Brothers Band)

Quella per le notti brave: Steppin’ Out (Joe Jackson)

Quella per le notti in città: There Is a Light That Never Goes Out (The Smiths)

Quella per quando sei incazzato: Once in a Lifetime (Talking Heads)

Quella che ti estrania dalla realtà: Renaissance Fair (The Byrds)

Quella che ti fa più paura al buio (beh, si fa per dire…): A Plague of Lighthouse Keepers (Van Der Graaf Generator)

Quella più cattiva: Ventilator Blues (Rolling Stones)

Quella col miglior inizio: Trilogy (Mahavishnu Orchestra)

Quella col miglior finale: To Be Over (Yes)

Quella per l’alba: One More Day e Torch Song (Todd Rundgren)

Quella per la tarda mattinata: Hergest Ridge (Mike Oldfield)

Quella per il pomeriggio: Maggie May (Rod Stewart)

Quella per la sera: Papa Was a Rolling Stones (The Temptations)

Quella per la notte: A Walk Across the Rooftops (The Blue Nile); So What (Miles Davis)

Quella per la primavera: Acres Wild (Jethro Tull)

Quella per l’autunno: Kellswater (Planxty)

Quella da cantare finché ti radi: Shaving Is Boring (Hatfield & the North)

Quella per guardare l’oceano: Just a Shadow (Big Country)

Quella per guardare il cielo sopra le montagne ad alta quota d’estate col sole verso il tramonto: The Remembering (Yes)

Quella per guardare i grattacieli che si illuminano di luci al tramonto d’inverno: This Is the Ice Age (Martha & the Muffins)

Quella per la campagna d’estate (meglio se francese, con ricordi del Medioevo): Benedictus (Strawbs)

Quella per guardare il paesaggio dall’alto di una collina magari seduti in auto che se è di notte è anche meglio: The Nightfly (Donald Fagen)

Quella per quando piove d’inverno: Rain Song (Led Zeppelin)

Quella per quando piove nelle mezze stagioni: Rainy Sundays Windy Dreams (Andy Irvine)

Quella per i temporali estivi: Riders on the Storm (The Doors)

Quella per il luogo in cui vivi: Frutto acerbo (Le Orme)

Quella da sentire in viaggio di giorno: Travels (Pat Metheny)

Quella da sentire in viaggio di notte: Do Your Thing (Isaac Hayes)

Quella che ti ricorda l’adolescenza: Vincent (Don MacLean)

Quella per il tuo funerale: In the Future (David Byrne)

Quella col migliore duetto: Haunted (Shane MacGowan & Sìnead O’Connor); Fairytales of New York (The Pogues & Kirsty McColl); Happy Ending (Joe Jackson & Ellen Foley)

Quella col miglior controcanto: Under African Skies (Paul Simon)

Quella con cui sostituire We Are the Champions: Traccia II (Banco del Mutuo Soccorso)

Quella che odiavi ma adesso ami: You Can Call Me Al (Paul Simon)

Quella con il testo più originale: Montana (Frank Zappa)

Quella col testo più intelligente: Nothing But Flowers (Talking Heads)

Quella su cui fare l’amore: nessuna, solo il silenzio per ascoltare gli sguardi. Ehm… già, sì.

 
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"The Sunlit Path"

Post n°47 pubblicato il 23 Marzo 2005 da CarloCarlucci
Foto di CarloCarlucci

Un arpeggio di chitarra elettrica, sottolineato da un contrappunto di violino e da un fraseggio di batteria, prima dell'esplodere ritmico e incalzante del tema, che a sua volta sfocia in un nuovo arpeggio, stavolta contrappuntato dal piano elettrico.

Mahavishnu Orchestra.

Pochi gruppi, pochi artisti, han saputo raccontare la felicità del Divino come John McLaughlin.
Un Divino solare, misterioso ma sorridente, descritto da un ritmo serrato che ne descrive l'Eternità immutabile. Il suo Stare fuori dal tempo, al di là del tempo.

Adoro la Mahavishnu Orchestra. Adoro questi album, stilisticamente impeccabili, articolati, complessi, eppure così evidenti.
Una musica tutt'altro che immediata, e tuttavia liscia, chiara, luminosa.
Album che sono Rivelazioni in musica, "Cammino della luce solare", per stare al titolo del brano; musica che avvolge, carezza, risveglia ed evoca...


Mahavishnu Orchestra, "Trilogy" (The Lost Trident Sessions, 1973-1999)

 
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Per un'amica

Post n°46 pubblicato il 17 Febbraio 2005 da CarloCarlucci

Cara Katia,
ho saputo solo oggi che non ci sei più. Nemmeno so quando è successo. Chissà cosa facevo, a cosa pensavo, quel giorno.
Non che faccia differenza, lo sappiamo bene tutt'e due, ma tanto a questo mondo cos'è che fa davvero la differenza? Ci abbiamo sempre alzato le spalle su questo genere di cose, anche se era tutto per finta, e se proprio non potevamo nascondere lo sguardo triste che ci scambiavamo, dopo un attimo scoppiava una clamorosa risata reciproca; era un modo, il nostro, di risolvere una faccenda che - è chiaro - non è che si potesse risolvere altrimenti.

Nemmeno ricordo quando è stata l'ultima volta che ci siamo visti, ma dubito che nemmeno tu ti sia poi posta il problema, per cui suppongo che io non mi debba sentire in colpa, per questo.
A dirla tutta, ricordo molto vagamente a che punto fosse arrivata la tua vita, a parte il fatto che di sicuro non è mai stata molto fortunata.
Chiunque sarebbe disposto a dire che non hai mai avuto quanto ti meritavi, e che hai sempre dovuto sudarti, e quanto, tutto ciò che hai avuto, e che tutto quanto hai saputo costruire - la tua laurea cui tenevi tanto, ad esempio - è stato quasi esclusivo merito tuo.

Perché sul fatto che tu fossi una bella persona, anche su questo non ci piove. Ma dubito, anzi so, che l'ironia e l'understatment che hai sempre sfoggiato ti costavano, eccome.
Ma le cose andavano così, e sapevamo sin troppo bene che non è che ci fosse poi molto da fare. In questo, io e te, come diversi altri di noi, non abbiam mai fatto troppe storie.

Non so dire se, qualora avessi saputo della tua malattia, avrei potuto dire o fare qualcosa.
Non è che siamo stati molto presenti l'uno nella vita dell'altro, nell'ultimo quarto di secolo.
Certo, quando mancò Manuela, per sua scelta, le cose andarono molto diversamente, anche se quel giorno fui il solo, con Luca, ad esserci. Non ve la perdonai molto, per un bel po' di tempo. Ma ora capisco che può anche succedere di non sapere le cose.
Posso dirti, e lo sai, che avrei voluto esserci: per far cosa non ho idea. Per me, si potrebbe pensare, ma non è così.
Per noi, ecco. Per ironia della sorte, ho saputo di te solo ieri, quando mi è arrivato l'invito alla cena, tra tre mesi.
Allora, fu proprio Manuela, e la sua scelta, a farci ritrovare tutti. Del resto, che noi si sia sempre e da sempre prima di tutto un gruppo, non c'è nemmeno bisogno di dirlo.
Anche senza sentirci per anni, letteralmente. Ma ci siamo, silenziosamente, tutti, gli uni dentro gli anni, ciascuno dentro tutti e tutti dentro ognuno di noi.
Gli amici di liceo sono così, niente di strano.

Devo dire che qualcosa di te, forse incosciamente, ho ritrovato in altre persone che ho conosciuto: in un certo senso, sei stata, come gli altri, una specie di archetipo di una piccola parte del mondo, e non c'è dubbio che anche per questo, non è che tu te ne sia andata veramente.
Eh, magra consolazione, lo so: ma che possiamo farci, anche stavolta?
In altri tempi, avremmo finito per sbronzarci insieme, magari mandandoci alla fine a fare reciprocamente in culo, anche senz'altro motivo che lo sfogare con qualcuno cui volevamo bene le nostre rabbie e i nostri rancori personali.

La cosa che posso dirti è che lo so che mi hai sempre voluto bene, dietro al tuo sguardo finto indagatore; lo so che mi hai sempre stimato, anche se mi chiedevo il perché. In un certo senso, mi piaceva poi sorprenderti, e fartene uscire con le tue domande per saperne di più... Non che mi sentissi a mio agio, in questo, ma eravamo fatti così.
Beh, a volte mi piace ripensarci. Chissà cosa penseresti ora, di me. Domanda inutile, lo so: le solite cose. Le solite dannate bellissime cose. E io magari mi chiederei anche il perché. Così come mi chiederei perché mai una ragazza così piena di buon senso, di autoironia, di capacità di darci dentro sodo, di crederci sempre e comunque, a dispetto di tutto, non abbia avuto ciò che desidera, pur se quel che desidera non è poi molto: esser soddisfatta di sé, aver realizzato qualcosa in cui credeva, con una minima mano da parte della fortuna.
Ma, no: fortunata non sei stata mai. A conti fatti, direi che la vita non ti ha voluto bene quanto tu ne volevi a lei.
Mi dispiace Katia, mi dispiace tanto. Mi dispiace ammettere che avevamo ragione nel pensare che la vita è sempre pronta a mettertelo dove crede. La sapevamo lunga, a quanto pare. E non è nemmeno servito ad un cazzo, saperlo.

Ora ti saluto. Tra un attimo, andrò alla finestra a fumare una sigaretta in tuo onore, tu che non hai fumato mai, e a pensare al modo di sapere dove posso venirti a trovare.
Ti prometto che ci porterò anche Luca, a costo di rivoltare l'America, per scoprire dove cazzo si è cacciato.
Quanto al resto, nessuno dei due pensa di poterci trovare in un qualche altro posto; ma se per caso un posto ci fosse, beh, tienimi presente: ci terrei a rivederti ancora, e a risentire il tuo sguardo comprensivo. Mi ha fatto bene tante volte, sai, quando eravamo giovani...

un bacio, Katia,
ti voglio bene,
G.

 
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Post N° 45

Post n°45 pubblicato il 24 Gennaio 2005 da CarloCarlucci

Il Divino è il non-dicibile, è l'Ombra del Linguaggio. Poiché il Linguaggio, come bene ci istruisce Eraclito, è la folgore che illumina e tutto governa.
E tuttavia, il Linguaggio illumina in quanto proietta ombre: nel suo rendere luminose e visibili le cose, lascia in ombra la loro origine e la loro provenienza, che ci resta misteriosa e inesprimibile.
Le cose si danno, semplicemente: nel loro accoglierle e raccoglierle, nel loro riconoscerle per mezzo del Linguaggio, dobbiamo tuttavia preservare il Mistero che ci nascondono.
In questo Mistero, nelle pieghe del Linguaggio, permane il Divino, che va rispettato proprio nel suo esser non-dicibile...

 
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Post N° 44

Post n°44 pubblicato il 20 Gennaio 2005 da CarloCarlucci

Non sono la stessa cosa, il Divino e il Sacro.
Che il senso del Sacro discenda e dipenda dal senso del Divino è cosa che si può anche, eventualmente, capire. Si può anche capire, cioè, che il senso del Divino si ammanti, nel rispetto che gli è dovuto, di Sacro.
Si può arrivare a comprendere che Sacro sia tutto ciò che attiene alla manifestazione del Divino. Ma nel far ciò si riconosce che non può esservi Sacro ove manchi il Divino.

Il Divino è l'inesprimibile del Mondo: è ciò da cui il Mondo proviene, ha origine. Il Sacro è il riconoscimento della sua manifestazione. Ove il Divino ha avuto luogo, si è manifestato, il Sacro interviene in sua difesa, a sua protezione.
E Sacro è anche il rispetto della Differenza tra Divino e Mortali; e tra Linguaggio e cose. Tra essere ed ente. 

Ma il Sacro inibisce in quanto preserva; chiude in quanto garantisce; soffoca in quanto eleva.
Il Sacro è veramente Sacro quando rispetta la folle creatività del Divino; la sua imprevedibile vitalità.
Il Sacro è veramente Sacro quando promuove la vita, e la rende libera.
E si perde quando invece di seguire il Divino, lo precede, quasi pretendendo di istruirlo.

Quando il Sacro prende il posto del Divino, sono i Mortali a farsi i Celesti.
Che ridicolo spettacolo, la pretesa di riconoscere il Significato delle Cose, fissato in un Carnevale della Ragione!

Il Sacro privato del Divino: ecco la profonda tristezza della povertà dei Mortali sulla Terra. La celebrazione della loro solitudine.

 
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Post N° 43

Post n°43 pubblicato il 30 Dicembre 2004 da CarloCarlucci
Foto di CarloCarlucci

« ... kein Nun noch Hier... »

Il quadro è una parete, su cui si apre un’ampia entrata, ad arco ribassato, e priva di porta. Attraverso di essa, si vede uno spazio composito, esteso in modo persino incongruo: ai lati, verso l’alto, e persino verso il basso. Le mattonelle verdi, misurano la prospettiva e la profondità degli ambienti.

Nel corridoio di destra, delimitato da sottili ed eleganti colonnine gotiche, passeggia nella penombra tranquillo ma vigile il leone che il Santo addomesticò, togliendogli la spina nella zampa, durante la sua permanenza nel deserto.
A sinistra invece lo spazio è vuoto – o meglio, deserto, lasciando pienamente intravedere la finestra che, sul fondo, dà su un paesaggio di dolci, verdi e serene colline.

In alto, invece, lo spazio è incombente, quasi minaccioso, delineato da scure e severe volte gotiche, che a loro volta però lasciano campo a bifore che mostrano un cielo terso e azzurro.
Un composto e tranquillo silenzio avvolge ogni ambiente e tutte le cose.

Al centro, il tema del dipinto. Una specie di soppalco di legno, che costituisce lo studio del Santo, ritratto nel corso dei suoi studi, nella luce calda che proviene da quello stesso ingresso da cui lo osserviamo.

Il Santo è immerso nella lettura, seduto quasi in punta di sedia. La posa plastica, sobria, composta ed elegante al tempo stesso, contrasta appena col lieve disordine che la circonda: il cappello cardinalizio deposto quasi a caso sulla panca posteriore, libri aperti sugli scaffali, le scatole col materiale per la scrittura giacciono disordinatamente l’una sull’altra.
Il Santo non è l’asceta della iconografia classica, il pugnace propugnatore dell’ascesi cristiana. Non è nemmeno però l’erudito, il dotto, che mette a servizio del Cristianesimo la sua cultura classica. È invece un intellettuale, un umanista che ama e riconosce la grandezza della classicità, che riscopre per rivitalizzarla, ma con la consapevole autorevolezza del proprio ruolo, del proprio valore superiore.
L’estendersi e la profondità dello spazio sembrerebbero un invito a guardare, a perdere lo sguardo sino allo spazio aperto, all’infinito, raffigurato oltre le finestre in fondo.
E la minuzie dei dettagli sembrerebbe un invito a vedere, a osservare. Ma soffermandosi sull’immagine, ci si rende conto che è il contrario. Ogni oggetto, seppur minutamente descritto, lascia passare via lo sguardo, e serve a definire lo spazio, occupandolo.
Ed è allora che ci rendiamo conto che stiamo vedendo quel che il pittore vuole mostrarci: uno spazio fisico, misurabile, che la mente può comprendere e la ragione spiegare. Non più uno spazio da interpretare, ma da descrivere. Uno spazio del tutto mondano, anzi umano, occupato da corpi solidi; uno spazio che ora la scienza, e non più la filosofia o la teologia, può e deve spiegare.
Dio ormai è lontano, inarrivabile, e quindi nemmeno pensabile; puro nulla, che né l'ora né il qui possono più toccare...

"Gott ist ein lautes Nichts, ihn rührt kein Nun noch Hier", Angelo Silesio.

 
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Post N° 42

Post n°42 pubblicato il 26 Dicembre 2004 da CarloCarlucci

C'è qualcosa di più triste degli auguri di Natale fatti per forza: gli auguri che non hai ricevuto.

 
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Post N° 41

Post n°41 pubblicato il 22 Dicembre 2004 da CarloCarlucci

Io, sono un tipo da tempi lunghi.
O meglio, sono un tipo da tempi lenti. Mi piace fermarmi, e riflettere. Magari non tanto quando devo prendere una decisione davvero importante: lì vado di petto, deciso.
Ma per quanto riguarda la sfera delle relazioni umane, mi piace, e sento necessario, soffermarmi, e pensare, riflettere su di esse.

Ora, nelle mie attività, e nel corso degli anni, ho conosciuto e conosco, e frequento, letteralmente centinaia di persone. E le ho conosciute davvero, nel senso che ho dovuto - per lavoro - intuire, comprendere, il loro modo di pensare, le loro attitudini, gli interessi e i desideri.
Dopotutto, in questo consiste il lavoro di un insegnante (e non soltanto verso i suoi studenti, ma anche verso le loro famiglie), di un formatore, ed anche di un autore di testi.
Senza contare le decine e decine di rapporti con colleghi, superiori, personale vario, eccetera.

Ma in tutto questo, lo spazio della riflessione personale è sempre stato esiguo. Le relazioni interpersonali sono una gran bella cosa, ma raramente offrono il tempo, e l'opportunità di arrivare davvero in profondità, e di conoscere se stessi attraverso l'altro.
Curiosamente, e paradossalmente, sembra quasi che minore sia la distanza fisica e temporale con le persone, maggiore sia la difficoltà ad arrivare in profondità, e a conoscersi nel senso più proprio del termine.

Riflettevo su questo, rivedendo 84 Charing Cross Road.
La distanza fisica permette l'introspezione. Forse perché non distolti dalla sfera della fisicità - i gesti, i suoni, l'aspetto, gli odori, e l'incombenza stessa della reciproca presenza - è naturale arrivare direttamente al cuore caldo dell'Altro.
E non è, ovviamente, un conoscere migliore: ma un conoscere diverso, e più intimo, sì.

Ma soprattutto, è un conoscere che lascia spazio al tempo, alla riflessione. All'analisi.
Ecco. Io non credo che questa moderna tecnologia di comunicazione accorci le distanze. Semmai, allunga i tempi della riflessione, e ancora per paradosso, accorcia quelli della conoscenza profonda.

 
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Post N° 40

Post n°40 pubblicato il 16 Dicembre 2004 da CarloCarlucci

Forse non si riflette abbastanza sul fatto che ci innamoriamo - o meglio, che abbiamo bisogno di innamorarci - anche per condividere le cose belle che amiamo, per far sì che qualcuno condivida con noi il nostro incantamento.
Vedendo la bellezza nelle cose, vogliamo esser partecipi di essa; il che significa desiderare anche che altri vedano noi stessi in quella stessa bellezza.
Riconoscere la bellezza è in un certo senso esserne parte, infatti: dopotutto, come bene sapeva San Paolo, la bellezza sta negli occhi di chi guarda. Così che riconoscendo la bellezza in ciò che troviamo bello, l'Altro ci riconosce capaci, e possessori di bellezza.
E non è forse ciò che noi stessi facciamo, trovando bello ciò che il nostro amore trova bello? Non è forse per questo che innanzitutto e perlopiù amiamo ciò che esso ama?
La bellezza delle cose non è muta, essa ci parla; ma le parole hanno significato solo se condivise, e quando si fermano dentro di noi avvertiamo l'urgenza di farle uscire, di renderle vive, e davvero significanti.
Amore si nutre di bellezza, ma la bellezza chiama Amore.
E non c'è nulla di più triste, di più straziante, di continuare ad avvertire la bellezza quando Amore se n'è andato, o peggio ci ha lasciato.
Ci troviamo allora nella straziante solitudine di una bellezza che non sappiamo e non possiamo più condividere. Una bellezza che ci ricorda a sua volta la perduta armonia, e l'infinita bellezza, di cui siamo stati privati.

 
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Post N° 39

Post n°39 pubblicato il 05 Dicembre 2004 da CarloCarlucci
Foto di CarloCarlucci

Non bisognerebbe mai scrivere, di notte.
Non bisognerebbe mai scrivere, quando, di notte, la pioggia scende leggera, con la promessa di bagnare il giorno a venire.
Non bisognerebbe mai scrivere quando, di notte, una lontana voce presente ti parla in silenzio.
E non bisognerebbe mai scrivere di notte, quando suona un disco nuovissimo di ballate evocative e malinconiche, che ti riportano anni indietro, e ti chiedono risposte a domande allora poste, e affidate al tempo quale messaggero. Perché il tempo ti ha aspettato; e ora, silenziosamente, discreto, ti guarda, e ti guarda guardarlo.
E risposte ne hai, ma non sai se bastano.

"Come stai?"
"... sto bene"
"Che hai fatto?"
"... beh..."

Ma niente e nessuno può nascondere il fatto che la sola risposta vera che hai è che in fondo sei rimasto a vent'anni fa; o forse, che il giro si è compiuto, e a vent'anni fa sei tornato.

No, non bisognerebbe mai scrivere, di notte, mentre fuori in silenzio piove piano, al suono di un disco nuovissimo di ballate evocative e malinconiche, che ti riportano anni indietro.
Perché potresti dire cose che non ti fa piacere sentire, e anche se sai che il tempo sarà comprensivo con te.



"La gente della pioggia è fatta di pioggia, così che quando piange scompare"
(Non torno a casa stasera)

 
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Post N° 38

Post n°38 pubblicato il 27 Novembre 2004 da CarloCarlucci
Foto di CarloCarlucci

A Uno Sconosciuto

« Sconosciuto che passi! non sai con quanto desiderio io ti guardo,
tu devi essere colui che io cercavo, o colei che cercavo (mi arriva come da un sogno),
certamente ho vissuto in qualche luogo una vita di gioia con te,
tutto è ricordato, mentre passiamo l’uno vicino all’altro, fluido, amorevole, casto, maturo,
sei cresciuto con me, sei stato ragazzo o ragazza con me, io ho mangiato e dormito con te, il tuo corpo è diventato
qualcosa che non appartiene soltanto a te, né ha lasciato che il mio restasse mio soltanto,
mi hai dato il piacere dei tuoi occhi, del tuo volto, della tua carne, mentre io passo, tu ne prendi in cambio dalla mia barba, dal mio petto, dalle mie mani,
non devo parlarti, devo pensarti quando seggo da solo o veglio la notte da solo,
devo aspettarti, non dubito che ti incontrerò ancora, e a questo devo badare, di non perderti. »

Walt Whitman

Questo sono i blog, alla fine. Certi blog, almeno.

 
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Post N° 37

Post n°37 pubblicato il 21 Novembre 2004 da CarloCarlucci

Sono sempre più popolari, gli haiku.
Piace, in modo evidente, la loro essenzialità, che a volte si coniuga come semplicità, una ricerca della parola, e dell'immagine più limpidamente espressiva, quasi delle epifanie; altre volte, si colora di enigma, di allusione, di visione nascosta.
Non è l'aspetto zen che mi interessa, degli haiku, anche se ne sono l'espressione. E nemmeno mi interessa il fatto della loro struttura rigida, data, quasi da esercizio di stile.
Quello che mi piace è proprio il loro essere poesia, poesia essenziale, che è poi dire poesia tout court.
La ricerca della parola poetica in questo consiste: nel trovare, nell'usare parole che ne richiamino altre, che si carichino di significato, di tensione. Che suonino vibranti, cristalline.
E il precetto di usare il minor numero di parole nelle strofe, rispecchia la natura dell'arte poetica, per la quale, come nella scultura, "il meno è il più".

Certo, come per la filosofia zen, l'haiku non va spiegato, ma inteso; non va analizzato, ma ascoltato.
Ma io non seguo la filosofia zen, e sono curioso, e mi interessa il modo in cui le parole richiamano altre parole, e formano immagini, e suscitano sentimenti vibrando in modo puro, cioè evocando  in modo originale, forte, autentico parole usate, conosciute, e caricandole di nuova tensione.

Sono poesia pura, gli haiku. E anche a leggerli come tali, non credo, non credo davvero, si sminuisca la loro carica emotiva.

 
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Post N° 36

Post n°36 pubblicato il 19 Novembre 2004 da CarloCarlucci
Foto di CarloCarlucci

Presso i Celti, gli alberi erano sacri. Essi infatti ritenevano che gli alberi sorreggessero il cielo.
E la sola paura che i Celti avevano, era per l'appunto che il cielo cadesse loro sulla testa.

 
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Post N° 35

Post n°35 pubblicato il 04 Novembre 2004 da CarloCarlucci

Con me, porterò per sempre le parole che mi hai detto.
Con me, porterò per sempre le parole che hai saputo farmi dire.
Con me, porterò per sempre ciò che mi hai fatto diventare.
Con me, porterò per sempre il coraggio che hai saputo infondermi.
Con me, porterò per sempre il modo in cui mi hai fatto vedere le cose.


Con me, porterò per sempre te.
Per sempre.

 
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Post N° 34

Post n°34 pubblicato il 27 Ottobre 2004 da CarloCarlucci

« Eraclito non ha ieri né adesso.
È solo un artificio che ha sognato
Un uomo grigio sulla riva del Red Cedar,
Un uomo che tesse endecasillabi
Per non ripensar tanto a Buenos Aires
E ai visi amati. Uno manca. »


Jorge Luis Borges

 
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Post N° 33

Post n°33 pubblicato il 22 Ottobre 2004 da CarloCarlucci

Ad avvicinarsi troppo al cuore caldo delle parole, ci si brucia.


Siamo nel linguaggio. 
E ti dedichi a lui, lo ascolti, lo impari, lo rispetti. E credi ti rispetti allo stesso modo.
E ne prendi confidenza. Credi di possederlo, di capirlo. Vedi che lo capisci sempre meglio, sempre di più, sino a credere di padroneggiarlo. Sino a diventare lui.
Ma il linguaggio non si lascia possedere, e il suo cuore caldo ti sta bruciando, e ti trovi consumato.

 
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Post N° 32

Post n°32 pubblicato il 15 Ottobre 2004 da CarloCarlucci

« … e anche l’amore fissa occhi attenti.
Ma ciò che resta, lo istituiscono i poeti. »


Friedrich Hölderlin, RAMMEMORAZIONE


Che cos’è ‘rammemorare’? Di cosa parlano questi versi? Heidegger lo spiega in un famoso saggio.
La rammemorazione non è soltanto il pensiero che corre a ciò che è stato (‘zurückdenken’, il pensare all’indietro), ma è anche un ‘andenken’, un ‘pensare a’ “ciò che da lontano continua a dispiegare la sua presenza”.
E’ un ‘pensiero rammemorante’, che prende le mosse da ciò che viene per esistere nella sua essenza nel tempo a venire.


« … e anche l’amore fissa occhi attenti. »



Lo sguardo (‘blick’) degli amanti è un pensiero rammemorante, che guarda verso il fondamento essenziale dell’amato. “Il pensare che affissa, proprio dell’amore, è anch’esso un pensiero rammemorante. Gli amanti pensano in avanti nell’essenza dell’amato, eppure devono sempre ripensare all’indietro, per mantenersi nell’essenza il cui pensiero è stato loro assegnato.”
Lo sguardo dell’amato è un ‘prendersi cura’, un pensare alle cose nella loro essenza, nel loro significato profondo.


« Ma ciò che resta, lo istituiscono i poeti. »


E tuttavia, per quanto questo pensiero “che raccoglie tutto in uno” raccolga “il bello della terra come fondamento di tutti gli enti”, esso non è tuttavia ancora il pensare fondamentale. Esso vede, per dir così, le cose nella luce dello sguardo dell’amato.
Sono solo i poeti ad andare all’origine “da cui si origina ogni abitare dei figli della terra.”
Solo i poeti, infatti, colgono la natura fondante del linguaggio, ciò che “è stabile”.


« Soffia il Nord-est,
dei venti a me il più caro,
perché spirito di fuoco
e buona rotta promette ai naviganti. »


“Poetare è rammemorare. Il pensiero rammemorante è istituzione. L’abitare istituente del poeta mostra e consacra il fondamento per l’abitare poetico dei figli della terra. Una cosa stabile viene a restare. Il pensiero rammemorante è. Il Nord-est soffia.”

 
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Post N° 31

Post n°31 pubblicato il 10 Ottobre 2004 da CarloCarlucci

« Quando la neve cade alla finestra,
a lungo risuona la campana della sera,
per molti la tavola è pronta
e la casa è tutta in ordine.

Alcuni nel loro errare
giungono alla porta per oscuri sentieri.
Aureo fiorisce l'albero delle grazie
dalla fresca linfa della terra.

Silenzioso entra il viandante;
il dolore ha pietrificato la soglia.
Là risplende in pura luce
sopra la tavola pane e vino. »

Georg Trakl


Era molto cara ad Heidegger, questa poesia.
Mi è molto cara.
Parla di soglie, davanti a cui ristare, silenziosi. Di rispetto del dolore.
E di accoglimento, con la semplice, ma profonda offerta di condivisione di cibi umili, quotidiani.
Il dono della Grazia, il più prezioso.

 
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Post N° 30

Post n°30 pubblicato il 04 Ottobre 2004 da CarloCarlucci

L’Identico. Das Selbe. L’unità di appello e risposta.
E’ il farsi concreto di appello e identità, che non si dà necessariamente, dialetticamente, ma presuppone una comunanza più profonda: è ciò che abbiamo dentro da sempre e che condividiamo da sempre.
E’ il modo in cui costruiamo esperienze, che precede le esperienze ma si dà, si attua, necessariamente solo in esse.
E’ il dialogo che noi stessi SIAMO, è l’accadere del parlare, che ci possiede e possediamo; ciò che ci fa esistere e che noi facciamo esistere.
E’ ciò che ci determina, e ci permette di essere, in quanto siamo, per quel che siamo.
E’ il parlare che ci precede e ci richiede.
E’ il nostro essere noi stessi in quanto apparteniamo ad altri.
E’ ciò che ci fa essere oltre, ed è ciò ci porta oltre.
E’ ciò che ci fa ritrovare noi stessi, dove eravamo già, e non siamo stati mai.
E’ la parola del passato che ci parla, ma non in senso storico, in quanto è essa a permettere ogni storia.
E’ il passato che siamo, che ci fa essere senza esserlo mai stati.
Noi siamo l’Identico, ma l’Identico non siamo noi.
L’Identico è il singolare in cui siamo al plurale: è ciò che ci coniuga nella nostra singolarità, facendoci essere ciò che non potremmo essere, l’essere noi stessi oltre noi stessi - necessariamente oltre noi stessi; ciò che siamo già, e non siamo ancora, e saremo per sempre e non saremo mai completamente, definitivamente…

" (...) E quelle
ultime parole tue
parlano ancora con me
senza sosta, mi rispondono
a ciò che ha chiesto
la mia vita il primo giorno."

 
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