Creato da paoloalbert il 20/12/2009

CHIMICA sperimentale

Esperienze in home-lab: considerazioni di chimica sperimentale e altro

 

 

Sintesi della 2,2',4,4'-tetranitrodifenilammina

Post n°373 pubblicato il 12 Aprile 2017 da paoloalbert

Ed eccoci al successivo intermedio della serie in programma, che è partita dal clorobenzene per arrivare a...
Oggi verranno attaccati (mi si perdoni il linguaggio volutamente ruspante) altri due gruppi nitrici -NO2 all'anello benzenico che ne è privo della N-(2,4-dinitrofenil)-fenilammina preparata la volta scorsa, per far diventare la molecola simmetrica secondo la reazione seguente:

 

tetranitrodifenilammina 1


Anche questa nitrazione è facile e favorita, non occorrono condizioni drastiche nè miscela solfonitrica, basta solo un acido di media concentrazione e temperature sotto i 100 gradi.
Ringrazio l'amico M. che mi ha suggerito il procedimento (vi era un'altra alternativa ma ho preferito questa) e al quale avevo promesso che avrei prima o poi replicato la sintesi; aggiungo di mio quegli accorgimenti personali che ogni chimico sperimentale adotta durante lo svolgimento dell'esperienza quando lo ritiene opportuno.

Materiale occorrente:

- N-(2,4-dinitrofenil)-fenilammina
- acido nitrico 56%
- vetreria opportuna

-Porre in un becher da 250 ml 45 ml di acido nitrico concentrato (d. 1.4) e diluirlo con 8 ml di acqua; l'acido così preparato avrà una concentrazione di circa il 56%.
Si pone la miscela nitrante così preparata su agitatore magnetico e si scalda a circa 50°; raggiunta questa temperatura si comincia ad aggiungere a piccole porzioni 8 g di 2,4-(dinitro)difenilammina agitando ogni volta vigorosamente.
Si nota che il reagente a mano a mano introdotto vira abbastanza velocemente dal rosso al giallo e quando è completamente giallo si aggiunge la porzione successiva. Essendo il prodotto molto leggero le aggiunte sono comunque numerose.

 

tetranitrodifenilammina 2

 

Dopo alcune aggiunte l'agitazione magnetica non basta più perchè la miscela diventa via via più viscosa ed occorre aiutare l'ancoretta magnetica mescolando la pastella anche a mano, magari con l'aiuto del solito termometro maneggiato cautamente e che ci permette di tenere la temperatura sotto perfetto controllo.
Durante questa prima fase non ho notato liberazione di ossidi d'azoto.
Terminate le aggiunte aumentare la temperatura scaldando su piastra a 80-90°; raggiunta questa temperatura non serve più agitare a mano perchè la massa sarà ritornata fluida e l'agitazione magnetica sarà di nuovo efficiente.
Con il controllo accurato delle temperature non si ha durante tutta la nitrazione che una minima emissione di ossidi d'azoto e la stessa procede nella massima tranquillità.
Lasciare a 85-90° per circa due ore, mantenendo sempre una buona agitazione e la temperatura costante.
Dopo il tempo stabilito lasciar raffreddare e aggiungere 100 ml di acqua, la quale produce immediata separazione del tetranitroderivato.
Si procede ora alla filtrazione su buchner, lavando ripetutamente il solido giallo con numerose piccole porzioni di acqua fredda per eliminare tutta l'acidità.
Il liquido filtrato deve passare alla fine a pH praticamente neutro.

 

tetranitrodifenilammina 3


Staccare dal filtro ed essicare all'aria la polvere microcristallina di color giallo.
La tonalità verdastra dell'immagine finale è dovuto alla fotografia fatta con la mediocre luce che c'era, la sostanza è perfettamente gialla.

 

tetranitrodifenilammina

 

Ho ottenuto 9,5 g di 2,2',4,4'-tetranitrodifenilammina, con una buona resa dell'88%.
La resa si riferisce naturalmente al prodotto ottenuto supposto puro; non lo sarà al 100% ma in ogni caso rispondente agli scopi che mi sono prefisso.
Non ho quindi ritenuto necessario ricristallizzare perchè la prossima volta il prodotto subirà un ulteriore (robusto!) trattamento e l'ultimo prodotto della saga dovrebbe alla fine farsi finalmente vedere.

 
 
 

Intervallo per l'11 Aprile 1987

Post n°372 pubblicato il 03 Aprile 2017 da paoloalbert

L'undici aprile 2017 ricorrerà il trentesimo anniversario della morte di Primo Levi, chimico sperimentale, letterato e storico (tutti e tre al medesimo livello) del quale io ho infinita ammirazione.
Sono profondamente convinto che se non si è letto "Se questo è un uomo" non si potrà mai capire l'Olocausto, e viceversa.
Nessun documentario, nessuna storia, nessun intervento per quanto sapiente potrà aggiungere nulla alla tragedia dell'Olocausto che l'Opera di Levi non abbia detto, fino in fondo all'anima.
E' un racconto (purtroppo non di fantasia) sul Male Assoluto.
E' uno di quei libri assoluti, per me, e mi è difficile pensare ad un altro libro assoluto, nel bene o nel male.
Credo che per contrapposizione al dramma dell'11 aprile mi rileggerò per l'ennesima volta il delizioso "Sistema periodico", davvero godibile e spensierato.
Il dramma di cui dico è il suicidio di Levi, inspiegabile per tutti ma non per Lui; tutto quanto contenuto in Se questo è un uomo gli è rimasto dentro come un tarlo inesorabile e lo ha corroso dall'interno per quarant'anni, alla fine divorandolo.

Le mie modeste sintesi quindi possono aspettare fino a dopo la data fatidica. Chiuse quasi per lutto, diciamo così.

 
 
 

La festa delle donne e l'H3BO3

Post n°371 pubblicato il 21 Marzo 2017 da paoloalbert

Qualche tempo fa, parlando dell'acido borico (post n. 365) dicevo alla fine che avrei sperimentato un inconsueto metodo di ricerca analitica di quest'acido, ma che l'avrei potuto fare solo in primavera; avrei dovuto dire più precisamente: "DOPO LA FESTA DELLE DONNE".
Siccome tutto il mio blog ruota attorno alla chimica "storica" (la chimica "delle frecce curve" e degli "apparecchi con la spina" non è una chimica affascinante per me...), ascoltate ciò che dice il prof. Molinari e capirete come si possano tirare in ballo le donne, la loro festa, la primavera, l'acido borico, eccetera.

- da: Ettore Molinari - Trattato di Chimica Generale applicata all'industria - Vol. I . Chimica Inorganica - Hoepli 1918 - A pag. 684 si legge:

- ...L.Robin (1913) scopre anche 0,000027 mgr. di acido borico con estratto alcolico di fiori di mimosa, la miscela reagente si addiziona: 1-2 goccie di NaOH diluita pura, poi la soluzione divenuta così gialla si scolora con 2-3 goccie di ac. cloridrico diluito e si evapora a bagno maria, si inumidisce il residuo con ammoniaca conc. e allora si ottiene una colorazione rosa sino a rosso sangue...-

La parola "mimosa" ha svelato ogni correlazione con le donne, vero? Sono lustri che io chiamo l'otto marzo "festa dei fioristi" e sono sicuro di non sbagliare visto l'attuale prezzo al centimetro dei rametti della slendida Acacia dealbata; in ogni caso quest'anno il rametto è entrato in casa mia anche con un secondo fine, assai più prosaico dell'omaggio alle donne, che spero mi perdoneranno per il pensiero un po' interessato.
(La chimica sperimentale fa di questi terribili effetti vista dal di fuori, ne convengo).

 

Mimosa  Tintura di mimosa

 

Per farla breve: passato l'otto marzo e svanita sia la festa che i fiori di mimosa, ho preparato un estratto alcolico dei medesimi e qualche soluzione a diluizione crescente (1 g/l e 100 mg/l e altre di acido borico H3BO3) ed ho eseguito il test di Robin come citato dal Molinari.
Grazie a San Google (per quanto lo si ringrazi non sarà mai abbastanza) avevo anche trovato il seguente estratto bibliografico a corroborazione del primo, che anche in questo caso è un semplice trafiletto:

WILFRED W. SCOTT
A MANUAL OF ANALYTICAL METHODS...
NEW YORK 1917


Traduco: -"Prova di Robin per il boro. Ad alcune gocce di soluzione acquosa in esame (leggermente acidificata con HCl) si aggiungono due gocce di tintura di fiori di mimosa e la miscela è evaporata a secchezza a bagnomaria. Il residuo viene trattato con ammoniaca diluita, al che in presenza di acido borico si sviluppa un colore dal rosa al rosso sangue in funzione della quantità presente. L. Robin sostiene che meno di 0,0001 milligrammi possono essere rilevati in presenza di nitrati, cloruri, ioduri o calcio solfato. Acidi organici e fosfato di sodio interferiscono. Il reagente viene preparato dall'estrazione dei fiori di mimosa con alcool etilico e l'estratto viene conservato protetto dalla luce".


I risultati delle prove (ne ho fatte molte) si vedono sulla piastrina a pozzetti, tenendo presente che dopo l'evaporazione a secchezza rimane un residuo solido marroncino dell'estratto colorante (anche nella prova in bianco ovviamente) che disturba un po'.
Ho condotto il test in questo modo: in ciascun pozzetto 5 gocce di soluzione contenente il boro (nel primo pozzetto acqua distillata come bianco), una goccia di tintura di mimosa e una di HCl molto diluito.
Dopo l'evaporazione ho aggiunto velocemente ad ogni pozzetto mezzo ml di ammoniaca al 20%; la colorazione rosso sangue è istantanea ma dura poco, dopo un minuto già svanisce.

 

A secco

A secco, dopo evaporazione, i pozzetti sembrano quasi uguali

 

Test di Robin

 

Dopo l'aggiunta di ammoniaca. Da sinistra a destra: prova in bianco, 100 mg/l, 1 g/, 2 g/l di H3BO3 - Il colore rosso non appare nel pozzetto di sinistra ma è arancio, la foto è poco fedele. Anche con quantità inferiori a 100 mg/l la colorazione rossa è evidente in presenza di boro.

                                 ...°°°OOO°°°...

Ho provato anche a fare molti dei test "a umido", cioè senza la noia dell'evaporazione; la reazione avviene comunque ma è meno sensibile.
Col primo metodo si svelano veramente tracce di boro, col metodo a umido già 100 ppm di H3BO3 sono al limite.
Faccio notare comunque che con 100 mg/l di H3BO3 la quanttà di boro elemento in 5 gocce è circa 0,009 milligrammi (!), e ciò basta a capire che la sensibilità del test di Robin è effettivamente grandissima.

Visto che bello?
Nonostante abbia cercato con discreto impegno, non sono riuscito a stabilire di che tipo sia il colorante dei fiori di mimosa.
Visto però che un reattivo importante e storico dell'acido borico è anche la curcuma (anch'essa gialla), mi viene il fondato sospetto che anche la mimosa contenga un colorante curcuminoide, e che il colore rosso prodotto sia un parente (ma potrei sbagliarmi) della rosocianina, formata dal complesso della curcumina con il boro.

 

Rosocianina

 

La formula della curcumina, con tutti quei doppi legami coniugati (deve essere un colorante per forza!) si deduce dalla rosocianina qui sopra; della formula della "mimosina" (nome di fantasia inventato sui due piedi) non ho finora notizia documentata, se non che il metodo funziona, che mi sono divertito a farlo e che lo dedico alle donne (così poco apprezzate in qualche altro ambiente "chimico") che casualmente e pazientemente leggessero fin qui.

Bravo sconosciuto L.Robin! Un riconoscente ammiratore ti manda un apprezzamento dopo un secolo abbondante... scommetto che non te lo aspettavi!

 
 
 

Sintesi della N-(2,4-dinitrofenil)-fenilammina

Post n°370 pubblicato il 10 Marzo 2017 da paoloalbert

Tempo fa, nel post n. 245, avevo preparato una quantità maggiore del solito (ca. 30 g) di 2,4-dinitroclorobenzene perchè avevo già allora l'idea di utilizzarlo come futuro intermedio... di un intermedio... di un intermedio... eccetera, fino ad arrivare...
Ecco il secondo intermedio della serie, la N-(2,4-dinitrofenil)-fenilammina, ottenuta grazie ad una favorita sostituzione nucleofila aromatica tra il cloro e l'anilina rispettivamente nei due reagenti in gioco.

La reazione è la seguente:

2,4-dinitrofenilammina


Materiale occorrente:

- 2,4-dinitroclorobenzene
- anilina
- etanolo
- vetreria opportuna

- porre in un pallone da 250ml 15 g di dinitroclorobenzene, 75ml di etanolo e 13 ml di anilina.
L'ammina è in forte eccesso perchè servirà anche ad assorbire l'HCl che si libera man mano dalla reazione formando il rispettivo cloridrato.
Appena aggiunta l'anilina la soluzione assume immediatamente una colorazione rosso-arancio.
Applicare al pallone un refrigerante a bolle e scaldare a piccola fiamma.

 

2,4-dinitrofenilammina

 

[*evidenzio anche in questo caso il mezzo di riscaldamento anacronisticamente adottato: il buon vecchio bunsen e una orrenda reticella decisamente da cambiare. Cose dell'altro mondo rispetto ai lab serissimi? Può darsi... però basta starci attenti e anche in uno sgangherato lab come il mio si riesce a fare con rustici mezzi (proprio come si faceva un tempo!) quasi quel che si vuole...*].

Dopo il pensierino espresso a voce alta il contenuto del pallone si sarà intanto riscaldato e quindi continuare il tranquillo riflusso; ad un certo punto si vedrà iniziare la formazione di una sostanza cristallina rossa che in una mezz'oretta quasi riempirà il pallone, come fosse tutto solidificato; eventualmente aggiungere un poco di etanolo.
Lasciar poi raffreddare, estrarre il prodotto con l'aiuto di una spatolina e filtrare su buchner.

La N-(2,4-dinitrofenil)-fenilammina è assai voluminosa e si filtra con la massima facilità anche comprimendola sul filtro.
Lavarla bene con numerose porzioni di qualche ml di etanolo freddo, il quale alla fine deve passare completamente incoloro ed avrà rimosso sia i reagenti in eccesso che l'anilina cloridrato formatosi.
Seccare all'aria il voluminosissimo prodotto, che si presenta sotto forma di leggeri cristallini sericei di un bel colore rosso arancio brillante.

 

2,4-dinitrofenilammina

 

E' una sintesi veramente di soddisfazione visiva come poche, perchè essendo il prodotto molto leggero, sembra tantissimo; la resa è stata di 16,5 g, pari all'82%.
La prossima volta circa metà di questa 2,4-DFFA subirà un ulteriore trattamento che la farà diventare un successivo intermedio verso la meta finale.

 
 
 

Intervallo - Recupero del bario

Post n°369 pubblicato il 03 Marzo 2017 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

Una volta i famosi Intervalli TV erano costituiti da pecorelle al pascolo e i sottofondi sonori più trasgressivi erano a base di arpa... pling...plong...pling... una nota ogni quarto d'ora.
Il mio intervallo di oggi è altrettanto riposante e riguarda il recupero del bario dal fallimentare esperimento della volta scorsa.
Ho aggiunto al liquido rimasto (dopo aver separato quello sputo di tioglicolato) un ragionevole eccesso di Na2CO3 sciolto in 150 ml di acqua, mescolato bene e lasciato sedimentare il carbonato di bario BaCO3 immediatamente formatosi.
Ho decantato e filtrato su buchner, lavato ben bene il prodotto e ottenuto a secco 9,2 g di un bel prodotto fine e bianchissimo.
La resa naturalmente è quantitativa.

Ora questo carbonato è  facilmente trasformabile in qualunque altro sale di bario e quindi almeno il catione non è stato minimamente sprecato nella sintesi precedente.

-Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma!- predicava quella buon'anima di Antoine-Laurent prima che gli tagliassero la testa.
E anche il mio bario l'ha preso in parola.

 
 
 

Sintesi dell'acido tioglicolico

Post n°368 pubblicato il 24 Febbraio 2017 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

Ahi, ahi, che titolo pretenzioso per una ciambellina senza buco!
Come si sa, ogni tanto piazzo qui anche le ciambelle mal riuscite e questo è uno di quei casi, fortunatamente non troppo frequenti, ma che è giusto documentare.
Ma partiamo dall'inizio.
Come ho detto qualche volta, mi piacciono i composti organici contenenti lo zolfo ed in modo speciale quelli che al posto del gruppo alcolico -OH hanno quello tiolico -SH; riscorrendo il libro di Gian Maurizio Reiner "Sintesi ed applicazioni dei reagenti organici" (Hoepli 1953) mi sono imbattuto (per l'ennesima volta) nella sintesi dell'acido tioglicolico, sintesi per la quale avevo comodi i reagenti.
-Questa volta lo faccio!- ho pensato, e così è stato... almeno nelle intenzioni.
L'acido tioglicolico (o meglio il vecchio "mercaptoacetico", che ricorda con più forza il puzzolente gruppo -SH) ha la semplice formula HS-CH2-COOH, dove un idrogeno metilico dell'acido acetico è sostituito non dall'-OH (acido glicolico) ma dall'-SH di cui sopra.

Per farla breve, riassumo quanto dice il Reiner riguardo le caratteristiche e la procedura di sintesi.
L'acido tioglicolico è un liquido maleodorante (e non poteva essere altrimenti) bollente a 108° a 16 mmHg, solubile in acqua e nei comuni solventi, stabile allo stato di sali; all'aria si ossida facilmente ad acido ditioglicolico HOOC-CH2-S-S-CH2-COOH e forma alcuni sali poco solubili, come quello d'argento e di bario (circa 1% in acqua a 20°).
Si prepara (o devo dire: si preparerebbe?) come segue:

-50 g di acido monocloroacetico Cl-CH2-COOH vengono sciolti in 25 ml di acqua ed a soluzione ottenuta, sotto buona agitazione, vengono aggiunti goccia a goccia 480 ml di una soluzione al 15% di potassio solfidrato KHS.
Terminata l'aggiunta si scalda a b.m. a 70-80° e si aggiunge alla soluzione calda una soluzione concentrata di 122 g di bario cloruro BaCl2.2H2O contenente 46 ml di ammoniaca al 25%.
Si raffredda e si lascia cristallizzare per 3-4 ore, aiutando la cristallizzazione con lo sfregamento delle pareti del becher con una bacchetta di vetro.

Vecchi sistemi ancora validi, e così ho fatto.
Unica variazione alla procedura (oltre a dividere per 10 le quantità) è stata la sostituzione del solfidrato di potassio con quello di sodio, NaHS, aggiustandolo secondo stechiometria (5,6 g contro 7,2).
La reazione bruta è semplice: il gruppo -SH del sale va a sostituire il cloro dell'acido formando cloruro alcalino e ac. mercaptoacetico, poi precipitato come sale di bario poco solubile.
Tutto bello in teoria, ma la sorpresa è stata che il sale di bario precipitato...è stato solo 0,7 g!
Me ne aspettavo una quantità superiore almeno di un ordine di grandezza e ritengo che l'aver sostituito il sodio con il potassio sia del tutto ininfluente.
E allora? Da cosa è dipeso questo irrisorio rendimento, da non meritare nemmeno una foto?
Finora non lo so; bisognerebbe che qualche altro sperimentatore volonteroso replicasse la sintesi, ma in questi tempi di "Chimici sperimentali da tastiera" ciò appare assai improbabile.
Ma non dispero... butto l'amo nella ciotolina.

Ora dovrei, per completare la sintesi, trattare il tioglicolato di bario con acido solforico, precipitare e separare il BaSO4 (questo sarebbe banale), estrarre l'acido organico reso libero con etere, evaporare l'etere e distillare a pressione ridotta il tioglicolico... così, tanto per vedere che faccia ha e se davvero spande nell'aria i suoi odorosi -SH
Ovviamente con meno di un grammo di sale di bario la questione nemmeno si pone perchè la resa finale sarebbe esattamente uguale a zero.
E allora mi tengo come ricordino un pizzico di mercaptoacetato di bario, che come dimensioni non è certo una ciambella ma almeno un biscottino microscopico testimone di qualcosa da appurare.
Prima ipotesi: ho commesso qualche errore durante la procedura? Può essere.
Seconda ipotesi: colpa del Reiner che ha riportato una procedura non ben collaudata? Meno probabile, ma può essere.

I tioglicolati, per la loro azione su peli e capelli (rompono i ponti disolfuro della cheratina) sono usati sia come prodotti nelle composizioni per le "permanenti" delle signore (sale di ammonio) sia come agenti depilatori nell'industria della concia delle pelli (sale di di calcio).

 
 
 

La pila Daniell

Post n°367 pubblicato il 10 Febbraio 2017 da paoloalbert

Mi ero fatto fare da un artigiano ceramista, tempo fa, un bel bicchierino di materiale poroso da usare in esperienze di elettrochimica.
Un setto poroso è in pratica un separatore che impedisce (o almeno cerca di farlo) il mescolamento fisico di due soluzioni diverse che si trovano sulle sue facce opposte ma che non si oppone al passaggio degli ioni da una parte e dall'altra.
In parole povere le cariche elettriche lo possono attraversare facilmente, mentre altrettanto non avviene per i liquidi che costituiscono le soluzioni ioniche.
Ho pensato che uno dei primi usi che avrei fatto di questo oggettino in ceramica non verniciata sarebbe stata la costruzione di una pila Daniell, più o meno come la si vede su quel meraviglioso libro della mia bisnonna, lo Squinarol del 1898, di cui ho già parlato e che gelosamente conservo.
Ecco una di quelle suggestive immagini al tratto e relativo commento, come appaiono sul libro dell'esimio professore di Rovereto.

 

 

Testo ed immagini, non c'è bisogno di sottolinearlo, sono anni luce lontane dal nostro tempo e proprio per questo suggestive.
Cercando in rete (o sui libri!) si trova tutto quello che si vuole sulle pile, sulla Daniell, sull'elettrochimica, sui potenziali di ossidoriduzione interessati a questa esperienza... eccetera, eccetera... quindi non spenderò una parola in più: diamoci da fare in pratica.

Con l'ausilio di un tubo di ferro ed una morsa ho piegato a forma di semicilindro del diametro di 50 mm una spessa piastrina di zinco, che costituirà l'elettrodo negativo.
Allo stesso modo ho trattato una lamina di rame per l'elettrodo positivo, ottenendo un cilindro di 30 mm di diametro.
Il mio setto poroso ha un diametro di 40 mm, quindi lo zinco lo circonderà all'esterno ed il rame all'interno.
I tre elementi saranno contenuti a loro volta in un becher da 250 ml.


daniell 2  daniell 3


L'anodo al quale avviene l'ossidazione (lo zinco) ed il catodo al quale avviene la riduzione (il rame) devono essere immersi in una soluzione di un loro sale e quindi ho preparato due soluzioni concentrate (circa 1M), rispettivamente di solfato di zinco ZnSO4.7H2O e di solfato di rame CuSO4.5H2O.
La prima riempirà l'intercapedine tra il becher ed il setto poroso e la seconda troverà posto all'interno.

NOTA:
-sui libri di chimica moderni (esclusivamente teorici) e nelle esperienze scolastiche la pila è sempre rappresentata da due soluzioni saline contenute ognuna nel suo contenitore ed il passaggio ionico tra una e l'altra è realizzato con un "ponte salino" contenuto in un tubetto di vetro piegato ad U con le estremità immerse nei due bicchieri.
Se in teoria il sistema funziona, in pratica questo accrocco ha una resistenza interna tanto elevata da rendere la pila capace di generare solo pochi milliampere.
Ho verificato che anche il mio setto poroso lascia a desiderare (pori troppo piccoli), ma che se è fatto bene la superficie di passaggio ionico è grande e la resistenza interna piccola, fermo restando l'identico principio di funzionamento.
Fine della nota.

Immersi i due elettrodi, ecco quanto mi devo aspettare (dalla tabella dei potenziali elettrochimici):

E = E0 (Cu2+/ Cu) - E0 (Zn2+/ Zn) = 0.34 - (- 0.76) = 1.1 volt

Riempiamo la cella con tutti gli elementi e andiamo a verificare con il voltmetro: 1,023 volt, 80 mV scarsi di differenza.

daniell 4  daniell 5


Questo naturalmente a circuito aperto; a circuito chiuso le cose cambiano perchè entra in gioco la resistenza interna della pila e altri fattori.
La pila è costituita da un singolo elemento da poco più di un Volt, che è una tensione troppo piccola per far funzionare qualsiasi utilizzatore; nel caso specifico non è possibile accendere nemmeno un LED, che ha una tensione di soglia minima (LED rosso) di circa 1,6 volt.
Occorrerebbe collegare in serie più elementi di pila, come si faceva una volta, per ottenere la tensione voluta.

Se la pila di John Daniell fu inventata nel 1836, voglio ricordare con ammirazione Sir Humphry Davy, che nella prima decade dell'ottocento riuscì ad isolare il sodio, il potassio, il calcio, lo stronzio, il bario ed il magnesio per elettrolisi, utilizzando addirittura le primitive (nel senso più letterale del termine) pile di Volta, dal bassissimo rendimento.
Un blocchetto del relativo idrossido umido, un piccolo pozzetto con del mercurio, un filo di platino... e via con la corrente, fino ad ottenere un'amalgama, magari di potassio!
Prima o poi provo a ripetere l'esperienza di Sir Humphry, garantito!

 
 
 

Preparazione del Triossalocromato di potassio

Post n°366 pubblicato il 21 Gennaio 2017 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

In Inorganic Syntheses mi sono imbattuto nella preparazione di un sale che avevo già provato a fare qualche anno fa, basandomi su un'altra fonte e con esiti allora abbastanza infelici.
La sostanza in oggetto è formata dal catione potassio legato all'anione complesso del cromo con l'acido ossalico.
Ecco la "bruta" reazione sperimentale in gioco:

7 H2C2O4 + 2 K2CO3 + K2Cr2O7 --> 2 K3[Cr(C2O4)3] + 6 CO2 + H2O

Il cromo esavalente del bicromato viene ridotto a Cr(III) e complessato dall'ossalico; fortunatamente i coprodotti della reazione sono solo acqua e gas, quindi automaticamente separabili dal prodotto principale.
Ho cercato di rispettare per quanto possibile la stechiometria nei reagenti, in modo da avere alla fine (o almeno cercare di avere...) un prodotto accettabilmente puro.
Variando opportunamente (anche in maniera significativa) le procedure è possibile ottenere il medesimo tipo di sali complessi sostituendo il cromo con i metalli alluminio, ferro e cobalto, ottenendo triossaloalluminati, triossaloferrati e triossalocobaltati, con la formula generale [M(C204)3]3- , ognuno con tre molecole di acqua di cristallizzazione.
Nel nostro caso si otterrà alla fine K3[Cr(C2O4)3].3H2O

Materiale occorrente

Acido ossalico diidrato HOOC-COOH.2H2O
Potassio ossalato monoidrato KOOC-COOK.H2O
Potassio dicromato K2Cr2O7

-Ad una soluzione di 2,3 g di potassio ossalato monoidrato, di 5,5 g di acido ossalico diidrato in 80 ml di acqua, si aggiungono a piccole porzioni e mescolando vigorosamente, 1,9 g di potassio dicromato.
Si nota durante l'aggiunta il cambiamento di colore del bicromato da arancio a verdastro scuro e lo svolgimento di anidride carbonica.
Quando la reazione tende a finire, scaldare e poi evaporare fino ridurre il volume del lquido a circa un decimo di quello di partenza.
La fonte diceva di evaporare fin quasi a secchezza, ma vista l'esperienza precedente (principalmente al fine di non ottenere una polveraccia verdastra) ho preferito fermarmi prima per avere un prodotto ben cristallizzabile, al costo inevitabile di peggiorare la resa dal momento che il complesso è solubilissimo in acqua.
Lasciando raffreddare molto lentamente e poi una notte a riposare al freddo (di questa stagione ciò non costituisce un problema!) il potassio triossalocromato cristallizza in bei prismi di un verde scurissimo, quasi neri, dei quali ho purtroppo solo questa pessima immagine (che non rende alcuna giustizia al prodotto); le altre le ho perse.

 

Potassio triossalocromato

 

La resa è stata scarsina come previsto, 4,5 g pari a circa il 67%, ma stavolta il risultato è stato indubbiamente migliore.
E così abbiamo fatto e visto anche questo complesso... ulteriore e semplice soddisfazioncina per chi ama la chimica sperimentale.

 
 
 

L'Acido borico, H3BO3

Post n°365 pubblicato il 08 Gennaio 2017 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

Passando dalla zona delle Colline Metallifere toscane, dopo San Galgano ed il suo ferro trovato per caso (post n. 361), ho voluto vedere l'originale acido borico di Larderello.
Si entra gratuitamente (!) nel bel museo della geotermia, sito nel palazzo che fu di Jacques de Larderel, l'industriale francese dal quale la singolarissima località prende il nome.
Singolarissima è dir poco, perchè non capita tutti i giorni di attraversare una zona nella quale, dalle colline circostanti e da tutte le direzioni, arrivano serpentoni metallici che hanno succhiato preziosissima energia dalla terra.
Come un nugolo di zanzare giganti che piantano nelle vene delle colline i loro pungiglioni e convogliano tutte insieme i fluidi estratti verso la pancia di un enorme insaziabile insetto, la centrale geotermica, che li elabora, li digerisce e li espelle.
Uno dei prodotti di questa "espulsione" è l'acido borico.
Provate a sorvolare da vicino la zona di Larderello con Google Maps, è una meraviglia!

 

Larderello


Per curiosità ecco quanto scriveva nel 1918 il prof. Ettore Molinari (ved. post n. 317) nel suo librone "Chimica inorganica":

- Nelle Maremme toscane e specialmente a Larderello e paesi vicini, da alcuni crepacci del terreno escono dei soffioni di vapor d'acqua molto caldi chiamati anche fumaroli, che contengono una piccola dose di acido borico insieme a CO2, NH3, H2S e alquanto solfato ammonico.
Condensando questi vapori in vasche d'acqua (lagoni) e concentrando la soluzione diluita (2%) si separa dell'acido borico cristallizzato.
In questi ultimi anni mercè gli studi del prof. Nasini la lavorazione dei prodotti di quei soffioni è stata resa più razionale, utilizzando anche il calore di quei vapori e lavorando l'acido borico sino all'ultima raffinazione.
A Larderello i soffioni boraciferi hanno una pressione di 2-3 atmosfere ed una temperatura di 150-190 gradi.
In Toscana si trova dell'acido borico cristallino nel terreno col nome locale di Sassolino. Allo stato di borato sodico (tinkal) abbonda nel Thibet e in California. ...
L'acido borico si usa in gran quantità in medicina (specialmente in oculistica) come buono, ma blando, antisettico; se ne consuma molto abusivamente per conservare le sostanze alimentari (conserve di legumi, di pomidoro, ecc.).
Scaldato a lungo a 80-100° perde una molecola d'acqua e forma acido metaborico (HBO2).

Così brevemente il Molinari a proposito di questo simpatico acido; ricordo, a conferma di quanto afferma il grande Ettore, che la mia vecchia nonna teneva sempre nel suo armadio una bottiglia di "acqua borica" (una soluzione al 3% di H3BO3), che usava appunto come blando disinfettante oftalmico.
(Sono tuttavia sicuro che la buon'anima non l'ha mai usato per conservare nè legumi nè "pomidoro").
Lo acquistava in farmacia, in certe bustine verdi contenenti 30 grammi di H3BO3, rigorosamente provenienti dalle officine di Larderello, da sciogliere in un litro di acqua bollita.
Con pochissime lire si aveva... una quantità industriale di collirio!
Che funzionasse più o meno come quei costosissimi e blandi flaconcini moderni da qualche ml? Mi resta il dubbio...

Per la ricerca analitica dell'acido borico esiste anche un singolare metodo che voglio provare, ma la prova la posso fare solo in primavera (a suo tempo si scoprirà perchè).
Spero di ricordarmene fra qualche mese.

 
 
 

Solstizio di dicembre 2016

Post n°364 pubblicato il 21 Dicembre 2016 da paoloalbert

Oggi è il solstizio d'inverno, il sole splende e da domani splenderà un pelino più a lungo!
Magnifica notizia!

Ci sono invece, nella foto di questa imprecisata giornata di dicembre, sette gradi sotto zero e la brina si è cristallizzata su tutto ciò che ha trovato... il prato, un paio di vecchie piante di marasca e i castagni... ed il colore verdastro rende l'idea del freddo che c'era qualche giorno fa attorno al mio lab chimico ormai quasi semicristallizzato anch'esso.

 

Inverno

 

Sarebbe il tempo ideale per delle magnifiche diazotazioni "on the rocks" (la materia prima per tenere ghiacciato l'ambiente di reazione non mancherebbe!) ma mancano i reagenti, quelli inediti, bellissimi, interessanti e costosi, che ho deciso di non rinnovare.
E per adesso accontentiamoci quindi di guardar fuori, che è già di per sè una gran soddisfazione.


B  U  O  N      N  A  T  A  L  E     E     B  U  O  N     A  N  N  O  !

 
 
 

Coincidenze cosmiche e numerologiche

Post n°363 pubblicato il 12 Dicembre 2016 da paoloalbert

Ovvero la NON-piramide magica che suona un concerto mirabile di corrispondenze numeriche, cosmiche ed esoteriche.
Finora sembra tutto criptico, ma vedrete che è più semplice di quanto può apparire.

Vicino al mio lab c'è da tanti anni una casetta di legno, una di quelle casette in miniatura che chi ha un orto e un pezzo di prato da coltivare ci tiene gli attrezzi da lavoro.
Io ci tengo, fra le altre cose, anche una vanga e un forcone (più tardi si capirà la fondamentale importanza di questi due oggetti).
Per inquadrare esattamente il discorso che andrò a fare occorre precisare quanto segue:

la larghezza di questo "mini-edificio" è 156 cm
la sua lunghezza è 178 cm
la sua altezza, escluso il tetto, è 167 cm
la larghezza della semifalda del tetto è 105 cm
la lunghezza della falda è 235 cm
le assicelle di rivestimento sono larghe 11 cm
l'altezza della finestra è 50 cm
il bancalino della finestra è largo 5 cm
lo spessore del bancalino della finestra è 3,5cm
l'angolo del tetto con l'orizzonte è 25 gradi
la larghezza della porta è 52 cm
l'altezza della porta è 160 cm
il numero di cardini della porta è 2
il manico della vanga misura 134 cm
il manico del forcone misura solo 128 cm


Immediatamente sotto si capirà perchè dovevo essere così pedantemente esatto e rigoroso nelle misure della casetta e degli annessi; con misure anche leggermente differenti tutto il ragionamento che segue collasserebbe impietosamente, come un big-crunch in miniatura.
Si capirà come la minima imprecisione implichi, in casi come questi, la fine della teoria intera; in parole povere un disastro.

Ma dove sta l'arcano? Dove diavolo voglio andare a parare? Di cosa sto blaterando?
Un attimo ancora e siamo arrivati.
Se si ha l'accortezza (e un po' di acume, mi si perdoni l'immodestia) di guardare non solo davanti ma anche un po' di sbieco quegli aridi numeri, osserviamo quanto segue:

-la lunghezza della falda del tetto è uguale al peso atomico dell'isotopo fissile dell'uranio (235)!

-la differenza tra la lunghezza e l'altezza corrisponde al numero di protoni del vanadio (23).

-il rapporto tra il perimetro della base e lo spessore del bancalino della finestra è incredibilmente uguale al raggio atomico del tallio! (191, in angstrom)

-sottraendo dal rapporto tra l'area del tetto ed il suo perimetro la tripla larghezza delle assicelle di rivestimento si ottiene il Volume molare standard (22,4 litri).

-la differenza tra le lunghezze del manico della vanga e quella del forcone moltiplicata per 10^23 fornisce la costante di Avogadro, numero di particelle in una mole di qualsiasi sostanza (6*10^23).

-sommando alla differenza di cui sopra l'altezza della finestra si ottiene il peso atomico del Ferro (56, elemento fondamentale sia per la vanga che per il forcone).

[- a proposito di forconi, sottraendo il numero dei cardini della porta al perimetro di base si ottiene (mi vergogno a dirlo) il numero della Bestia (666)...]

-la somma dei tre elementi: perimetro di base, perimetro del tetto e lunghezza della falda del tetto fornisce l'anno della morte di Lavoisier!

-moltiplicando il seno dell'angolo del tetto per il suo coseno, per pigreco e per l'altezza della porta si ottiene il peso molecolare dell'osmio!

-il quadrato dell'altezza della finestra espesso in cubiti ebraici antichi (dividere per 44,4) è incredibilmente vicino al punto di ebollizione dell'acetone (56)!

-associando i tre elementi fondamentali delle sostanze organiche (C-H-O) ai tre numeri decimali (466) della tangente dell'angolo del tetto otteniamo una bella molecola: C4H6O6, l'acido tartarico!

-ed infine (ma questo è banale), la differenza tra l'altezza e la larghezza della porta corrisponde alla distanza di Venere dal Sole in milioni di km.

-e, proprio per concludere in gloria, il cubo della misura delle assicelle sommato al lato della falda del tetto e alla misura del bancalino della finestra fornisce... fornisce... non ci crederete ma è vero... la data della Battaglia di Lepanto (1571)!!!

Converrete con me che è pazzesco, semplicemente pazzesco.

Ho scoperto (e ne sono sconvolto) che la mia casetta per gli attrezzi (nella quale tengo anche qualche bidone di terra concimata) è una fonte infinita di quelle notizie che possono essere espresse con un numero, cioè praticamente quasi tutto ciò che si definisce scientifico!
Dai miei bidoni di concime posso estrarre quasi tutto lo scibile cosmico, vi rendete conto?
Voglio sapere per sfizio quanti mille isomeri ha il 4,4,7,9-tetrametilpentadecano?
No problem, qualche calcoletto e li trovo.
Voglio sapere quanti erano "esattamente" i lanzichenecchi del Sacco di Roma del 1527, ma solo quelli mancini?
Nulla di più facile per la mia casetta, basta saperla prendere per il verso giusto.
Ovviamente dovrò fare più misure... il volume dei bidoni di concime... la spaziatura fra le branche del forcone... l'orientamento verso la Stella polare... eccetera, eccetera.

Numerologia, sei forte! Da oggi ti tengo e ho il Sapere Universale in tasca!

 

Casetta esoterica

La casetta magica esoterica con alcuni attrezzi divinatori: Vanga, Forca, Forcone.
Il Rastrello, la Zappa e il Concime sono all'inteno.

 
 
 

2016, l'anno dei Senza

Post n°362 pubblicato il 18 Novembre 2016 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

Ogni anno ha le sue ricorrenze, anche più di una.
Oltre alle ricorrenze serie, sulle quali sorvolo, c'è l'Anno della scimmia, l'Anno della resurrezione neroazzurra, l'Anno della svolta, l'Anno del siamo fuori dal tunnel... eccetera eccetera, metteteci quello che volete, ogni anno viene eletto a seconda dei gusti dei proponitori.

Ma quest'anno è veramente eccezionale, da segnare sui manuali della Cronologia Universale.
E allora anch'io propongo una ricorrenza per quest'anno (dato che qualche volta devo frequentare i supermercati e dare un'occhiata alla tivù): che il duemilasedici sia solennemente proclamato

                          
A N N O    D E I    S E N Z A !

Senza chè? Senza tutto.

Senza lattosio, senza grassi aggiunti, senza colesterolo, senza farina, senza conservanti, senza fluoro, senza zuccheri aggiunti, senza polifosfati, senza naftalina, senza glutine, senza nichel, senza carboidrati, senza lievito, senza sale, senza amido, senza canfora, senza spezie, senza pvc, e la lista potrebbe continuare ancora per mezzo metro.
Da un po' di tempo perchè un prodotto sia accattivante per il consumatore non deve contenere qualcosa di buono, ma DEVE tassativamente essere SENZA qualcosa!

-Fiato alle trombe Turchetti!- c'è da incoronare il Grande Assente, l'Imperatore del Supermercato 2016: Sua Altezza Incommensurabile l'Olio di Palma!!!

Evviva, da quest'anno l'umanità è salva: non consumeremo mai più una molecola del grande Satana! FANTASTICO!
Se fino al 2015 non sapevamo di essere fottuti, oggi senza Olio di Palma (le maiuscole sono d'obbligo) siamo finalmente più vicini al Grande Traguardo!
Come diamine avrò fatto io a diventar vecchio, che magari ne avrò mangiato tonnellate senza saperlo?
Avrò mangiato Olio di Palma, vi rendete conto?   O-L-I-O   D-I   P-A-L-M-A!!!
Mi sento un miracolato... è una categoria rara ma evidentemente esiste anch'essa.

Domani vado al supermercato: se trovo qualcosa che contiene O.d.P, garantito che la compro.
E d'ora in poi se trovo qualcosa SENZA qualcosa rimane dov'è.

 
 
 

Il ferro di San Galgano

Post n°361 pubblicato il 07 Novembre 2016 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

Qualche giorno fa, in una anomala giornata di fine ottobre quasi estiva, camminando lungo il sentierino che dall'abbazia di San Galgano conduce a Montesiepi mi è capitato casualmente di buttar l'occhio su un sasso che, avendo un po' di esperienza in queste cose, proprio un sasso-sasso non mi pareva.

San Galgano è il personaggio storico della spada nella roccia (quella vera, non la storiella di Re Artù), e Montesiepi è la bella chiesetta a cupola bicroma dove è piantata, appunto nella roccia la spada di quel tizio che abbandonò abbastanza platealmente il mondo materiale per entrare in quello spirituale.
Quando la grande abbazia cistercense fu costruita (siamo nel milleduecento) il cantiere divenne assai importante ed era supportato da opere di lavoro di ogni tipo, dalla fonderia per i vetri, da forni per la calce, oltre a tutto quanto concernente la scalpellineria e la lavorazione della pietra in generale.
Per quanto riguarda i metalli vi erano addirittura forni per la loro produzione, utilizzando minerali provenienti probabilmente dall'Isola d'Elba o dalle non lontane Colline Metallifere, nella zona di Massa Marittima.

Quel sasso di cui dicevo all'inizio si è rivelato alla prima occhiata (e alla prima presa in mano per saggiarne il peso specifico) un minerale ferroso, del quale non mi azzardo a dire se si tratti di un frammento di un antico minerale alloctono o se più semplicemente derivi da qualche vicina vena mineralizzata superficiale.

 

San Galgano 1


Trovandosi all'aria da chissà quanto tempo si mostra completamente limonitizzato, in una ganga a matrice probabilmente silicatica (non dà la minima effervescenza all'acido cloridrico).
Per pura curiosità ed in maniera assai semplice e senza alcuna presunzione di precisione, ho provato a controllare il contenuto in ferro di questo campione per avere un'idea del suo ordine di grandezza.
Ne ho prelevato un frammento del peso di 3,32 grammi da un punto che mi pareva significativo e l'ho trattato a caldo prolungatamente con miscela cloridrico-nitrica, fino a dissoluzione più completa possibile.
Ho ottenuto come previsto un residuo biancastro insolubile.
La soluzione limpida e gialla (FeCl3), filtrata e diluita fino a 200 ml, è stata trattata con ammoniaca fino a pH basico, ottemendo un copioso precipitato color ruggine di idrossido ferrico Fe(OH)3.
La sospensione è stata bollita per favorire la flocculazione del precipitato e poi filtrata e lavata.

 

San Galgano 2


Questo idrossido è finissimo e tende ad inglobare altri ioni, quindi è difficile ottenerlo sicuramente puro, tuttavia per la precisone che mi proponevo questa analisi quantitativa abbastanza grossolana può essere considerata del tutto sufficiente.
Il filtro è poi stato posto in forno a 150 gradi fino ad essicazione completa e pesato.
Si sono ottenuti 1,41 g di Fe(OH)3, che con qualche calcoletto stechiometrico forniscono una percentuale in ferro nel frammento di circa il 22%, che è un contenuto niente male per un mineralaccio del genere.

Posso prendermi la libertà e la fantasia di immaginare questo minerale come sorgente, o almeno come lontano o lontanissimo precursore di qualche manufatto metallico dell'antica abbazia?

L'abbazia di San Galgano cadde rapidamente in disgrazia (cominciò a rovinare già nel cinquecento) ed è stata definitivamente sconsacrata nel lontano 1789.
Rimane ora uno splendido e suggestivo monumento del gotico prerinascimentale, completamente spoglio e senza tetto, di grande suggestione nella bella campagna toscana tra il senese ed il grossetano.
Si potrebbe gustare ancor di più la sua visita, a parer mio, al tramonto di una brumosa giornata autunnale, quando la luce e l'atmosfera più contemplativa amplificherebbero il potere evocativo di passate glorie e grandezze, ridotte dal tempo a ruderi solenni.

 
 
 

Solfuro di piombo, raddrizzi o non raddrizzi?

Post n°360 pubblicato il 20 Ottobre 2016 da paoloalbert

Quale tempo migliore di una uggiosa e piovosa giornata di ottobre per fare un test sperimentale sulle proprietà semiconduttrici del solfuro di piombo cristallizzato, cioè della galena?
(Scherzi a parte, qualcosa di attinente a quello che dirò oggi si trova rispolverando  i miei vecchi post n. 147 e 149).

La galena, per funzionare come diodo rivelatore (raddrizzatore in alta frequenza) deve comportarsi nel seguente modo: applicando un segnale sinusoidale in ingresso, si deve ottenere un segnale "raddrizzato" (mancante delle mezze semionde della sinusoide, positive o negative) in uscita.
Andiamo a verificare se è vero.

Materiale occorrente:

- Cristallo di galena
- Generatore sinusoidale
- Oscilloscopio a doppia traccia
- Diodo al germanio di comparazione

Il semplicissimo schema del circuito è il seguente:

 

Galena 1


Il segnale del generatore (la frequenza poco importa in questo caso) viene mandato al canale A dell'oscilloscopio e al diodo D (il cristallo di galena in prova) e poi da questo al canale B dell'oscilloscopio, per poter confrontare la forma del segnale in ingresso e in uscita dal cristallo stesso.
La resistenza R (di circa 1 Kohm) è il carico del diodo, indispensabile per visualizzarne il corretto funzionamento raddrizzante.
Prima della prova ho verificato il circuito utilizzando un diodo al germanio di comparazione, ed ecco come è apparso all'oscilloscopio il segnale corretto: in basso la sinusoide completa (canale A) ed in alto l'uscita dopo il diodo (canale B).
Si vede che il diodo ha fatto il suo dovere tagliando di netto le creste positive.
(Invertendo i contatti del diodo verrebbero tagliate le creste negative, e questo tipo di raddrizzatore viene detto "a semionda").

 

Galena 2


Ora è la volta del mio paleozoico semiconduttore, ovvero della galena... e qui cominciano le difficoltà.
I contatti elettrici al cristallo sono stati fatti con una presa a coccodrillo da una parte ed il cosiddetto "baffo di gatto" (un sottile filo di acciaio) dall'altra.
Una settantina di anni fa abbondanti, quando con la radio a galena si ascoltava abusivamente Radio Londra, occorreva una infinita pazienza per posizionare il baffo di gatto su un punto preciso del cristallo, dove esso è davvero semiconduttore e solo in quel punto, difficile da trovare, la ricezione era possibile.

 

Galena 3

Il setup sperimentale, con i contatti sul cristallone di PbS


Pur con molta esperienza su questo tipo di ricevitori, devo dire che mi aspettavo un funzionamento del cristallo molto più immediato, mentre per visualizzare e fotografare all'oscilloscopio una parvenza di effetto raddrizzante ho dovuto posizionare il contatto UNA INFINITA' di volte, e lo dico in senso letterale.
Ho provato anche con due tipi di minerale di diversa provenienza ed i risultati erano sempre i medesimi: conduzione quasi perfetta su quasi tutti i punti, come fosse un normale conduttore ohmico, e quindi come risultato si aveva sempre uguale forma d'onda sia in ingresso che in uscita.
A forza di sfiorare il cristallo su diversi punti, ad un certo punto il meglio che sono riuscito alla fine ad ottenere è ciò che si vede nell'immagine qui sotto:

 

Galena 4

 

Nella traccia del canale B (in alto) si vede una sinusoide asimmetrica, ben lontano dalla forma ideale vista prima, ma con le semionde positive abbastanza attenuate, segno evidente di un comportamento non lineare del cristallo.
Sovrapponendo le due tracce dell'oscilloscopio l'effetto si nota ancora meglio (immagine qui sotto).

 

Galena 6


Per concludere, questo diodo al solfuro di piombo raddrizza sì in qualche modo, ma lo fa malaccio, in perdita, come una valvola idraulica senza guarnizione.

Consideriamo tuttavia che questi rivelatori erano in uso quando i diodi al germanio (e più tardi quelli al silicio) erano ancora di là a venire e nessuno ancora parlava di elettroni e lacune, di drogaggio P e drogaggio N, quindi accontentiamoci abbondantemente.
Bene o male il sistema funzionava e portava nelle case anche senza energia elettrica  dei nonni la voce del Colonnello Stevens che aggiornava sull'avanzamento degli alleati verso la Linea Gotica.

Ricordo che quando da bambino giocavo con la radio a galena era effettivamente assai laborioso trovare il punto sensibile sul cristallo, ma ormai i miei tempi erano maturi per trovare facilmente in commercio i comodisssimi diodi al germanio (i famosi 1N34 o gli OA70), che non abbisognavano di nessuna regolazione ed erano estremamente più sensibili della macchinosa galena d'anteguerra.
Oggi, dopo un po' di decenni, ho finalmente verificato sperimentalmente perchè avevo ragione a spazientirmi quando occorreva pasticciare mezz'ora per muovere microscopicamente quel baffo di gatto sulla superficie del cristallo e tante volte nemmeno così si riusciva a sentire un accidente.

 

Galena 5

         Il vecchio detector a galena col baffo di gatto regolabile

E la pirite? E la zincite? E il carborundum? Non erano tutti usati, chi più chi meno, come cristalli rivelatori nei tempi che furono?
La pirite l'ho provata, e trovarci un punto stabile in cui è semiconduttrice (che esiste) è quasi impossibile.
Gli altri due semplicemente non li ho, altrimenti se ne andava un'altra bellissima giornata piovosa di ottobre.

 
 
 

Intervallo

Post n°359 pubblicato il 06 Ottobre 2016 da paoloalbert

Più di un mese senza un post... mai successo!
Ahi, ahi, ahi, che sia l'inizio della fine?

Tutto ha un inizio, una maturità, una fine, non si scappa.
Questo banale discorso mi fa sempre venire in mente i dinosauri: dal Triassico in poi sembravano eterni e poi, a 65 milioni di anni del calendarione terrestre... zacchete, morti per sempre!
Spariti, estinti, stecchiti.
Il Re è morto, viva il Re!
Il mio blog, delle dimensioni forse di una molecola di dinosauro, sottostà inesorabilmente alla stessa regola... beh, chi vivrà vedrà.

Per addolcire la pillola ci metto dentro un po' di mirtilli rossi.
Siete mai stati a Passo Pennes a fine settembre? Andateci, ne vale la pena.
Una tundra sconfinata a 2200 metri ricoperta dovunque di minuscole pianticelle di mirtillo rosso, maturo, amarognolo quanto si deve, da farci delle crostatine degne di una montagna maestosa.


Mirtillo rosso


Poi, volendo, scendendo a valle le miniere di Monteneve son lì che aspettano.
Ma di queste ho già parlato abbastanza.

Gut Herbst, guten Aufenthalt!

 
 
 

Sintesi del cloretone

Post n°358 pubblicato il 01 Settembre 2016 da paoloalbert

La complessità delle molecole chimico-farmaceutiche moderne spesso, anche se non sempre, è molto elevata; ci sono infatti molecole bellissime e strane, frutto di una ricerca costosa (ma che poi renderà, eccome se renderà!!!, se tutte le sperimentazioni andranno a buon fine).
Siccome a me piace guardare anche la formula delle molecole, mi chiedo talvolta per esempio perchè mai, in fondo ad una arzigogolata catena o in fianco di un anello benzenico situato chissà dove, abbiano piazzato un atomo di fluoro: perchè proprio quell'alogeno? E perchè proprio in quel posto?
I motivi è chiaro che ci sono, ma li lascio agli studenti da trenta e lode in CTF.
Agli albori della chimica farmaceutica le molecole di sintesi erano assai più semplici e già quelle erano un passo gigantesco per la medicina, da farci salti di gioia avendone avuto bisogno allora!
Pensiamo solo al banale cloroformio, semplice metano triclorurato, formula semplicissima CHCl3.
Chi si sognerebbe di operare oggi qualcuno col cloroformio, con tutti i suoi effetti indesiderati?
Ma facciamo finta per un attimo di essere un Pietro Maroncelli qualsiasi allo Spielberg di metà ottocento, davanti alla sega che dal vivo ti sta tagliando una gamba: quanti salti di gioia avrebbe fatto Pietro per avere una bottiglietta di "cattivissimo" CHCl3 a portata di naso?
Ben venga quindi la chimica in medicina... anzi, sia sempre più benedetta!

Fra i tanti vecchi farmaci del tempo dei nonni ce n'è uno con una molecola abbastanza semplice e non più usato perchè oggi ne abbiamo di migliori a disposizione.
Questa molecola, protagonista della storiella chimica di oggi è il cloretone, o 1,1,1-tricloro-2,metilpropanolo, scoperto da Willgerodt nel 1881.
In passato si usava come soprattutto come ipnotico ed anche come anestetico, o, in soluzione molto diluita, come germicida.
Da tempo mi ero ripromesso di fare la sintesi del cloretone, che è anche molto semplice.


Cloretone 1

 

Si trovano in bibliografia varie procedure, che si differenziano dall'usare come alcalinizzante idrossido di sodio o di potassio, dall'agire in presenza di acqua oppure no, e dall'usare un rapporto reagenti molto variabile.

Io ho preferito ripetere quella dell'amico Massimo, che  mi dava più affidamento.

[Mi chiedo per inciso come mai certi bravissimi chimici sperimentali, attivi fino al giorno prima, di colpo scompaiano nel nulla. Ma dove sei andato a finire caro Massimo? Non avrai di punto in bianco buttato alle ortiche il tuo prezioso lab, spero!]

La difficoltà maggiore in questa sintesina è nell'avere a disposizione un bel po' di ghiaccio, perchè per un paio d'ore bisogna tenere l'ambiente di reazione verso lo zero termometrico.

Materiale occorrente:

- acetone CH3-CO-CH3
- cloroformio CHCl3
- idrossido di potassio KOH
- vetreria opportuna e ghiaccio

- In un beuta da 100 ml circondata da una miscela di ghiaccio e sale introdurre 45 ml di acetone e 5 ml di cloroformio e quando la temperatura è scesa sotto lo zero aggiungere un grammo di KOH macinato finemente al momento (è estremamente igroscopico, fare in fretta).
Porre il tutto su un agitatore magnetico e lasciar reagire per un paio d'ore, aggiungendo ogni tanto del ghiaccio al bisogno.
La soluzione si intorbida anche per la formazione di cloruro di potassio e assume aspetto lattiginoso, che poi si lascia decantare.

 

Cloretone 2


Alla fine filtrare ed evaporare a bagno maria il filtrato, per eliminare l'acetone in eccesso, fino ad ottenere un liquido bianco oleoso.
Aggiungere 50 ml di acqua ghiacciata (il cloretone è abbastanza solubile in acqua calda, poco in quella molto fredda) e filtrare rapidamente alla pompa; lavare con pochi ml di acqua gelida, aspirando il più possibile.
Seccare all'aria, tenendo presente che il cloretone sublima con facilità.

 

Cloretone 3


Per le sue caratteristiche e per l'odore, quasi identico, l'1,1,1-tricloro-2-metilpropanolo sembra proprio parente della canfora, anche se la molecola è completamente diversa.
Ho ottenuto 5,5 g di prodotto, bianco microcristallino, con resa del 50% sul cloroformio.
E adesso, da bravo ipnotico, fila subito a dormire nella tua bottiglietta!

 
 
 

Chimici sperimentali: razza in estinzione?

Post n°357 pubblicato il 06 Agosto 2016 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

In questa sede per "chimici sperimentali" intendo coloro che sporcano provette per hobby... diciamo più o meno come il sottoscritto.
Qualche anno fa, in tempi molto più favorevoli, ebbi l'occasione di esprimere in altro luogo qualche considerazione sulla mia strana visione della faccenda (cioè sul pericolo dell'estinzione della razza di cui sopra) dato il fatto incontestabile che i lavori reperibili in rete e riferibili alla chimica sperimentale casalinga siano in drammatica e costante diminuzione, da noi e altrove.
Mi si perdoni il bruttissimo termine "casalinga", che purtroppo sembra dare il senso di una chimica raffazzonata tra pentole e fornelli, ma non mi riferisco a chimici improvvisati e pasticcioni, ma a tutti coloro che con buon livello coltivano questa passione affascinante al di fuori di luoghi e motivi professionali.
Quindi a tutti coloro che hanno accesso SOLO al laboratorio (quasi sempre per forza di cose modesto) di casa propria.
Questi sono i chimici sperimentali soggetti del mio discorso, e non coloro che si possono rifornire nell'armadio reagenti di una qualsiasi istituzione.
(Per questi ultimi la vita è facile).

Ebbene, e qui sta il senso del ragionamento di oggi, affermo provocatoriamente che questa razza di soggetti si incammina forse sulla via dell'estinzione.
Se ne dovessimo tracciare graficamente Il trend, sarebbe una linea che (in media) se ne sta impietosamente coricata da sinistra a destra verso il basso, tanto per intenderci identica a quella della borsa italiana.
Ecco le tre principali motivazioni per cui la penso così, motivazioni che chiamerò Saturazione, Assuefazione, Costo.
Ne avevo già parlato, e con i medesimi termini, ma le ripropongo in maniera riveduta e corretta.

- Cosa intendo per saturazione

La saturazione è quando non si sa più cosa pubblicare sul canale Internet che si intende usare, forum, blog o quant'altro.
Non per scarso impegno personale, ma per un altro motivo.
Naturalmente il problema riguarda i chimici sperimentali degni di questo nome, quelli che in qualche modo vorrebbero condividere le proprie esperienze, coloro che vorrebbero postare materiale concreto e interessante, ma che si trovano davanti un ostacolo insormontabile: MANNAGGIA, HO UN BUON LAVORO, MA E' GIA' STATO PUBBLICATO!
Se ben si guarda il trend in funzione del tempo (compreso questo blog...), si vede che il picco delle sintesi è ormai passato da tempo ed ora siamo in deciso declino.
Il motivo è che, pur essendo le sintesi un numero infinito, è sempre più difficile scovare sintesi inedite da fare CON I REAGENTI A PROPRIA DISPOSIZIONE.
E se una sintesi non è decentemente inedita non si può riproporla su uno stesso canale, per non incorrere in noiose ripetitizioni.
Naturalmente la saturazione non esiste per chi ha accesso a lab professionali, che non hanno problemi per l'acquisizione dei reagenti e che quindi possono trattare qualsiasi esperimento reperibile nella sterminata e ottima bibliografia della rete.
Rimedi? Purtroppo non vedo rimedi contro la saturazione senza mettere in campo continue risorse economiche.
Ecco perchè la saturazione è l'elemento decisamente più pericoloso per l'estinzione della specie.

- Cosa intendo per assuefazione

Il pericolo dell'assuefazione è quando non ci si meraviglia più di niente.
Oltre ad essere un problema sociale dovuto a iperstimolazione mass-mediatica, si ripercuote pesantemente anche nei canali hobbistici divulgativi di chimica.
I suoi effetti appaiono evidenti nell'interesse dimostrato per un lavoro: qualche anno fa una sintesi "di medio impegno" neanche tanto esotica riscuoteva un sicuro interesse, mentre ora per fare effetto servono prodotti sempre più sofisticati.
Per fare un esempio, ormai la sintesi di un estere secondo Fischer viene considerata "banale", roba da principianti.
Si tende a banalizzare e dare per scontate reazioni che saranno anche semplici, ma che NON lo sono da un punto di vista hobbistico.
Come una droga della quale devi sempre più aumentare la dose, altrimenti non fa più effetto.
Questo è il virus dell'assuefazione, e i canali chimici sperimentali (e non solo questi!) ne sono colpiti.
Esempio non chimico di assuefazione: fare un numero sul cellulare e in tre secondi parlare all'altro capo del mondo. Ci si meraviglia forse?
Nessuno si meraviglia. Eppure, se guardiamo a fondo, cosa c'è di più tecnologicamente complesso?

- Cosa intendo per costo

Per fare buone sintesi e sintesi inedite ci vuole la materia prima, e cioè i reagenti.
E i reagenti costano, costano tanto e rendono poco, anzi pochissimo.
La resa costo/utilizzo è molto spesso bassissima perchè un reagente specifico per una sintesi viene utilizzato con buona probabilità SOLO per quella sintesi ed il resto rimane poi inutilizzato in vista di futuri impieghi che forse mai verranno.
Ma intanto, se si vuole fare quell'esperimento, si è dovuto comprare il reagente in una quantità commercialmente disponibile, come se lo si usasse tutto.
Ed ecco un dispendio di risorse che alla lunga diviene inaccettabile.
Esempio: che me ne faccio di una confezione da 100 o 250 g di ftalimide per la sintesi dell'acido antranilico se poi ne uso solo 15 grammi?

Alle tre motivazioni di cui sopra aggiungerei anche quella (ma è meno importante) per cui un appassionato di chimica pratica è, nella stragrande maggioranza dei casi, un incompreso da parte di chi gli sta intorno.
Come ho già ripetuto troppe volte, la chimica è sempre vista dalle fonti popolari di informazione (assolutamente e colpevolmente disinformate!) secondo i soliti idioti stereotipi: la chimica è INQUINANTE, ESPLOSIVA, CANCEROGENA...eccetera eccetera.
Insomma, PERICOLOSA E DA EVITARE.
E questi concetti i mezzi di informazione li inculcano subdolamente ogni volta che se ne presenta l'occasione, tant'è che è meglio non avere come famigliare o come semplice vicino di casa un tizio che fa "espermenti" chimici, anche se li fa a ragion veduta e non è un pasticcione.
Ecco che alle tre difficoltà sopra elencate si aggiunge anche questa, facendo dei chimici sperimentali casalinghi una sorta di carboneria semisegreta e anche chi è abbastanza tollerato si trova a mostrare il proprio "laboratorio" solo ai pochi conoscenti di cui si fida.
E quindi i chimici sperimentali che fine faranno?
Ci sono e sempre ci saranno, ma nell'era di Internet saranno paradossalmente sempre più in difficoltà, per colpa dei termini sopra citati, ma soprattutto di quel terribile virus che ho chiamato "saturazione".

 
 
 

Acido gallico dal tannino

Post n°356 pubblicato il 26 Luglio 2016 da paoloalbert

L'acido tannico del commercio si presenta come una polverina amorfa di colore ocra, inodora e di sapore astringente.
La formula è complessa, trattandosi per lo più di una combinazione di cinque molecole di acido digallico col glucosio, dal vecchio nome suggestivo di pentadigalloilglucosio.
Dal tannino si può estrarre per idrolisi la molecola base fondamentale, cioè l'acido gallico o 3,4,5-triidrossibenzoico, una bella molecola polifenolica che mi è sempre stata simpatica dal momento che da giovane la usavo per un giochino molto particolare, del quale non dirò qui.



Acido gallico 1        Acido gallico 2

Pentadigalloilglucosio - Ac. tannico     Acido gallico

Ho voluto provare questa conversione idrolitica facendo onore al bravo prof. Salomone e ai suoi "Prodotti chimici organici", ovvero a quella che è da quasi un secolo una "bibbietta" universalmente conosciuta dai chimici sperimentali casalinghi.
Ho verificato in tante occasioni che raramente le "ricette" del Salomone vanno a buon fine così come sono scritte, ma che quasi sempre abbisognano di una personalizzazione decisa, quand'anche di una reinterpretazione completa, quasi che l'Autore abbia voluto infilare  in ogni sintesi uno scherzetto per gli sprovveduti.
In ogni caso, in questi tempi nei quali la chimica sperimentale hobbistica sta galoppando verso l'estinzione, il libro si legge sempre volentieri da parte di quell'altro rarissimo tipo di "fossili viventi", cioè quei pochi che ancora si ostinano a giocare con acidi e basi solo per il gusto di farlo e che apprezzano i tempi eroici della chimica sperimentale.
Dal Salomone, magari snobbato da chi sa tutto di orbitali ma non è aduso a sporcare provette, si possono ancora attingere spunti e idee per qualche esperimento.

---

Ecco cosa dice il Salomone riguardo la sintesi dell'acido gallico:

- L’acido gallico o 3,4,5-triossibenzoico C6H2(OH)3.COOH si ricava dal tannino delle noci di galla o dalle foglie di sommacco per idrolisi mediante acido solforico diluito. Si prendono ad es. 100 g di tannino e si addizionano di 10 g di acido solforico diluiti con 500 cm3 di acqua; si riscalda su bagno maria per 10-15 ore sostituendo di tanto in tanto l’acqua che evapora. Si filtra poi a caldo e si lascia raffreddare; l’acido gallico si depone per raffreddamento in cristalli aghiformi, che si depurano ridisciogliendoli in acqua bollente, aggiungendo un po’ di nero animale e poi, dopo filtrazione a caldo, lasciando ricristallizzare.

In un primo tentativo ho seguito alla lettera la procedura (riducendo ad un quinto le quantità).
L'idrolisi del tannino secondo la procedura sopra detta, ancora una volta (e quasi secondo le aspettative...), si è rivelata un totale insuccesso, con resa uguale a zero.
La soluzione di acido tannico è rimasta tal quale e nessuna traccia di acido gallico è rimasta alla fine sul filtro. -Birbante di un Salomone...
Fortunatamente avevo letto, ora non ricordo più dove, di una idrolisi condotta in ambiente ad acidità molto più spinta, addirittura con una soluzione di acido solforico al 20%.
Ho voluto provare allora questa variante, ripetendo l'esperienza come sopra ma aumentando (in proporzione) la quantità di H2SO4 di dieci volte tanto.
L'acido tannico si scioglie perfettamente nella soluzione acida con un colore violaceo, colore che aumenta d'intensità col riscaldamento diventando quasi nero alla fine dell'idrolisi dopo il prolungato riscaldamento, effettuato in un palloncino su termomanto a 90° per mezza giornata.
Col raffreddamento successivo, in fondo al palloncino c'era finalmente un copioso precipitato (buon segno!) anche se purtroppo quasi nero (cattivo segno!).
Ecco il prodotto grezzo, che dopo filtrazione e lavaggio si presenta infatti schifosamente scuro.

 

Acido gallico 3

Acido gallico grezzo

 

Ma abbiamo al nostro arco ancora una freccia da tirare... magari anche due... speriamo che vadano a segno.
Si impone una decolorazione con carbone attivo, come del resto già il Salomone consigliava.
Ho sciolto il grezzo in 100 ml di acqua calda (1 g di acido gallico si scioglie in 3 ml di acqua bollente e in 87 ml di acqua fredda) e prima dell'ebollizione ho aggiunto una buona punta di spatola di carbone attivo, facendo poi bollire per qualche minuto.
Dopo la filtrazione a caldo e successivo raffreddamento l'acido gallico si è presentato in maniera decisamente più decente, in piccoli aghetti leggeri, che asciugano con facilità.
Purtroppo il colore, pur essendo schiarito, è rimasto nocciola... in definitiva come un buon vecchio fenolo che si rispetti.

 

Acido gallico 4

Dopo la prima decolorazione

[Ho un vecchissimo acido gallico commerciale, di colore quasi identico. Ma in questo caso è dovuto alla veneranda età!]
Trascurando volutamente la resa in favore di un prodotto più puro, ho ripetuto la decolorazione con carbone e stavolta  l'aspetto del prodotto è decisamente corretto, delicatissimi e leggeri aghetti sericei appena appena beige, da conservare al riparo dalla luce.

 

Acido gallico 5

Guarda che bello dopo la seconda decolorazione

 

Lo scopo di questa esperienza era quella di verificare la conversione tannico --> gallico, e mi dichiaro soddisfatto.
La resa è bassina, circa 4,5 grammi, ma sono da considerare tutti i passaggi e le due decolorazioni.

Thats all, volks... Se l'acido mucico dell'altra volta era del tutto inutile, con questo ci posso sempre fare un bell'inchiostro come quello dei bisnonni, a base di gallato di ferro naturalmente!
Stay tuned.

 
 
 

Povero Cangrande della Scala

Post n°355 pubblicato il 13 Luglio 2016 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

Nel 2004, giacente su un lato della chiesa di Santa Maria Antica alle Arche scaligere di Verona, fu aperto il sarcofago di Cangrande della Scala e riesumato il corpo di quello che fu il signore di quella splendida città fino al 22 luglio 1329, data della sua morte.

 

CangrandeLe analisi effettuate sulla mummia ben conservata sciolsero un dubbio che permaneva da tempo, ovvero se lo Scaligero fosse morto accidentalmente per quella famosa congestione di acqua fredda dopo una cavalcata sotto il sole cocente o se invece fosse stato avvelenato.

Dagli esami effettuati, si trovarono nelle sue viscere (potenza infinita della chimica analitica moderna!) quantità significative di alcaloidi della digitale... e la digitale non è propriamente una pianta con cui fare una fresca misticanza da portare in tavola come insalatina estiva.


Quando in giugno mi sono imbattuto in un bell'assortimento di pianticelle purpuree, non ho potuto fare a meno di fotografarle.

 

Digitale

 

Eccola la digitale (Digitalis purpurea), bella e insidiosa, piena di cardiotossici alcaloidi quali i glicosidi digitossina e la digossina, che nelle foglie raggiungono una percentuale non indifferente.
Non ho invece mai visto (nè credo che mai la vedrò, a meno di non fare un saltino nel posto giusto in Ungheria) la Digitalis lanata, ancora più ricca in alcaloidi e ovviamente ancora più tossica.

La foto, fatta affrettatamente, non rende giustizia dell'eleganza delle pudiche campanelle fucsia, belle e velenose come la mela di Biancaneve.
I suoi alcaloidi, talvolta ancora usati (in dosi microscopiche) nelle emergenze dell'insufficienza cardiaca, possiedono una tossicità estremamente elevata, tant'è che la digitale era una delle piante di elezione per gli avvelenamenti medioevali.


Digitossina

Il glicoside Digitossina



Magari il povero Cangrande (forse divenuto per qualcuno troppo "grande"...) ne sa qualcosa riguardo il suo mal di pancia fulminante in quel di Treviso.
Al giorno d'oggi gli avvelenamenti non si usano più nemmeno nei romanzi gialli più fantasiosi, ma nei secoli scorsi, mancando qualsiasi metodo di analisi, una volta che la vittima era passata a miglior vita chi poteva dire qualcosa di sicuro sulle cause della morte?
"Fluxus ventris" sentenziava per esempio il medicastro di turno tra un salasso e l'altro, e tanti saluti alla buon'anima... e agli eredi il resto.

Una persona di mia conoscenza, che ha delle belle piante di digitale in giardino e non ne conosceva la velenosità, ora le vuole estirpare, con mio grande disappunto:

-Ma le devi mangiare?- le ho detto.
-No - ha risposto, - ma ho paura lo stesso, ora che mi hai detto che sono velenose-

E ho dovuto ripetere, per la mille e millesima volta, il principio infallibile e universale valido dai tempi di Paracelso:

- ciò che fa di una qualsiasi sostanza un veleno non è la sua natura, ma la quantità che se ne ingerisce.

E la quantità ingerita godendosi con gli occhi le proprie pianticelle in giardino è esattamente pari a zero.
Da qui il mio disappunto.
Spero che se le estirpa, me le regali.
Non morirò certo guardandole
.

 

 
 
 

Acido mucico, sintesi

Post n°354 pubblicato il 02 Luglio 2016 da paoloalbert

Finalmente riesco a (ri)sporcare un po' di provette! Ne avevo nostalgia.
Ho scelto una sintesina facile fra quelle che mi ero segnato come "da fare"; in realtà avevo già fatto questo esperimento qualche anno fa con pessimi risultati, ed ho voluto riprovare.
Si tratta di preparare un acido aldarico, ovvero un idrossiacido bicarbossilico derivante dall'ossidazione di uno zucchero, nel nostro caso il prodotto sarà l'acido mucico.
Quest'acido è uno stretto parente dello zucchero monosaccaride galattosio, dal quale si differenzia per avere due gruppi carbossilici (-COOH) alle estremità della catena (nella formula lineare), mentre il galattosio ha rispettivamente un gruppo alcolico (-CH2OH) e aldeidico (-CHO).
Il galattosio a sua volta si differenzia dal glucosio per la posizione spaziale degli ossidrili legati ai quattro atomi di carbonio centrali.

 

Acido mucico

                                     Acido mucico

Ossidando vigorosamente un monosaccaride con acido nitrico si produce la trasformazione in due gruppi carbossilici delle funzioni terminali della catena (alcolica e aldeidica) ed un generico acido aldarico ha formula generale HOOC-(CHOH)n-COOH.

Per esempio ossidando il glucosio si produrrebbe acido saccarico (più difficile da isolare e purificare per la sua solubilità), mentre dal galattosio si ottiene con buona resa acido mucico quasi insolubile.
Non volendo partire dal galattosio (di difficile reperibilità), pur sacrificando la resa il Vogel consiglia l'uso del semplice lattosio, che è un disaccaride ma che per idrolisi si scinde in una molecola di glucosio e una di galattosio.
Al punto intermedio della sintesi otterremo perciò una miscela di acido saccarico e acido mucico. La procedura che segue è presa appunto dal Vogel.

Materiale occorrente:

- lattosio
- acido nitrico
- sodio idrossido
- acido cloridrico
- vetreria opportuna

In una capsula o anche in un becher da 150 ml sciogliere 10 g di lattosio in 50 ml diacqua e aggiungere 48 ml di acido nitrico diluito (28 ml di HNO3 conc. + 20 ml di acqua).
Sotto cappa o in ambiente opportuno scaldare a piccola fiamma ed evaporare la soluzione fino a ridurne il volume a 20 ml.

 

Acido mucico 1  Acido mucico 2

 

 

 

 

 

 

Durante il riscaldamento (la T° arriva al massimo a 105°) si ha costante svolgimento di vapori nitrosi ed ipoazotide.
Raffreddando il prodotto esso assumerà consistenza sciropposa; aggiungere 30 ml di acqua e l'acido mucico si separa perchè poco solubile.
Si filtra facilmente alla pompa e si lava il residuo con poca acqua fredda.

 

Acido mucico 3

(Dalla soluzione filtrata con opportuna procedura si potrebbe ricavare l'acido saccarico, di identica formula ma che solo per avere un ossidrile che guarda da una parte anzichè dall'altra è solubilissimo in acqua, al contrario del mucico. Potenza della stereochimica!).

 

 

Sciogliere il residuo solido nel minimo volume di NaOH diluito (nel mio caso circa 13 ml di NaOH al 10%) e riprecipitare l'acido con HCl diluito fino a netta acidità, sempre oprerando a freddo data che il prodotto ha una leggera solubilità.
Filtrare di nuovo e seccare all'aria.
Eccolo sul vecchio muretto, come una volta!

 

Acido mucico 4


La mia resa è stata scarsina, 2,7 g di acido mucico puro, che si presenta come una polvere microcristallina bianchissima, inodora e di sapore appena leggermente acidulo.
A cosa può servire l'acido mucico? Assolutamente a nulla... giusto il piacere di prepararlo.
Dalla soluzione di acido saccarico (ometto la procedura, visibile sul Vogel) si può vedere un altro di quei rari sali alcalini quasi insolubili, il saccarato acido di potassio.
Mi sono accontentato di osservare la sua opalescenza in acqua e di lasciarne sedimentare un pochino, giusto il piacere di vederlo.

 
 
 

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