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L'onore delle armi
Post n°421 pubblicato il 11 Aprile 2015 da meninasallospecchio
(continua dal post 419) E prima di rottamarlo, voglio rendere a Manzoni l'onore delle armi, come merita. Perché lui se non altro ci ha provato. E lo faccio con tutta la devozione di cui sono capace nei confronti di un uomo le cui idee e il cui sentire sono molto distanti da me. Molto distanti? Forse non così tanto. Certo io non sono credente e lui invece mette la religione in una posizione indiscutibilmente centrale nella sua opera. Non è un cattolicesimo di facciata, il suo, da buon borghese; e neanche l'esito incerto di un animo tormentato. No, è un'adesione ferma e convinta a un sistema di valori, magari declinato in una forma un po' aristocratica (l'atteggiamento di Manzoni verso gli umili è quello di una società protettrice degli animali, dice Gramsci), ma teologicamente molto saldo. Eppure mi è un po' simpatico, il Manzoni: razionale, ironico, concreto, pieno di buon senso; e anche adorabilmente compiaciuto nella consapevolezza del proprio valore, e tuttavia sempre severo con se stesso. E umile, all'occorrenza, nell'infierire sulla sua stessa prosa, nell'appassionata ricerca della forma. La critica di ogni tempo si è spesa nel definirlo europeo. Certo lui lo sapeva quello che stava facendo, che cercava di fare: portare anche in Italia il grande romanzo, come in Francia, come in Inghilterra. Ma non aveva una società contemporanea da raccontare, a Milano non succedeva niente di interessante. C'era però la grande opportunità del romanzo storico, un cavallo di battaglia della letteratura europea. Forse avrebbe potuto scegliere un'epoca più accattivante, e optare decisamente per il romanzo gotico, anche quello molto in voga a quel tempo. Magari avrebbe avuto successo anche all'estero se, da italiano, avesse voluto interpretare l'immaginario sull'italianità, fatto di oscuri intrighi fra chiese e conventi. Umberto Eco è stato più furbo, e chissà che un giorno non si studi a scuola Il nome della rosa. E sicuramente ci aveva pensato, perché la storia della monaca di Monza è un romanzo nel romanzo, nonostante gli originari sei capitoli del Fermo e Lucia siano diventati due nella versione definitiva. E qui sta la mia grande ragione di ammirazione per Manzoni. Ogni volta che leggevo nelle note come aveva modificato la prosa fra le due versioni, a volte venivano riportati interi paragrafi, non potevo fare a meno di rimanere colpita dall'intelligenza dell'operazione, forse è quello che davvero ho imparato, io personalmente, dai Promessi sposi. Sapete, quando si scrive, bisogna applicare la regola del P.O.R.C.O.: Pensare, Organizzare, Rigurgitare; Correggere, Omettere. E si dice che proprio omettere sia la parte più importante. E Manzoni ha omesso, tanto. La sua versione definitiva è stata tutta un togliere. Chi scrive sa quanto costi cancellare anche solo una frase, quella battuta ben riuscita che non c'entra niente, quella cosa che vorresti proprio dire ma poi il post è troppo lungo. Te la salvi, la scriverai in un altro post. Ma Manzoni non scriveva un blog, era l'opera della sua vita. Quando si è visto il romanzo finito deve aver capito che sei capitoli dedicati alla monaca toglievano equilibrio alla storia, e forse le davano anche un'impronta più licenziosa di quanto l'austero scrittore volesse concedere a se stesso. E così quattro capitoli sono diventati quell'unica frase, "la sventurata rispose": un piccolo capolavoro, commovente per il sacrificio che sappiamo esserci dietro. La scuola non insegna a scrivere e non è per imparare a scrivere che si legge Manzoni. Ma il mio personale ricordo dei Promessi sposi è legato a quello: al perseguimento di un fine attraverso la scrittura, alla volontà e all'abnegazione, alla ricerca dell'equilibrio e della forma.
(continua)
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