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Perfidie di Stefano Torossi

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Messaggi di Novembre 2014

Puro masochismo

Post n°306 pubblicato il 30 Novembre 2014 da torossis

 

  IL CAVALIER SERPENTE

  Perfidie di Stefano Torossi

  1 dicembre 2014

 PURO MASOCHISMO

 

 Il Circolo scandinavo. Nessuna foto potrebbe descrivere le nostre sensazioni, solo le parole. Dunque: esiste a Roma il Circolo Scandinavo, una foresteria che ospita per brevi soggiorni in un appartamento a Via della Lungara artisti svedesi, norvegesi, finlandesi, danesi e islandesi.

Riceviamo l'invito a un incontro (con rinfresco) con gli ospiti residenti. Decidiamo di andare a vedere.

Portone chiuso, nessuna traccia di accoglienza. Citofono. Dopo un po' una voce bianca ci risponde e ci apre. Saliamo al secondo, dove troviamo un bambino (la voce bianca) che ci introduce in un appartamento tristissimo, fiocamente illuminato da poche lampadine, massimo 20 candele. Una sala con qualche sedia, deserta. Un pianoforte. Poltrone e divanetti con centrini sui braccioli: il salotto della nonna. Nell'altra stanza, su un tavolo, tre bottiglie di vino dei Castelli e un piattino di pretzel: il rinfresco.

Arrivano signori e signore grigissimi, polverosi, di assoluta ineleganza. Non per essere snob, ma quando loro ci si mettono a dare il peggio, ci riescono molto meglio di noi del sud Europa. Parlottano nelle loro lingue impossibili; per fortuna reagiscono positivamente all'inglese. Ma è tutto moscio, l'atmosfera è stantia, la muffa ricopre ogni cosa, un mortorio.

Con il cuore intirizzito dal gelo scandinavo, ci facciamo forza, aspettiamo la scadenza della mezz'ora di cortesia; non succede niente. Allora via a gambe levate con la ferma intenzione di non farci mai più vedere. Non sapremo nulla sull'opera degli artisti o sulla qualità del vino. Pazienza.

 

"Festa della Musica per il Cinema" al Teatro Argentina. Stavolta la foto la mettiamo, anche se è riuscita male, perché la ragazza in stile Botero che regge il premio destinato a Morricone merita un'occhiata. In apertura di serata, la Sonora 2014, organizzatrice della faccenda, onora la carriera del grande maestro, il quale, ascoltata l'esecuzione di un suo brano, ritira la targa e scappa a casa. Segue una troppo lunga sfilza di autori di musica per documentari, film, fiction, tutti premiati, anche se non tutti noti.

Bravi o no, non ci interessa. Ci colpisce il fatto che, con qualche lodevole eccezione, quasi tutti si presentano con addosso non diciamo capi di civile abbigliamento, oppure (folle esagerazione!) giacca e cravatta, ma quotidiani stracci. Su questo argomento tendiamo a ripeterci, lo sappiamo, ma quando sali sul palco di un teatro (prestigioso) per prendere un premio (prestigioso o no), mettiti almeno una camicia pulita, un pantalone stirato, magari qualcosa di bizzarro, se proprio ci tieni, ma non la maglietta di tutti i giorni. Perché il palcoscenico è un altare, e qualunque fatto avvenga lassù è una cerimonia.

E all'organizzazione vorremmo suggerire una valletta un filino meno scosciata e magari un po' più snella.


Mostra del peperoncino. Una manifestazione di cui si sentiva proprio la mancanza. Piante e campioni di peperoncini piazzati sui tufi di un tratto delle Mura Serviane di Roma (VI secolo a.C.) salvato dalla furia edilizia del secolo XIX e valorizzato nel XX, nella sede del Corpo Forestale dello Stato, organizzatore e ospite. Inutile dire che noi eravamo lì, convinti della futilità dell'evento, ma comunque curiosi, e in seguito premiati da quello che abbiamo imparato.

Ripassiamo insieme: l'Italia non è in grado di soddisfare la richiesta interna, quindi importa il 70% del fabbisogno da Pakistan, India e Messico. Il capsicum annuum è la specie più coltivata da noi. E' originario del Sud America ed è stato portato in Europa da Colombo. La piccantezza non è un gusto, ma una sensazione; infatti l'alcaloide che la provoca è incolore e insapore. Il suo grado si esprime in punti di una scala vertiginosa, quella di Scoville. Il campione fino al 2006 era l'Habanero Red Savina, messicano, con 577.000 punti. Surclassato l'anno dopo dall'ibrido indiano Naga Jolokia, 1.041.427 punti, e oggi siamo arrivati a un milione e quattrocentomila con il Trinidad Moruga Scorpion. Numeri per noi esagerati (forse si potrebbero eliminare alcuni zeri), ma, ci dicono, ufficiali.

E dopo questa lezioncina, tutti in trattoria per un piatto di penne all'arrabbiata.

Ah, dimenticavamo: il peperoncino è ricchissimo di vitamina C. Molto più degli agrumi. Per ognuno di noi, una puntina sarebbe sufficiente per tutta la giornata. Certo, poi, la scala Scoville...


Ikebana. All'Istituto Giapponese di Cultura, l'ultima autoflagellazione: una dimostrazione di ikebana, l'arte orientale di disporre i fiori.

Ogni ikebanista ci guida al fragrante risultato di una preparazione meticolosa, elegante, ma necessariamente lunga e inevitabilmente noiosa, resa ancora più pesante dal cicaleccio incessante di una signora italiana che credendosi obbligata a riempire i silenzi racconta cose che vediamo benissimo da soli.

"Ecco adesso Yoko taglia questa foglia con cura perché deve essere della lunghezza giusta". "Ecco, adesso Yoko dispone le due margherite gialle simmetricamente come vuole la scuola ikenobo". E poi, via con i nomi giapponesi delle forbicine, del vasetto, della spugna, dei rami, dei fiori, delle scuole, delle tecniche, dei maestri...

Una faccenda estenuante, che ci porta a benedire la nostra TV, la quale, almeno, nei programmi di cucina non ci tiene impegnati per le ore di effettiva preparazione e cottura. Vedi un coltello che taglia gli ingredienti, la mano del cuoco che li versa nell'acqua, un mestolo che li gira e, miracolo del montaggio, dopo quattro secondi la pasta e fagioli è bell'e pronta.


 

                                         


 

 
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Muffa e splendore

Post n°305 pubblicato il 23 Novembre 2014 da torossis

 

  IL CAVALIER SERPENTE

   Perfidie di Stefano Torossi

  24 novembre 2014

     MUFFA E SPLENDORE

 

 Cominciamo con la muffa.

 Un pomeriggio di noia travolgente, ma ricco di approfondimenti sulle umane debolezze (sotto la coperta della cultura).

Tempo, luogo e occasione: mercoledì 19; Sala della Crociera al Collegio Romano, un magnifico ambiente zeppo fino al soffitto di libri plurisecolari; presentazione di "NOW, art before the future", curato da Crescentini e Domenicucci, un bel catalogo futuribile delle opere di una quarantina di artisti contemporanei e viventi.

Cinque i relatori annunciati: Bagnato, D'Amico, Siciliani, Lombardi, Nazio, ma siccome per caso c'è anche il pittore Ennio Calabria, ne approfittano per chiamarlo al tavolo a parlare. Non l'avessero mai fatto! Il maestro, dopo essersi schernito con un pericoloso: "Non mi aspettavo questo onore", attacca una tirata di venti minuti parlando molto di sé, del suo rapporto con l'arte, e di un collega morto recentemente, pace all'anima sua, che era suo carissimo amico.

Sopravviviamo, ma prima di sgattaiolare via durante l'ennesimo applauso di compiacenza, ci dobbiamo sorbire un altro po' di chiacchiere di quel genere particolare, chiaramente destinato alle orecchie dei colleghi.

Qui di seguito i tipi umani che si sono esibiti, un vero campionario da presentazione. Tutti nella lista dei relatori, ma non diciamo in che ordine.

Quello che recita la lezione senza prendere fiato, con la tipica concitazione ansiosa e ansiogena del primo della classe che vuol riuscire a dire tutto quello che sa, e fare bella figura. Molte parole inglesi, nomi di intellettuali a pioggia, fra i quali abbiamo sentito perfino Allevi! Faticoso da ascoltare perché ti condiziona sfavorevolmente la respirazione.

L'altro che arriverà tardi perché è in TV a farsi intervistare a "La vita in diretta", ma lo sostituisce un collega che però ha poco tempo anche lui perché è appena arrivato dal Messico, e ha un treno che lo aspetta per portarlo a Torino. Gente importante.

Ancora uno che deve scappare per altri impegni, ma fa in tempo a darci un sunto del suo inglese piuttosto casareccio. Risatine d'intesa della combriccola.

Durante tutta la faccenda ci assilla da uno schermo, in un loop senza fine, un insulso filmato di bambini che fluttuano in una specie di liquido amniotico. Naturalmente in bianco e nero un po' sfocato. Roba da video-art alla Biennale di Venezia, ma di trent'anni fa.

Questa fiera dell'autocompiacimento ci intristisce e ci spinge ad allontanarci prima della fine, non senza darci il pretesto per manifestare il nostro stato d'animo con un commento forse poco intellettuale, ma, ne siamo certi, comprensibile a tutti.

  ZZZZZZZZ!


 ...ma continuiamo con lo splendore.

Ore 21, stesso giorno. Un pomeriggio come quello appena trascorso avrebbe potuto portarci a una serata rovinosa.

Invece, evviva! Ci è capitato uno dei più bei concerti degli ultimi anni. Letteralmente. Alla Sala Sinopoli del Parco della Musica: "Swinging Duke" con Fabrizio Bosso, il suo trio e una big band ridotta (due trombe, un trombone e tre sax) fatta dei migliori strumentisti in circolazione.

La ricetta dell'evento: i pezzi di Duke Ellington, che sono comunque belli; gli arrangiamenti pieni di poesia e di gusto di Paolo Silvestri, un audace che ha osato rifare i già perfetti originali migliorandoli, se è possibile; facendoli comunque diversi e certamente più moderni (che questa parola non sembri una bestemmia, ma è proprio il caso) e le ottime esecuzioni del gruppo.

E in cima a tutto l'assoluta padronanza di Bosso della tecnica, della voce, del gusto e del pensiero musicale applicato alla tromba. Perfezione. Ci si chiede come ha fatto in così pochi anni ad accumulare l'esperienza di una vita. Forse in questo consiste il genio. Chiedere a Mozart.

Sala esaurita, pubblico felice, e i suonatori, entrati con giacche inappuntabili, che poco a poco cominciano a spogliarsi nel fuoco dell'esecuzione fino a rimanere con le maniche arrotolate e l'espressione beata di chi si diverte a fare il proprio lavoro.

E anche noi: non era certo il primo concerto a cui assistevamo, eppure non un minuto di noia, di distrazione, di pensare ad altro.

Un piacere completo dall'inizio alla fine.


Un altro discorso.

Chiusura di settimana con l'inaugurazione del Roma Festival Barocco diretto da Michele Gasbarro. Una magnifica esecuzione dell'Officium defunctorum di Victoria nella chiesa nazionale spagnola di S. Maria in Monserrato, l'unica chiesa a Roma, oltre a S. Maria dell'Anima, illuminata come si dovrebbe. Tutta la luce in alto, verso Dio, e non in basso, negli occhi di noi peccatori.

Musica mistica, abbiamo detto, lontana dal jazz, ma non dalla bellezza, e benissimo eseguita. Prima dell'inizio, discorsetto introduttivo del parroco, spagnolo naturalmente. Beh, fra il tono morbido della voce e l'accento esotico, bastava chiudere gli occhi, ed eccocelo lì davanti: Antonio Banderas con i suoi tarallucci del Mulino Bianco.



                                          

 
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Swing, cannoni e papi

Post n°304 pubblicato il 16 Novembre 2014 da torossis

 

  IL CAVALIER SERPENTE

  Perfidie di Stefano Torossi

   17 novembre 2014

  SWING, CANNONI E PAPI

 

Trenta e lode allo swing. L'11 novembre il Roma Jazz Festival apre il programma con una piccola cerimonia alla LUISS, presenti due illustri professori, un illustre giornalista economico e, per fortuna, l'illustre musicista Gegè Telesforo con l'illustre "Max Ionata Hammond Trio".

E' necessaria una breve spiegazione, altrimenti non si capisce il nesso fra jazz ed economia, di cui l'Università LUISS è il tempio. Quest'anno il tema del festival è lo swing, modalità jazzistica emersa all'epoca della grande depressione americana del'29 e del New Deal. Due fatti economici. Ecco il perché di questa location, fra professori e giornalisti, insieme a un gruppo che più swing non si può.

Tutto bene, tranne un inciampo, inevitabile quando si è ospiti in casa d'altri, verificatosi allorché l'illustre giornalista, di sicuro un ottimo professionista nel suo campo, è uscito dalle proprie competenze, ha afferrato una chitarra e si è intrufolato prima con l'accompagnamento e poi purtroppo anche con un solo, in un "All of me" che, da questa incursione è uscito piuttosto malconcio.

Cosa dire ancora? Che una volta tanto i musicisti erano vestiti impeccabilmente (senza quelle magliettacce e jeans da battaglia che troppo spesso i jazzisti, con nostro dispiacere, indossano), e che hanno suonato benissimo. Voto: trenta a tutti, dato che siamo in un'università, ma con in più la lode allo swing, e anche alle divertenti smorfie del geniale hammondista Alberto Gurrisi.

 

Cannoni puntati! E' il cinquantunesimo Festival di Nuova Consonanza.  Mezzo secolo di vita merita una salva. Che c'è stata, non di bocche da fuoco ma di applausi, nel Grand Salon dell'Accademia di Francia a Roma, Villa Medici, il 12, alla fine del primo concerto della rassegna, con l'Ensemble Orchestral Contemporain di Lione.

"Non aprite quelle orecchie", ci verrebbe da dire con una battuta un po' frusta quando leggiamo sul programma di sala che stiamo per ascoltare una musica spettrale. Poi ci tranquillizziamo: "Gli spettralisti parlano di suono non come oggetto in sé concluso, ma come campo di forze, porzione di spazio-tempo, parte di un puro divenire sonoro".

Malgrado il critichese del testo, inteso soprattutto a  complicare la faccenda, è vero che si tratta di materiale che arriva in tutta semplicità e facilmente all'ascolto, senza dover passare attraverso serialità ferree o metodologie vincolanti.

E il bello è che questi suoni assolutamente non tradizionali, anzi, che potrebbero essere presi per blasfemi, si spandono esteticamente nello spazio di un salone ultraclassico con soffitto di dodici metri, e arazzi barocchi alle pareti. Quando è roba buona va bene in qualsiasi ambiente. E non c'è scandalo.


"L'ultimo palazzo del Papa". Nessuno scandalo, neanche qui. Anzi, quanto sopra ci è tornato in mente nella Sala Torlonia di Palazzo Braschi, ora museo di Roma, la sera dell'8.

Alla performance dell'ottimo spettacolo messo in scena da Rosa Di Brigida per la Associazione Era Dea, fra specchi e divani rococò, con una impostazione moderna e antica insieme, musica dal vivo, e costumi che definire visionari sarebbe poco.

Già tutte prenotate con grande anticipo, le due repliche dell'8 e del 9 sono la cronaca, fedele ai fatti, senza concessioni, a tratti beffarda (Pasquino e le sue satire: l'attore Francesco D'Ascenzo), del papato di Pio Sesto Braschi, l'ultimo Papa Re a lasciarsi andare a una vergognosa politica di sfrenato nepotismo e di spese talmente folli (naturalmente a carico della Camera Apostolica) da mandare in rovina, dopo averla innalzata, prima la sua stessa famiglia e poi il faraonico palazzo costruito a Piazza Navona.

Che malgrado tutto andò avanti con la sua storia; anzi, a un certo punto, e questo la dice lunga sulla sua gestione sconsiderata, fu addirittura messo in palio come primo premio dell'estrazione del lotto: gioco, anzi rapina legalizzata del governo pontificio ai danni del cencioso popolo dell'Urbe. Ma anche l'estrazione andò buca.

Ancora una prova della nostra teoria: arbitrario o fedele, critico o visionario, uno spettacolo, se è buono, funziona dappertutto.

 

Ancora e sempre Negroni. A questo punto, chiuse le manifestazioni di cultura, usciamo dai saloni e scendiamo ai piedi del palazzo. Qui, proprio nell'atrio che si affaccia meravigliosamente con un portone su Piazza Navona (la più bella piazza del mondo, e non solo secondo noi), c'è il Braschi Bar.

E noi lo citiamo, non solo per lo splendore dell'ubicazione, ma anche per quella che è, lo sappiamo bene, la nostra fissazione: il Negroni.

Loro lo fanno benissimo.


                                      

 

 
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La distribuzione del talento

Post n°303 pubblicato il 10 Novembre 2014 da torossis

 

  IL CAVALIER SERPENTE

   Perfidie di Stefano Torossi

     10 novembre 2014

     LA DISTRIBUZIONE DEL TALENTO

 

 

L'apocalisse annunciata da Pulcinella. Roma 6 novembre. "Non uscite di casa se non in caso di estrema necessità". "Scuole e siti archeologici chiusi". Questi i titoli dei giornali stamattina. Senza dimenticare la sempre evocata bomba d'acqua. In tutta la giornata abbiamo visto solo una violenta ma assolutamente normale pioggia di novembre che non ci ha impedito di scendere al bar per il quotidiano cappuccino. E per l'allarmatissimo giornale.

In cui i titolisti allo sbaraglio ci servono la meteorologia drammatizzata: Roma in ginocchio per la pioggia, l'Italia nella morsa del gelo, o del caldo, paura a nord (o sud, est, ovest). Ore di caos, strade come fiumi, paralisi del traffico, voragini, emergenza.

Ci pare il solito teatrino di pulcinella che affronta la normalità stagionale come un dramma apocalittico (per poi farsi fregare dall'emergenza vera). Ancora ci ricordiamo i tre centimetri di neve a Roma e la conseguente totale paralisi urbana.

Comunque, il resto delle ventiquattrore non è che sia andato un gran che meglio.

Blanda fregatura con l'inaugurazione della mostra "Artisti dell'800 - Temi e riscoperte" alla Galleria Comunale d'Arte Moderna. Una modesta riproposta delle opere in deposito al museo stesso. Paesaggi, ritratti e qualche gesso o bronzo. Tutta roba vista e stravista; i temi, sempre gli stessi e, quanto a riscoperte, non ci siamo accorti di niente.

Grossa fregatura invece a fine giornata, quando ormai la bomba (d'acqua) aveva fatto cilecca, alla proiezione in anteprima del film biografico televisivo "Non escludo il ritorno", titolo preso dallo spiritoso epitaffio suggerito da Califano per la sua tomba. Quasi due ore di luoghi comuni, recitazione mediocre, location al risparmio, banalità, canzoni, sdilinquimenti sentimental-parolacciari, con l'attore protagonista che lo imita (bene, ma senza darci un attimo di tregua) biascicando in romanesco.

L'unico spazio per una risatina in tutto il film: al ristorante, Califano paga il conto, poi dice al cameriere: "Il resto..." "E' noia", fa il cameriere, spiritoso. "No, è mancia", ribatte il Califfo. Pochino, no?

C'è una domanda che ci perplime ogni volta che ascoltiamo le sue poetiche canzoni. Che poi è buona per tutte le epoche e per quasi tutti gli artisti. Com'è possibile che in una persona greve viva un'anima leggiadra? Eppure succede.  Continuamente.

La conclusione è lampante: il talento è un regalo distribuito senza criterio.      


Foto contro sguardo. Domenica 9. Malgrado il calendario è un'altra giornata primaverile. Ne approfittiamo per visitare una zona archeologica appena recuperata e aperta al pubblico sull'Appia Antica, la tenuta di Santa Maria Nova.

Facile e sbrigativo descriverla, anche perché assomiglia a tante altre. C'è un bel prato, parecchi pini e cipressi, mozziconi di muri antichi, un casale medievale nato sulle fondamenta di un edificio romano. Probabilmente terme in uso alla guardia scelta della Villa dei Quintili.

Nella quale, dopo averla scippata, eliminandoli, ai legittimi proprietari, appunto i fratelli Quintili, l'imperatore Commodo andava spesso a fare delle scampagnate, e naturalmente aveva bisogno della guardia del corpo.

Ci sono pavimenti in mosaico, vasche e ambienti riscaldati; insomma, la solita attrezzatura delle terme dell'epoca.            

Naturalmente non è per fornire questa banale descrizione che riferiamo la nostra visita.

All'ingresso della tenuta, in cima ai resti di una grossa cisterna hanno costruito un moderno belvedere, da cui si ha un'ottima visuale panoramica di tutti i dintorni, dai Colli Albani, alle tombe dell'Appia Antica, agli aerei che decollano da Ciampino.

Tutti contenti ci siamo saliti, abbiamo lasciato spaziare lo sguardo, poi lo abbiamo abbassato, e qui abbiamo avuto la sorpresa, da cui il nostro titolo.

Tutto intorno, sui quattro lati della terrazza, ci sono, bene incorniciati e fissati alla ringhiera, dei pannelli a colori che riproducono esattamente quello che si vede affacciandosi da quel lato. Normale amministrazione? Ce ne sono parecchi di quei pannelli in giro, ma sempre arricchiti da indicazioni per riconoscere la tal cupola, o il talaltro monumento nella foto, e di conseguenza identificarlo nel panorama.

Qui, invece no; c'è la foto e basta. Ha tutta l'aria di essere un omaggio al potere che in questa nostra epoca dell'immagine ha acquistato l'immagine stessa.

Se io vedo, a mezzo metro dagli occhi, fotografata su un pannello a colori, la stessa cosa che vedo se gli occhi li alzo e guardo un po' più in là, vuol dire che quel panorama è importante, e sono autorizzato a ricordarmelo con legittimo orgoglio: io c'ero e ho visto proprio le stesse cose che stavano stampate sul pannello.

Come turista sono a posto.

Come persona pensante, un po' meno, ma che fare?



                                     




 

 
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In trincea

Post n°302 pubblicato il 02 Novembre 2014 da torossis

 

  IL CAVALIER SERPENTE

  Perfidie di Stefano Torossi

  3 novembre 2014

   IN TRINCEA

 

Conferenza stampa in trincea. Alla minacciosa intimazione: "Fermi tutti, le porte sono allarmate!" non solo ci siamo fermati, ma abbiamo cominciato ad allarmarci anche noi. Giovedì 30, intorno a mezzogiorno al Campidoglio di Roma, dove eravamo invitati alla conferenza stampa di presentazione del festival TorBellaMusica, curato da Piji per la Casa dei Teatri e il Teatro Tor Bella Monaca (che è il nome dello spazio, da cui il gioco di parole).

Fallisce il primo tentativo di entrare dall'ingresso abituale. Cacciati e spediti alla Protomoteca, su e giù per scale e scaloni. Niente da fare neanche lì. Incomprensibili dichiarazioni del personale: ragioni di sicurezza.  Mah, noi non avevamo avvertito minacce nell'aria. Comunque, torniamo tutti al portone di prima; qui siamo intruppati da un vigile che ci fa passare quattro alla volta e quando siamo nella portineria, ma non ancora autorizzati a procedere, ecco la minacciosa intimazione.

Per camminamenti interni che ricordano i sotterranei del Colosseo (ci è parso di udire il ruggito dei leoni) arriviamo alla sala, dove finalmente ci viene dato, in letizia e con la vivace partecipazione degli artisti coinvolti, l'annuncio del programma, ricco e bene articolato, della manifestazione.

Ultimamente, a proposito della cultura, abbiamo sentito dire spesso: "Di questi tempi il teatro (o la musica, o la danza) è in trincea". Senz'altro vero; e ci è sembrato un giusto adeguamento al sentimento diffuso fare in modo che in trincea siano organizzate anche le conferenze stampa.


Fratelli coltelli? Niente di tutto ciò in una serata della serie "Fratelli nel Cinema" organizzata dalla Cineteca Nazionale il 29 allo  Spazio Trevi. I fratelli sono Paolo, Vittorio e, protagonista dell'evento, Franco Taviani. Incontro guidato con garbo e discrezione da Amedeo Fago, ma quasi sabotato, soprattutto per la pessima mira, dalla co-moderatrice Patrizia Pistagnesi. La quale, invece di puntare su Franco, ha parlato soprattutto di sé e della sua ammirazione per gli altri due fratelli.

Non si fa così a casa del festeggiato, no?

Saletta gremita, e, in attesa della proiezione di "Gli sconosciuti", l'ultimo film di Franco Taviani, ci è stato servito un delizioso copione a tre voci di battute, ricordi (d'infanzia e di carriera), riconoscimenti e  manifestazioni di affetto e rispetto reciproco che alla fine ci hanno portato inevitabilmente a riconoscere che, quando funziona, la famiglia è una gran bella cosa.

Se manca l'opera è quasi meglio. Il nome della mostra è "Open museum, open city". Inaugurata il 23 ottobre al Maxxi. La prima domanda è: perché un titolo inglese? La seconda, appena entrati: dov'è la mostra? Poi abbiamo capito tutto: la mostra non è visiva ma acustica. Il programma dichiarato dal curatore Hou Hanru è svuotare totalmente il museo per riempirlo di suono.

Splendida iniziativa perché l'edificio, dentro, è straordinariamente bello: volumi immensi, linee curve, passerelle sospese, pavimenti inclinati. E' lui l'opera d'arte (dobbiamo aggiungere che tutto quello che ci abbiamo visto nel corso di varie esposizioni non ci è sembrato mai neanche lontanamente all'altezza del contenitore).

Quindi siamo totalmente d'accordo con la prima parte del progetto: svuotarlo.

Meno sul riempirlo di suoni. Qui parte l'equivoco, anche un po' stantio: il suono organizzato è musica, consonante o dissonante non fa differenza. Il suono in sé non è niente. Può essere pauroso, certo, inquietante, ossessivo, ipnotico, rasserenante, ma, malgrado i molti tentativi delle avanguardie, da solo non va mai abbastanza lontano da rappresentare un fatto autonomo, uno spettacolo, una riflessione. Rimane una sensazione. E questo non basta.

Così ci siamo trovati con gli occhi felici per le estensioni quasi infinite a disposizione, ma con le orecchie, ormai troppo smaliziate per stupirsi davvero, inutilmente costipate di rombi profondi, pulsazioni nevrotiche, sibili e grattugie. Roba ormai vecchia, anzi, nata già vecchia.

Sull'inglese del titolo: boh?


Cinquant'anni. E' l'età della galleria "Il segno" di Via Capo le Case a Roma. Festa di compleanno il pomeriggio di mercoledì 29, con una mostra in cui ai muri non c'è appeso un bel niente. Ci sono scritti, in compenso, i nomi di tutti gli artisti le cui opere sono state davvero attaccate a quei chiodi in questo mezzo secolo.

Certo non sapremmo cosa suggerire come alternativa. Rimane il fatto che queste pareti scarabocchiate ci ricordano  i tanti ristoranti turistici del centro storico, decorati con foto e firme taroccate di ospiti illustri; o addirittura qualcuno dei pochi jazz club ancora vivi, omaggiati, sempre sull'intonaco, da improbabili Duke Ellington o Louis Armstrong.

Solo che spaghetti o note musicali non si possono certo appendere, mentre i quadri sì, si potrebbe.

Insomma, l'impressione è di una trovata un po' furba.

Ma, per citare un contemporaneo piuttosto famoso (quel signore sempre vestito di bianco): chi siamo noi per giudicare?



                                          

 

 
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