Chakra e hz

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Abbinamenti di frequenze sonore, colori e chakra

  1. Chakra “Muladhra” – Nota SOL (384 Hz) – Colore Rosso (400-484 THz) – Frequenza 40ima ottava: 422.212.465.065.984 Hz – Brano Esempio: “Meditation Lake
  2. Chakra “Svadhthana” – Nota LA (432 Hz) – Colore Arancio (480-510 THz) – Frequenza 40ima ottava: 474.989.023.199.232 Hz – Brano Esempio: “Mixolydian Samba
  3. Chakra “Manipura” – Nota SI (480 Hz) – Colore Giallo (510-540 THz) – Frequenza 40ima ottava: 527.765.581.332.480 Hz – Brano Esempio: “The Secret of Memory
  4. Chakra “Anahata” – Nota DO (512 Hz) – Colore Verde (540-610 THz) – Frequenza 40ima ottava: 562.949.953.421.312 Hz – Brano Esempio: “Aria sulla Quarta Corda” (Bach)
  5. Chakra “Vishuddi” – Nota RE (576 Hz) – Colore Blu (610-670 THz) – Frequenza 40ima ottava: 633.318.697.598.976 Hz – Brano Esempio: “Canone di Pachelbel” in RE
  6. Chakra “Anja” – Nota MI (640 Hz) – Colore Viola (670-750 THz) – Frequenza 40ima ottava: 703.687.441.776.640 Hz – Brano Esempio: “Pavane” (Fauré)
  7. Chakra “Sahasrara – Nota FA# (720 Hz) – Violetto (oltre 750 THz) – Frequenza 40ima ottava: 791.648.371.998.720 Hz – Brano Esempio; “Jesu, Joy of Man’s Desiring” (J. S. Bach)
  8. https://www.musica-spirito.it/meditazione/musica-colori-chakra-e-frequenze/

 

 

 

https://www.youtube.com/watch?v=2kxRi-ZmogI

 

https://www.youtube.com/watch?v=2kxRi-ZmogI

 

12 gennaio 2019

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Kotodama

Il “Kotodama” è una forza spiritale misteriosa che sta nella “parola”. I kotodama sono delle frasi, dei suoni vocalici, che hanno una parte molto importante nella vita giapponese.
Giappone, si credeva (ed anche oggi è rimasta una sorta di superstizione)  che ogni parola pronunciata si sarebbe un giorno realizzata: In matrimonio giapponese, nessuno dei partecipanti dice le parole che fanno immaginare “separarsi” né “divorziarsi”, non solo per evitare la maleducazione. Hanno paura che succederà per la colpa delle parole.
Se uno studente ha un esame di iscrizione per un’università, la sua famiglia sta attenta di non pronunciare “ochiru” o “suberu”, perché tutti e due significano “bocciarsi”.

Se qualcuno sta morendo sul letto in un ospedale, nessuno della famiglia, parenti, e amici inizia a chiamare l’agenzia di funerale. Anzi se lo fa, verrà attaccato dai tutti, magari uno dei questo penserebbe, “Speri che muore prima possibile?”.

“Kotodama” si scrive 言霊. (anche 言魂)
言 “koto” è “parole”.
霊(魂) “tama” (collegando con “koto”, si pronuncia “dama”) è “spirito” o “anima”.
La parola “koto” ha un altro ideogramma 事 che intende “fatto”. Ora i due ideogrammi hanno i diversi significati, ma nell’era antica, anche dopo dell’importo del kanji dalla cina, il “dire” e il “fatto” avevano un concetto uguale. In un libro antico si vede 言 come 事, e viceversa.
E’ KitKat, un prodotto dolciario di Nestlè.
I giapponesi lo pronunciano “kitto katto”, che somiglia un po’ “kitto katsu”, cioè “vincere assolutamente”.
Per cui nel periodo dell’esame vengono acquistati dagli studenti che vogliono  i cioccolatini che portano la fortuna. E’ un esempio di kotodama positivo.

Anticamente in Giappone chiamare qualcuno con il nome vero veniva evitato, perché chiamare così significava di controllare o dominare la personalità dell possessore del nome.

Quando due giovani si frequentano, per la ragazza  fare sapere il suo nome vero è dichiarare che accetta il rapporto d’amore.  Infatti nelle poesie antiche, chiedere il nome, è considerato una proposta di  matrimonio.
In Kojiki, c’è una storia in cui una ragazza che aveva rivelato il suo nome per la richiesta da un imperatore, l’ha aspettato per ottanta anni sperando che lui venisse a prenderla.

L’autorice di Genji Monogatari è conosciuta come Murasaki Shikibu 紫式部. Ma non è il suo nome personale. Dicono che il nome autentico fosse stato Fujiwara Takako o Kaoriko 藤原香子, ma non è chiaro. Murasaki è stato preso dal nome di un personaggio nella storia, Shikibu è il nome del ruolo dilavoro di suo padre.

Non chiamare il nome vero è scomodo, così è nato azana (字) il sopranome per sostituirlo.
(Oggi tra gli amici quello che si usa per esprimere la simpatia si dice adana (あだ名). Col tempo è stato confuso con azana e adana.)

Il nome vero invece si dice imina (諱). Si scrive anche 忌み名, appunto vuol significare “nome da evitare di dire”.

Il noto samurai Miyamoto Musashi, di cui Musashi è azana. Il vero nome è Harunobu. Ma conunque lo chiamiamo Musashi, il nome conosciuto.

Anche oggi si trova facilmente la traccia di questo concetto, anche se oramai non è così presente come una volta.

In Giappone gli imperatori hanno il nome vero, ma durante la loro era, nessuno li chiama con il nome, anche perchè non è neccesario. L’imperatore è sempre e solo uno, per cui basta chiamare “L’imperatore”. Per distinguerlo dagli altri imperatori del passato, lo chiama “Kinjoo Tennoo”, ossia “L’imperatore Attuale”. L’imperatore precedente, con il nome dell’epoca Showa, lo chiamano Showa Tennoo. I Giapponesi si  sorprendono  quando sentono  che all’ estero si usa il nome vero, come ad esempio capitò per L’imperatore Hirohito.

Nella vita quotidiana dei giapponesi, chiamare il nome vero è comunque significativo. Ad esempio nei cartoni animati la protagonista si imbarazza per essere chiamata con il suo nome, non cognome ne sopranome!  Per chi vivere in Giappone, osservando  bene come si chiamano, si capisce  il rapporto o la distanza personale tra le persone.

Nel Reiki con il termine Kotodama, ci si riferisce ai Mantra dei vari simboli. Non è insolito comunque sentire chiamare i Kotodama anche Jumon.
Il termine Jumon, significa “incantesimo” o “magia”. quell’insieme di leggi cosmiche che regolano l’intero universo.

In alcune scuole giapponesi i Kotodama non vengono semplicemente pronunciati ma intonati come dei Mantra: vengono salmodiati a ripetizione o emessi come se fossero un lungo suono. Grazie alle loro vibrazioni, i Mantra producono un effetto di guarigione attraverso la funzione dell’interdipendenza: ogni Mantra possiede una determinata frequenza vibrazionale, per mezzo della quale l’energia liberata può essere indirizzata in modo preciso, al fine di lavorare su tematiche specifiche; siano esse fisiche, mentali o spirituali.

 
 

MANTRA GIAPPONESI (dal KUJI-KIRI o KUJI -IN) e ARTI MARZIALI”

fonte: (il respiro e la voce dr. Alessandro Gelli)

La tradizione dei defunti in Sicilia

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La tradizione dei defunti in Sicilia


s-l225 (1)“Chi non è stato in Sicilia e non ha dimestichezza col nostro popolo, non può avere un’idea esatta degli esseri spirituali che vanno sotto questo nome di Morti.
I Morti sono le anime dei nostri congiunti più cari, i quali una volta l’anno, la notte dall’1 al 2 novembre, escono dalle sepolture e vengono a rallegrare i nostri figlioletti lasciando loro ogni più bella cosa secondo i gusti e i desideri de’ fanciulli.
I Morti escono dai cimiteri ed entrano in città. Siccome in passato i cimiteri erano per lo più entro i conventi de’ Cappuccini, così i Morti sogliono partire da quei conventi.
In Gianciana però escono dal convento di S. Antonino de’ Riformati, attraversano la piazza e arrivano al Calvario; quivi, fatta una loro preghiera al Crocifisso, scendono per la via del Carmelo.
È nel passaggio appunto che lasciano i loro regali a’ fanciulli buoni.
Nel viaggio seguono quest’ordine: vanno prima coloro che morirono di morte naturale, poi i giustiziati, indi i disgraziati, cioè i morti per disgrazia loro incolta, i morti di subito, cioè repentinamente, e via di questo passo.

In Modica i Morti, risorgono al solito, la notte della loro festa, e propriamente quando canta il gallo la prima volta; escono a schiere dalle sepolture e si ordinano a due a due come nelle processioni e camminano lentamente.
Le prime schiere son vestite di bianco e son le anime dei morti in grazia di Dio; le seconde schiere son vestite di nero, e son le anime dei dannati; le ultime son vestite di rosso , e son le anime degli uccisi.
Ciascuno di quei morti ha un braciere (una cunculina) sul capo; ma la processione non può spingersi al di là della prima croce che incontri, perché alla vista della croce è forza che i Morti retrocedano.

In Baucina la resurrezione dei Morti ha luogo presso il Monte Falcone; e qui si possono vedere vestiti di bianco, mormorare non so che parole o preghiere, con alla mano destra un rosario ed alla sinistra un vaso da notte, che col rosario vengono ordinatamente battendo; ed intanto vanno saltelloni a ridursi nella cosiddetta Grutta, donde scendono al feudo sottostante per tener consiglio.
In Francofonte al primo risorger che fanno si sentono dire : Cumanna cumanna! e senza neppur fiatare, per propria volontà, son già divenuti vento. Non si vedono, ma si sentono a cantare un latino corrotto:

Meu meu Catameu.

In Gasteltermini il viaggio è ogni sette anni, e i morti lo fanno attorno al paese, lungo le vie che devono percorrere le processioni solenni.
Vi son donnicciuole che giurano esservi stata una giovane morta pochi dì innanzi il 2 novembre, la quale, impedita nel viaggio notturno da una camicia troppo lunga che la madre le aveva messa il giorno della morte, si fosse recata da lei pregandola che gliela raccorciasse per poter meglio seguire la funebre ma benefica compagnia.

In Vicari i Morti partono in processione dai Cappuccini, ma non fanno nessun regalo; i regali li fa la Vecchia di Natale. Rimessi di questo modo a vita effimera i Morti, appariscono essi vestiti?
Ciò non saprei affermare, essendo molto vago nella tradizione.
Quel che si sa è che in Acireale vestono di bianco, avvolti, come quelli del Friuli nel funebre lenzuolo, e calzano scarpe di seta, forse per eludere la vigilanza de’ venditori ai quali andranno a rubare qualche cosa.

In Borgetto, Partinico, ecc. vanno avvolti nel solo lenzuolo a piedi nudi e con una grattugia di sotto, portanti ciascuno un torchio resinoso acceso; procedono a due a due recitando rosari e litanie.

In Milazzo, col teschio pesante che hanno sul debole bollo, schiacciano la tenera cervice de’ bambini; hanno tutti in mano una crocetta con la quale cavano gli occhi ai fanciulli indiscreti e curiosi.

In Catania passeggiano in processione per le strade recitando il rosario.
In altri comuni dell’Etna camminano cu lu coddu di filu, cioè con un collo di filo o sottilissimo quanto un filo. Quindi girato pei luoghi più popolati del paese^ e giunti ove essi devono, si fanno formiche per entrare nelle case de’ loro congiunti, penetrano per le fessure, e non mai visti fanno il fatto loro.
In che modo passino i loro doni non sappiamo, ma è celio che li passano.
Così nelle novelline popolari i figli di re, col piede d’una formica da essi beneficata, hanno la potenza di convertirsi nella stessa formica e penetrare nei castelli incantati a trovarvi la principessa fatata, cui essi lungamente cercarono.
Accadde una volta in uno de’ viaggi notturni dei morti un fatto che è tutto piacere a sentire dalle donne etnee. La quali raccontano che ne’ tempi antichi un fanciullo orfano, desideroso d’incontrare in mezzo a quello stuolo di morti il povero padre suo, uscisse solo di casa sguaraguatando pieno di ansia e di paura. Ad ogni corpo che incontrasse era presto a domandare: Veni me patri? e l’altro a risponder subito: Appressu.
I morti erano tanti che il povero orfanello non ne poteva più, finché, già vicino ad abbandonarsi dell’animo, tra’ pianti e i singhiozzi lo trovò, e ne ebbe baci, carezze e dolci.
Appunto da questa storiella ripete la sua origine una frase proverbiale di Aci: Veni me patri? Appressu!, che si usa dire quasi motteggiando allorché si attende persona che non giunge mai.

In Monte Erice i Morti mangiano: fatto utile alla storia comparata degli usi funebri. Partendosi dalla chiesa dei Cappuccini, a un terzo di miglio dalla montagna, recano con loro tutto quanto è necessario a fare buoni morti ai bambini loro devoti. Giunti alla Rocca Chiana si fermano a prender riposo, sedendosi tutti in giro per rifocillarsi con ciò che di meglio possano immaginare i fanciulli ericini, cioè con pasta ben condita.
Ripreso via pei sentieri più deserti, vanno a lasciare i loro doni dentro le case dei bambini. Non ignorano tutto ciò costoro, e la mattina per tempissimo scendono a brigate ai Cappuccini a vedere i Morti che sono stati così buoni per essi; ma nello scendere vanno saltando per una scorciatoia, onde evitare Rocca Chiana, temendo che qualche morto non sia ancor là a mangiare, o che non si trovino colà avanzi della lauta imbandigione.
Nel Messinese c’è un usanza che non trova riscontri in altri punti di Sicilia, a quanto io mi sappia. Ed è questa. Le mamme consigliano ai bimbi a metter sul tavolino un bicchier d’acqua perché i Morti hanno sete; il domani se il bicchier d’acqua è vuoto, vuol dire che i Morti son venuti, hanno bevuto, han lasciati i regali che il bimbo deve veder dove stanno nascosti; se il bicchier d’acqua è pieno, vuol dire che il bambino è stato inquieto e disobbediente; che i Morti son passati, non hanno voluto bere e quindi non hanno lasciato i dolci e i giocattoli.
A Messina, però, anche oggi, hanno l’abitudine di andare al cimitero, e, seduti vicino alle tombe mangiare e bere allegramente per poter vivere più lungamente e poi lungamente poter onorare i parenti morti. (Giuseppe Pitrè – Usi Costumi Credenze e Pregiudizi del popolo Siciliano)

COME E QUANDO I DEFUNTI CI POSSONO RAGGIUNGERE

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COME E QUANDO I DEFUNTI CI POSSONO RAGGIUNGERE

I nostri cari defunti ci “raggiungono” con più facilità, se qui sulla terra possono trovare pensieri, sentimenti e sensazioni, rivolti a loro. L’amore, la simpatia costante che conserviamo verso i defunti stabiliscono questo collegamento.

I defunti si chiamano con un moto di affetto. E’ questo che crea il contatto. E’ questo che loro sentono. Bisogna ricordarli in situazioni che abbiamo vissuto insieme, anche le più semplici, non importa se recenti o remote (ad esempio mentre parlava o si lavorava insieme). In altre parole si dovrebbero immaginare delle scene reali.

Quando una o più persone defunte ci vengono improvvisamente in mente, mentre stiamo svolgendo le nostre attività consuete, dobbiamo arguire che sono loro che stanno chiedendo la nostra attenzione. A quel punto è doveroso per noi dedicare loro qualche minuto del nostro tempo, così come faremmo per un appuntamento telefonico: qualche minuto speso per uno “scambio” di idee. Si tratta infatti di uno scambio e non di un discorso unilaterale: uno scambio che risulterà benefico per entrambi.

Questo tipo di attività dovrebbe essere ordinata e programmata con metodo ed esercizio. Essere fedeli e puntuali indica correttezza da parte nostra nei loro confronti, anche se ciò può comportare qualche piccolo sacrificio. Noi abbiamo bisogno di loro quanto loro di noi.

RUDOLF STEINER

I sigilli

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«I sigilli sono monogrammi di pensiero per il governo
dell’energia… un mezzo matematico simboleggiante un
desiderio che dandogli forma ha la virtù di eludere
ogni pensiero e associazione a quel particolare
desiderio (nel momento magico), sfuggendo
all’identificazione dell’Ego, così che tale desiderio
non sia frenato o legato alle proprie immagini
transitorie, ricordi e preoccupazioni, ma gli permetta
di passare liberamente nel subcosciente»

Il Libro del Piacere
-A.O.Spare,30 dicembre 1886-15 maggio 1956