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°°°il_coltellino_svizzero°°°

Post n°379 pubblicato il 19 Maggio 2010 da fragolozza
 

E’ un rumore di accozzaglia infelice quello che genera il metallo del coltellino svizzero, battente contro il metallo delle chiavi.
La via d’uscita è lì, nell’enorme tasca del giubbotto, sul fondo, dove ha spinto le dita e dove c’è anche un accendino scarico, che un giorno accese cento sigarette ed ora è solo una carcassa di plastica.
Divina di vita una traccia cerca, ma tra le dita ha morte che mai saprà dare, ma che vuole tenere, perché la lama scatta e un rivolo di sangue sporca il rivestimento interno, la stoffa nascosta, non però fino al punto che la macchia si veda dall’esterno.
Poco importa. Nessuno sta guardando e se guarda è di sguardo patetico che le insudicia il corpo, altrettanto carcassa, ma non di plastica, bensì di carne e troppe ossa, allineate e in qualche caso appuntite contro la pelle che male ostacola la dissimulazione di uno stato altro, lontano, diverso dalla realtà dei fatti.
Il taglio brucia e, per un attimo, la sensazione è quella dell’aria fresca che impatta il viso all’apertura della porta di una stanza a lungo rimasta chiusa. Del resto, i coltelli aprono come le chiavi, ma perché tutto ciò che c’è dentro possa venire fuori, il taglio dev’essere netto e sicuro, quasi clinico, dall’effetto patologico costante, riverbero esterno di una pena interna, non ammissibile e certamente non superabile altrimenti.
Preme le dita, le stringe e l’umida calura gradualmente scivola via, sostituita da un brivido di sollievo e paura insieme, perché non vuole- lei lo sa che non vuole- di un ennesimo errore rinfacciarsi la colpa e poi dolere e ancora maledire l’impulso niente affatto lucido, ma purtroppo brillante, a cercare dentro di sé e mai altrove rifugio ed espiazione, commiserazione e orgoglio.
Stringe ancora, adesso il palmo, e l’emozione è tanto forte quanto lo sarebbe lo shock se riuscisse a vederla per davvero la linea dell’amore che si squarcia e diventa linea d’odio, rancore e rabbia, ma non riesce a vedere altro che buio e nebbia fitta e l’emozione si ridimensiona a normale afflato, non di fiato, ma di veleno, sublimato a particelle di vitanonvita.
Avvilita, abbandona la presa e l’uscita è un’entrata d’inferno dove via, se c’è stata o può essere, è da intendersi solo in un senso: darsi via e non riaversi più indietro.

COLONNA SONORA

Commenti al Post:
santinove
santinove il 19/05/10 alle 17:16 via WEB
sembrerebbe inevitabile il salto dalla padella alla brace, ma se l'emozione lascia il posto alla ragione?
 
 
fragolozza
fragolozza il 20/05/10 alle 14:02 via WEB
in quel caso la ragione si spinge oltre con un salto dalla brace al piatto. ciao!
 
   
santinove
santinove il 21/05/10 alle 11:22 via WEB
ho gradito..brava!!!
 
fra19572
fra19572 il 19/05/10 alle 20:48 via WEB
La domanda sorge spontanea....ma come fai?? Sei fantastica..
 
 
fragolozza
fragolozza il 20/05/10 alle 14:02 via WEB
tesoruccio... tu sei troppo! grazie!!!
 
effendi09
effendi09 il 19/05/10 alle 22:27 via WEB
Io so cosa vuol dire. E non vorrei lo sapessi anche tu. Davvero non lo vorrei. Ed in nessun modo potrei infondere altro che un leggero, sottile, respiro sotto il portone bilndato. Solo una cosa: ricorda che sei libera, non e' cosa da poco.
 
 
fragolozza
fragolozza il 20/05/10 alle 14:04 via WEB
libera da chi o da cosa??? PS: potresti organizzare un paraklausituron, alla maniera archilochea. chissà che qualcuno non t'apra.
 
effendi09
effendi09 il 22/05/10 alle 22:02 via WEB
Non era mio desiderio entrare. L'impressione, piuttosto convinta, e' che ci fosse qualcuno, forse un prigioniero, prigioniera, da far uscire. Non da liberare, gia' libera, libero. L'impressione era, ed e'.
 
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Le cloache di notte somigliano
a fiumi nascosti.
Scommetti che a perdere il cuore
guadagni più spazio?
Sul banco dei pegni
ho impegnato
il mio ombretto di rosa.
Palpebre nude non chiudo
per cogliere il resto
di quello che resta
sul conto in sospeso
dei nostri sospesi.

Le formiche al tramonto ricordano
grani di pepe.
Sai contare al contrario, partendo
da cifre irrisorie?
Sotto l’arco
s’inarca in trionfo
la triade imperfetta.
Me stessa, quell’altra o la stessa
si chiudono a riccio.
Per capriccio
mi cavo d’impiccio.
Mi sento di troppo.

 

 

 

 
 

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