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Post n°316 pubblicato il 21 Luglio 2009 da fragolozza

"E’ ammaliante la sensazione di liberazione e vuoto, conseguente ogni concitata corsa lungo il corridoio, quando con i palmi tesi e aperti, le braccia spalancate quasi io vada incontro alla mia crocifissione, accarezzo le pareti nude e, subito dopo, la ceramica fredda, per vestirmi della loro ruvidità pesante e consolarmi all’idea di quanto possa essere facile guadagnarsi uno scampolo di fittizia gratificazione.
Chi condanna non sa e chi sa è troppo preso da se stesso per condannare. L’egoismo è la malattia di questo tempo. Io non sono malata, non prendo niente per me… come potrei?
Io sono indifferente, apparentemente svagata, la mina inesplosa, ma con la miccia consunta dalla debole fiamma che io stessa appiccai. Non è divertente?
Godersi ogni stilla di malessere instaura tra il soggetto in pena, il suo imprescindibile contesto e le svariate comparse sulla scena, un rapporto di malsana sopportazione. Io sopporto i miei luoghi indesiderati e stretti, figurandomeli quali oasi di temporaneo ristoro, prima che un viaggio mi sradichi dai luttuosi pantani in cui detergo l’anima. E sopporto la gente che senza interesse alcuno si compiace a fare della mia tristezza il metro di valutazione per apprezzare la propria buona sorte, uno scotto tutto speciale che io devo pagare per la loro abitudinaria buona volontà di fare buone azioni.
Lo squillo del telefono è come un cotonfioc infilato a forza nell’orecchio. Il suono del campanello è come una martellata sui denti.
I miei denti filtrano parole di sdegno. La faccia del nuovo postino si stampa sulla mia retina contro luce.
Abita qui la signora X?
No.
Ma mi hanno detto che abita qui!
No.
E allora dove abita?
Fanculo e che ne so? Sei tu il postino.
Tra l’essere e il non essere non esiste opzione esatta. Se vuoi essere qualcosa inevitabilmente non lo sei e ogni volta che ti ostini a negare la natura che ti rinfacciano devi ammettere che di quella soltanto esiste consapevolezza. Ma a me non serve. Non ho bisogno di ripetermi fino a che punto un’espressione gelida o una parola scottante mi segna, perché io ho imparato a resistere a tutto quanto.
Non so come se ne sia andato il postino. Mi avrà maledetta- non è il solo; mi avrà insultata- non è il primo.
Io lascio che niente mi tocchi, ma seguo la corrente; penso che sia inutile pensare, ma dei pensieri inutili ho riempito la mia mente.
Mi sono vestita in tutta fretta. La scorta quotidiana di nicotina da infoltire, nuova cenere alla pietra lavica.
Il tabaccaio mi odia. Anch’io lo odio e quindi va bene.
“Due pacchetti di benson rosse.”
“Sono finite. Ti do due di Diana?”
“Le diana mi uccidono la salute.”
“Anche le benson ti uccidono la salute!”
“Permetti che io mi uccida la salute con quello che mi pare?”
Non è mai stato facile convivere col guazzabuglio distorto, intricato e maniacale che tengo in testa e mi tiene testa, ma ho maturato la capacità di astrarmi, ho smesso di tenermi sveglia e, quando non mi conviene, fingo opportunamente un inopportuno letargo.
Voluttuosità onirica e tramestio di veglia finiscono col confondersi. L’importante è tenere duro, ostentare indifferenza e, se per riuscirci, devo sacrificare l’unico piacere che ancora mi è concesso, lo faccio, un poco per volta, giorno dopo giorno.
Forse l’inizio è da ricercarsi in quella palese disattenzione, nell’aver pensato che il sacrificio porta sempre premio. Forse l’inizio è nelle mancanze che, col senno di poi, sono diventate difetti- o non c’è mai stato inizio e mi illudo che quanto in realtà sia destino, per la mia mente fallace sia una temporanea deviazione di percorso.
E credevo sarebbe stato facile smettere, quando, ad ogni mia nuova confessione di colpa, mi dicevi: “Così ti fai male”.
E se fossi stato tu l’inizio?
Smisi di parlartene, smisi di ascoltarti e tutte le volte replicavo all’angoscia dei tuoi rimbrotti dicendoti: “Adesso sto meglio”.
Era una finzione cui mi ero abituata ad arte, consapevole che, ad essere di nuovo sincera, mi sarei giocata quel poco di buono che ancora mi spettava tra i tuoi pensieri e in fondo alle tue tasche. Muoverti a pietà non sarebbe valso a che tu mi volessi più bene, per questo ti puntavo addosso il mio viso gradualmente più smunto, scommettendo sulla tua impassibile volontà di non farne un’icona d’affetto.
“Non darmi le Diana, ci sono le Fortuna?”
“Tieni ne hai bisogno”
Il tabaccaio mi odia. E’ evidente da come mi sbatte i pacchetti sul banco. Poco male, perché anch’io lo odio e me ne vado sempre senza salutare.
E’ breve il tratto di strada fino a casa mia. Non mi piace l’asfalto, non mi piace il cemento e ancora più triste è contare gli aghi di pino che dopo parabolici voli sono finiti a marcire sul bordo del marciapiede.
Vagamente perverso ostinarsi a celebrare una concezione del mondo concreto palesemente errata, ma persino la perversione talvolta rincuora e, se il cuore è vuoto, vale la pena aggrapparsi a tutto ciò che resta e considerarlo tesoro, per quanto oscuro sia. Tutte le brutture e tutte le cicatrici, dimessa la loro naturale condizione di negatività e prese quale modello di personale trofeo o medaglia, diventano un passo verso la redenzione.
Ed io avevo ed ho così tanto di cui ripulirmi, da non potermi ancora dire sana, tanto meno perfetta.
I tuoi occhi, invece, erano perfetti, ma troppo piccoli perché potessero contenermi tutta. Consumandomi, annientandomi, facendo del niente e dell’evanescenza un ideale di vita, mi convinsi che alla fine sarei riuscita a starci.
Cominciai tenendo lo sguardo basso, così da poterti almeno sporcare di mascara le scarpe, ma tu eri sempre distante e continuai puntando gradualmente l’attenzione verso l’alto, fino alle vetrine riflettenti e, con notevole coraggio, fino allo specchio e all’immagine corporea di me sempre più simile ad un incorporeo spauracchio. Anche il passo, dapprima furtivo, si evolse verso un’andatura risoluta e svelta, a tratti persino fulminea nei momenti di maggiore delirio.
Sapientemente illusa dalla mia stessa speranza, gettavo acqua sul liquame rappreso, che dall’interno restituivo all’esterno, come non fossi mai stata degna di portarmelo dentro.
Non so dire quanto profondo fosse il senso di trionfo, ma gongolante, ripercorrevo il percorso all’inverso, lasciando andare la ceramica scaldata dal mio stesso calore e strofinando le nocche contro l’intonaco bianco, perché ancora più sottile diventasse lo strato di pelle.
E tornavo a cercarti, come cane che torna dal padrone a restituire l’osso, le ossa che visibilmente mi segnavano il corpo.
Perché non mi hai mai gettato il cuore? Lo avrei preso, probabilmente al volo, ma senza riporto. Sepolto, sotto le lodi, gli elogi e le mie farneticazioni idolatranti, lo avrei custodito, cuore rivelatore, che troppo tardi capì quanto avrebbe fatto bene a perdersi nelle mie mani.
Ora ho le mani sporche, la bocca secca e gli occhi lucidi. Un giorno in meno è un peso in meno. Un giorno in più è un altro dosso da scalare.
Dune di polvere nascondono gli oggetti importanti e mettono in evidenzia le inezie. C’è troppo polvere e anche tu sembri lontano, ma non credo tu sia ancora importante.
Quanto importante può essere una visione, un’inefficace assenza, che a qualunque tensione di braccia o di voce evita il contatto?"

certe parole riemergono a caso da un passato non localizzabile, ma che l'infelicità del presente, alla mente di adesso, dipinge felice.
è triste scoprire che in fondo sono sempre stata triste.

 
Rispondi al commento:
fragolozza
fragolozza il 23/07/09 alle 13:25 via WEB
va bene, uagliò ^__*!
 
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s’inarca in trionfo
la triade imperfetta.
Me stessa, quell’altra o la stessa
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Per capriccio
mi cavo d’impiccio.
Mi sento di troppo.

 

 

 

 
 

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