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(...) Sono in una casa non più mia e il terriccio che insudicia il tavolo, accompagnato fin lì da un vento infame, che si è sempre divertito a vedermi sudare tra strofinacci e spugnette intrise di acqua e sapone solo per beffarmi con rapidi e nuovi millimetri di sporco, è il mio schiaffo sul viso. Schiaffo metaforico ma che non brucia meno dei reali impatti di mani violente sulla mia anima inerme tutte le volte che sbaglio.
L’esattezza di un gesto o di una decisione è un concetto arbitrario e manipolato dal soggetto predatore. Io sono la preda incapace di andare al di là del male.
Riposo gli occhi, ma mi rivedo, non esattamente lì, ma poco oltre, sia nel tempo che nello spazio.
Fuori da questa stanza il sole innaffia di calore la città dormiente. Dentro di me è fine inverno, quasi primavera, e buio pesto.
Non c’è nessun tavolo e il cruscotto è lindo e profuma di lavanda.
“Apri il cancello” mi ordina Ivan, mio fratello, mentre siamo fermi nella Fulvia sotto casa.
“Non voglio scendere. Aprilo tu!”
“Sbrigati!” mi urla.
“Non voglio!” replico, sbadigliando per la stanchezza di un’ennesima giornata vissuta controvoglia. Ho bisogno del mio letto, dei miei spazi, di tutto ciò che mi fa sentire al sicuro. Delle sole cose che riesco a trascurare. Devo dimenticare e dormire, dormire e dimenticare.
“Scendi ad aprirtelo da solo!”- insisto- e nel mentre volto la faccia verso il finestrino, sono già consapevole di quanto poco valgano le mie proteste.
Il sedile scomodo della Lancia in cui siedo, non è un’arma e nemmeno una buona difesa. Perché in un istante mio fratello si è portato fuori dall’abitacolo ed è lì, pronto a spalancare il mio sportello, per dimostrarmi che non ho possibilità né di diniego né di scelta.
Mi afferra per una ciocca di capelli e mi trascina fuori. Mi spinge con forza e prima batto il fianco contro l’auto poi finisco a terra, carponi. La punta di un sassolino mi affonda nel palmo della mano destra. La sinistra è uno scudo con cui cerco di difendermi la pancia dai suoi calci, ma mi prende a pugni la schiena e allora mi arrendo e affondo in terra entrambi i palmi, cosicché i graffi che mi procuro da sola alle mani mi distraggano dal dolore che mi infligge lui, chino su di me, pronto ad annullarmi.
Finisce com’era iniziata. Ivan si rimette in auto e mi lascia fuori senza una parola. Mi rimetto in piedi, zoppico qualche passo e gli apro il cancello.
“Richiudilo!”
Mette in moto. Sulla sua faccia campeggia un’espressione vuota. Non ne ho la certezza, perché la notte è un mostro che spalanca le sue fauci e mi ingoia in una tenebra orfana di una dentatura di stelle ormai spente. L’unico bagliore certo è quello delle luci di posizione che si arrampicano su per il viale fino all’entrata del garage, che così lontano somiglia a un anfratto da strega.
Sono consapevole che la mia memoria è poco lontana dai blocchi di partenza e troppo condizionata dalla coscienza del presente. Per questo non riesco a spiegarmi come io abbia mosso quei passi, da un ciglio di strada, ai gradini di marmo, fino al corridoio e alla mia stanza.
Ho amato con un’incoscienza pari alla coscienza con cui adesso odio. (...)
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POETRY
Le cloache di notte somigliano
a fiumi nascosti.
Scommetti che a perdere il cuore
guadagni più spazio?
Sul banco dei pegni
ho impegnato
il mio ombretto di rosa.
Palpebre nude non chiudo
per cogliere il resto
di quello che resta
sul conto in sospeso
dei nostri sospesi.
Le formiche al tramonto ricordano
grani di pepe.
Sai contare al contrario, partendo
da cifre irrisorie?
Sotto l’arco
s’inarca in trionfo
la triade imperfetta.
Me stessa, quell’altra o la stessa
si chiudono a riccio.
Per capriccio
mi cavo d’impiccio.
Mi sento di troppo.
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KELLY JONES
I really hope ya happy,
both of you
and maybe sometimes
you miss me too!