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Si può scrivere ciò che si vive o vivere ciò che si scrive.
Preferisco la seconda opzione.
Non ho mai pensato di poter avere, un giorno, materiale a sufficienza per scrivere un’autobiografia degna di nota.
A meno che non si sostenga che le vite nel bene e nel male si somiglino tutte, scrivere di quanto si è vissuto, ritenendo sia abbastanza interessante perché qualcuno lo legga, può avere una sua utilità solo se quel qualcuno che legge cerca tra le righe la chiave per decodificare attraverso l’esperienza dell’autore le proprie personali esperienze.
Come se si trattasse di un’esperienza particolare applicabile a tante anonime esperienze generali.
Ma questa riduzione al rango di archetipo empirico non è forse una mortificazione per l’esperienza narrata?
Tra memoria e intelletto, ultimamente preferisco l’intelletto e, sulla base della capacità di formulare pensieri, piuttosto che della volontà di rievocare situazioni, credo sia molto più bello vivere dopo ciò che si è scritto prima, piuttosto che scrivere poi quanto si è vissuto in precedenza.
Come se si giocasse un po’ a fare i demiurghi.
Rileggere un diario è uno stimolo per l’ippocampo… e sotto certi aspetti anche per l’amigdala. Ma per nient’altro.
Sono molto meno autobiografica da quando scrivo più qui che qui. Mi sto attrezzando, per quanto possa interessare, a maturare una buona dose di ubiquità, ma i fiumi di parole che prima mi fluivano dentro si arrendono alle dighe erette dalla scarsità di tempo, diventando paludi su cui danzano mosche tze tze e conseguenti malattie del sonno.
Ci si tiene svegli come meglio si può e io lo faccio, pagando il prezzo con la perdita dei buoni intendimenti artistici e della buona propensione a non prendermi troppo sul serio.
E da qualche parte- ma questo non credo sia un bene- ho perso anche la capacità di provare necessità e mancanze.
I Sottopassaggi qualche anno fa catturarono la mia attenzione con una canzone che s’intitolava Mary e nella quale era descritta una ragazza nella cui stanza c’erano solo un letto e una tv (e, avessero aspettato un po’, neppure più la tv).
Poi hanno scritto questa.
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POETRY
Le cloache di notte somigliano
a fiumi nascosti.
Scommetti che a perdere il cuore
guadagni più spazio?
Sul banco dei pegni
ho impegnato
il mio ombretto di rosa.
Palpebre nude non chiudo
per cogliere il resto
di quello che resta
sul conto in sospeso
dei nostri sospesi.
Le formiche al tramonto ricordano
grani di pepe.
Sai contare al contrario, partendo
da cifre irrisorie?
Sotto l’arco
s’inarca in trionfo
la triade imperfetta.
Me stessa, quell’altra o la stessa
si chiudono a riccio.
Per capriccio
mi cavo d’impiccio.
Mi sento di troppo.
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KELLY JONES
I really hope ya happy,
both of you
and maybe sometimes
you miss me too!