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LeCoccinelleVolano

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***Il_bianco_E_il_nero

Post n°533 pubblicato il 12 Ottobre 2016 da fragolozza
 

- Adesso tu ti aspetti una risposta, una soluzione. Ma non credo di potertela dare, non subito almeno. E ti spiego perché. 

Nel nostro mondo, esistono solo il bianco e il nero. Non c’è posto per altri colori. Non c’è posto per le sfumature. 

Sai com’è  il tuo problema? Il tuo problema non è bianco, ma non è nemmeno nero. Il tuo problema si pone nel mezzo, al limitare tra bianco e nero. Solo che, come ti ho spiegato, in questo mondo, non esistono vie di mezzo. È per questo che per alcuni il tuo problema è bianco e per altri è nero. Ma nessuno di loro ha ragione e nessuno ha torto. 

Hai idea di quanto tutto questo sia difficile? 

Di che colore è questo portapenne? Questo portapenne è come il tuo problema. Questo portapenne è grigio. Prova a uscire in strada, a fermare le persone e a imporre loro di dirti se per loro è bianco o è nero, escludendo l’opzione del grigio. I più scuoteranno la testa e si rifiuteranno di darti una risposta. 

Ma il tuo problema resta, a prescindere da quello che è il suo colore. E bisogna risolverlo. Chi lo vede bianco, ti consiglierà una soluzione. Chi lo vede nero, te ne consiglierà altre. Ma saranno soluzioni bianche per un problema grigio e soluzioni nere per un problema grigio. Quindi tutte soluzioni inadeguate, in alcuni casi futili e, in altri, troppo drastiche.

Il punto è: tu come lo vedi il tuo problema? Bianco o nero?

– Io? Io non ho nessun problema.

 
 
 

***Amatrice***

Post n°532 pubblicato il 24 Agosto 2016 da fragolozza
 

Domenica pomeriggio, il fine settimana ormai agli sgoccioli. Allunga la mano verso la leva del cambio, per accarezzare quella di lui, che sorride con gli occhi, schermati da lenti che riflettono tutte le varianti di verde di cui è vestito l'Appennino. Tra poche ore, quando si ritroverà da sola al primo piano di una casa che non divide con nessuno, avrà modo di riflettere sui giorni appena trascorsi, su questo primo "viaggio" insieme. Non si è chiesta (in fondo, non le interessa saperlo) se è quello giusto, ma sente di volergli bene, che, scoprendolo e scoprendosi, il difficile incastro delle spigolosità che entrambi hanno da offrire, presta il fianco ad un sentimento morbido, quasi di nostalgia, nel riconoscere come parentesi, un tempo che già vorrebbe fosse periodo, articolato ma non complesso. Tempo che corre, come la strada, il sole e la luce desiderosa di spegnersi sul giorno. Un giorno che forse è un finale, che forse è un inizio, che forse è soltanto un giorno tra tanti. 

- Se non hai fretta, potremmo fare una piccola deviazione e mangiare qualcosa insieme prima di rientrare. 

No, non ha nessuna fretta e stavolta è lei che sorride, per l'opportunità che lui le ha concesso e lei ha subito accettato, di dare un freno a tutte le corse in corso e regalarsi qualche altra ora insieme.

- Voglio portarti ad Amatrice, a mangiare l'amatriciana, quella originale. Ci sei mai stata?

- No, ma non vedo l'ora.

***

- È crollato anche il ristorante Roma, quello dove ci fermammo a mangiare. Che tristezza, vero?

- Infinita. Una tristezza infinita...

 

 
 
 

***quando_finisce_un_amore***

Post n°531 pubblicato il 25 Luglio 2016 da fragolozza
 

Napoli 30/12/2015
– Quanto costano le magliette? 
– Cinque la piccola e otto la grande.
– Una grande. È per me.
– Quale ti do?

Non esistono garanzie sulla durata o la fine di un amore, ma il fatto di sapere a priori che ogni storia, dalla più effimera alla più profonda, è potenzialmente destinata a finire, non evita di rimanerci male, quando effettivamente finisce.
Perché, quando si ama qualcuno, così come io ti ho amato, è difficile accettare qualunque tipo finale, tanto più se è un finale di merda.
E pensare che io nemmeno volevo amarti.
Dopo Ezechiele e la sua fuga con la francese, mi ero convinta che nessun altro mi avrebbe rubato il cuore. E, infatti, per quanto Edison si fosse impegnato, provando a conquistarmi, non c’era mai riuscito e, quando pure lui, alla fine, se n’era andato con la stessa francese, una semplice scollata di spalle era stata più che sufficiente per dimenticarmene.
Tu arrivasti all’improvviso, come un colpo di fulmine a ciel sereno, durante il primo pomeriggio di una domenica di agosto. Di te sapevo soltanto che eri un coglione che si era sfracellato la faccia su uno scoglio di Capri. Ma mi bastò guardarti. E il rospo, vestito d’azzurro e di grinta, diventò il principe insieme al quale io, che mi ero sempre sentita una cenerentola, forse finalmente avrei avuto l’opportunità di diventare una regina.
Quante ne abbiamo passate insieme? Tante gioie e altrettanti dispiaceri. In alcuni casi, a ripensarci adesso, la colpa è stata tua, ma la mia idolatria era tale da negare ogni tuo difetto, ogni tua mancanza. Era tale da difenderti sempre contro tutto e tutti.
E adesso te ne vai, mi lasci e ti aspetti pure che ti auguri di essere felice.
Non posso. Non si può augurare la felicità a chi ci spezza il cuore.
La discriminante tra il “possiamo rimanere amici”, il “ti vorrò per sempre bene” e il “che ti puozz’ cecà!” è data dalla modalità con cui ci si lascia o si viene lasciati. 
Se tu, per esempio, mi avessi lasciata civilmente, mi avessi spiegato le tue ragioni o mi avessi dato modo di intendere che con me non eri felice, avrei capito o magari no, ma comunque lo avrei accettato. Tu, invece, da grande scornacchiato quale sei, mi hai fatto credere fino alla fine che tutto quell’amore era ricambiato, che era solo invidia quella degli altri, che mai e poi mai tu avresti potuto tradirmi in un modo tanto becero e bieco.
Se fossi scappato pure tu con una francese o un’inglese o una tedesca o qualche amica della tua vecchia fiamma spagnola,  lo avrei superato. Tanto…chi ti vedeva più?
Invece, tu ti sei comportato come il peggiore degli uomini. Quello capace di tradire la sua donna con la sua migliore amica. Solo che tu hai fatto persino peggio, perché hai tradito la tua donna con la sua peggiore nemica. E questo è imperdonabile. 
Perciò, vattene pure a Torino, Gonzalo. Vattene a Torino e vattene a fanculo! 
A me passerà. Arriverà qualcun altro, più giovane, più bello e più forte di te. E non proverò nessun rimpianto, vedendoti indossare quel pigiama a righe. 
Perché, alla fine, vuoi sapere la verità? Nonostante ti adorassi, non sei mai stato tu il mio preferito.

 Quale maglietta vuoi? Quella di Higuain?
– No. Credimi, a Higuain voglio un bene dell’anima. Ma Higuain è un centravanti. Oggi ti ama, domani ti schifa. Dammi quella di Hamsik. Il capitano è sempre il capitano.

 
 
 

***l'ultima_scatola***

Post n°530 pubblicato il 22 Luglio 2016 da fragolozza
 

Rimane una sola scatola,  che ho appositamente lasciato aperta. Il resto è già stato caricato sul furgone. Ho detto ai ragazzi della ditta di traslochi che li raggiungerò in cinque minuti. Gli ultimi cinque minuti in questa casa. 

L'avevo trovata grazie alla dritta di un amico, otto anni fa, subito dopo la separazione da mia moglie. Una casa luminosa, accogliente, con una buona vista e un discreto giardino. Ideale per trascorrervi il fine settimana con i miei figli ed il restante tempo in solitudine, a rimettere insieme i cocci di una vita che improvvisamente era andata in pezzi. 

Non me la sono cavata male, dopo tutto. 

Ma, adesso che mi appresto ad un nuovo inizio, mi è difficile guardarmi intorno senza provare una profondissima malinconia.

Non mancano ormai molte cose. Alla fine, resta in gran parte paccottiglia di cui potrei fare a meno, ma che, per educazione, porto via con me. La bottiglia di Martini, che ho lasciato sulla mensola del camino, mi consiglia di buttare giù un ultimo goccio. Resisto e la cedo a chi vorrà servirsene o buttarla via.

È notevole e imbarazzante la quantità di oggetti che non ricordavo o non sapevo di avere, nascosti sul fondo dei cassetti, negli angoli infrattati di mobili, le cui ante ho aperto a mala pena due volte. Alcune continueranno a stare con me, altre giacciono sul fondo del bidone all'angolo di strada.

Le pareti ormai nude si preparano a registrare nuovi sussurri, a spiare l'amore, le liti, i discorsi e i silenzi di chi verrà dopo di me; qualcuno che, come me, tra queste mura si ritroverà e si sentirà perso; qualcuno che coltivi sogni, ma non abbia la pietà di far morire le speranze; qualcuno che, non importa quanto è spietato e triste il finale, perché sarà sempre pronto, ogni volta, a ricominciare; qualcuno, le cui impronte, gradualmente, si sostituiranno alle mie e a quelle delle persone che, insieme a me, sono passate di qua. 

Pochi amici, molte donne e, tra le tante, lei.

Sorrido mentre stringo tra le mani questo babydoll, traccia concreta del suo passaggio, dimenticata, forse volutamente, perché un giorno, scavando sul fondo di un armadio, il mio cuore potesse perdere un battito a ricordarsi del suo odore. Le ombre disegnano forme di labbra e baci, il cui segreto, queste pareti conserveranno in eterno. Chissà che tra tanta polvere, incastrato tra due listelli di parquet, non sia rimasto un suo capello.

E mi chiedo, mentre tra i sorrisi soffoco una lacrima, quanto del nostro amore rimarrà per sempre qui, come un'eco silenziosa che risuoni lungo il corridoio, dalla cucina alla camera da letto, sotto la doccia e poi, indietro, sul divano, ad assolare la noia della tv lasciata accesa, del soffritto che rischia di attaccare, dei passeri che cantano al mattino presto.

Continuo a sorridere, soffoco altre due lacrime e le inviò un messaggio. Ti voglio bene, babe. Te ne vorrò sempre.

Mi risponde dopo pochissimo. 

Ecco, adesso posso chiudere l'ultima scatola, chiudere la porta e andare.

 
 
 

***sampietrini***

Post n°529 pubblicato il 14 Luglio 2016 da fragolozza
 

Il clangore metallico del palo colpito dal sampietrino interrompe i miei pensieri distratti, riportandomi alla realtà del posto in cui vivo. E non mi riferisco specificamente al Brasile, in merito al quale i luoghi comuni si sprecano, nel bene e nel male. 

Samba, tanga, cocco, Copacabana, lambada, churrasco, saudade, pobreza, favelas, meninos de rua. 

Un omicidio ogni sei minuti.

Uno stupro ogni 11 minuti.

All'inizio facevo più attenzione. Del resto, durante una delle mie prime uscite in solitaria nel centro di Belo Horizonte, mi ero trovata nel bel mezzo di una protesta ed ero morta di paura. Lanci di bottiglie, sassi, polizia a cavallo, pistole e colpi sparati e tirati alla cieca. Me la cavai rifugiandomi in un negozio, prima che venissero tirate giù le serrande. Una mezz'ora trascorsa in ostaggio dei balordi che, da fuori, battevano sul metallo e provavano ad entrare. Poi tutto era finito, passato, come nulla fosse mai successo. 

- Tutto questo è normale? - avevo chiesto impaurita.

- Sì, - mi aveva risposto una delle commesse- da queste parti è assolutamente normale.

Ma fortunatamente non era poi così normale, perché, dopo quell'episodio, non mi era più capitato nulla di così spaventoso o pericoloso. La pericolosità, in fondo, è una caratteristica universale. Non riguarda solo le metropoli, tantomeno solo quelle brasiliane. Di balordi se ne incontrano in ogni dove. Persino nei più piccoli e tranquilli villaggi di campagna (che personalmente temo più delle grandi città, per un retaggio da fanatica dei film horror, che, fateci caso, sono quasi sempre ambientati nei boschetti o in mezzo al nulla). 

Insomma, non mi sono mai lasciata condizionare dalle statistiche, né dai luoghi comuni relativi alla violenza delle città brasiliane. Il peggio può capitare in ogni momento e in ogni dove. 

È per questo che, ieri, come tutti gli altri giorni, camminavo tranquilla e distratta. 

È luglio ed è inverno, ma sembra primavera. Il caldo tiepido del sole, sparato forte addosso, disegna il contorno di questa città il cui orizzonte è bello già nel nome. La fioritura degli ypes solletica l'aria di colore. I marciapiedi sono pieni di petali rosa. È uno spettacolo meraviglioso. 

La salita di rua Aleixo è così impervia da lasciarmi senza respiro e quando raggiungo la cima, all'altezza del semaforo per attraversare rua da Bahia, mi ci vogliono sempre un paio di minuti per riprendermi dalla sopraggiunta insufficienza polmonare.

Ed è stato proprio in quel punto che l'ho visto. La scarsa ossigenazione mentale, inizialmente, ha fatto sì che scambiassi i suoi lanci per un nuovo tipo di sport metropolitano, qualcosa come "tiro al cartello", "pallina avvelenata", "palla a vuoto". Ma non erano palline.

E, quando ho sentito la botta sul palo centrato in pieno ed ho poi constatato che, poco distante dai miei piedi, giaceva un sampietrino enorme, ho percepito la reale portata della follia che mi stava capitando. E che le urla, quelle che credevo fossero un normale sottofondo al traffico, erano l'appello di una donna, nascosta dietro un'auto, che disperatamente mi gridava: "Moça, saia daí!" (Ragazza, allontanati da lì).

Solo in quel momento, quando ho cominciato ad avere una paura fottuta che, al prossimo lancio,  quel pazzo, piantato al centro delle strisce pedonali, mi sfracassasse il cranio con un pezzo di marciapiedi volante, sono tornata nella realtà del posto in cui vivo. E non faccio riferimento al Brasile. Bensì ad un mondo, completamente e inguaribilmente, folle.

 
 
 

***emoticon***

Post n°528 pubblicato il 04 Luglio 2016 da fragolozza
 

Mi piacciono gli emoticon e me ne avvalgo spesso, soprattutto quando l'uso delle parole non è sufficiente ad esprimere appieno il sentimento sottinteso al messaggio inviato. Gli emoticon rendono la sensazione, l'emozione, l'intenzione, insomma quel metalinguaggio che in una conversazione vis-à-vis è dato dai gesti delle mani, dalle espressioni del viso, dal tono di voce e che, attraverso l'uso del solo alfabeto, sarebbe difficile rendere.
Per esempio, mandare a fanculo per iscritto qualcuno, è molto più facile da quando esiste la possibilità di inserire nel messaggio le faccine. Grazie al tipo di faccina inserita, il destinatario può infatti capire immediatamente se lo state mandando a fanculo sul serio o per scherzo. 
Il problema nasce quando per scelta, per pigrizia e, a mio avviso, pure un po' per deficienza, si comincia a comunicare solo tramite emoticon.
A questo proposito, ieri ho ricevuto un messaggio in cui sono presenti: una faccina assonnata, uno spicchio di luna, una palma e una faccina a culo di gallina (che, a seconda delle interpretazioni, potrebbe però anche essere una faccina che manda un bacio senza cuore). 
Che cacchio significa? Mentre dormivo, al chiaro di luna, sotto una palma, mi è venuta una paralisi alla bocca? Sto dormendo sotto la luna ma sogno di farmi un selfie sotto un albero di cocco? È notte, ho sonno, ma ti bacerei senza cuore sotto una palma?
E boh...
Sta di fatto che, tutte le volte che ricevo un messaggio di questo tipo, entro seriamente in crisi e mi è difficile non pensare alle pitture rupestri, alla stele di Rosetta, all'isola di Pasqua e agli uomini della pietra. Migliaia di anni di storia ed evoluzione del linguaggio buttati al vento.

 
 
 

***l'ultimo_pezzetto***

Post n°527 pubblicato il 23 Giugno 2016 da fragolozza
 

Realizzi un ulteriore motivo perché ti facciano santa quando, alle quattro di pomeriggio, completamente digiuna e, di conseguenza, morta di fame, hai solo cinque minuti di tempo per recarti da un posto all'altro. Lungo il tragitto, ti mangeresti gli alberi, i marciapiedi e tutti gli specchietti delle auto parcheggiate. Anche il braccio di qualche passante, ovviamente, ma forse ce l'hai scritto in faccia e tutti ti si tengono a distanza di sicurezza. Poi finalmente arriva la visione, un chiosco di dolcetti, e tra i tanti anche quelli alle arachidi che ti piacciono tanto. Ne acquisti due al volo e, al volo, uno lo scarti e l'altro lo infili in borsa. E così, mentre continui a correre per non arrivare in ritardo, ti sollazzi distribuendo morsi a casaccio alla massa ben burrosa del tuo dolcetto. E ti pregusti il finale, che, come in molti casi, è il momento migliore, quando dal nulla percepisci la sua voce. 

- Me ne dai un pezzo?

La tua parte irrazionale ti consiglia di non voltarti, di continuare a correre o di infilarti l'ultimo pezzo in bocca, pure a rischio di strozzarti, dato che ancora non hai mandato giù il morso precedente. Ma c'è un'altra parte di te, quella per cui un giorno potrebbero farti santa, che non resiste alla tentazione o alla curiosità e si volta. E no, non è un mendicante, un bambino, un morador de rua. È un normalissimo ragazzo, ben vestito, in forma e visibilmente meno affamato di te. Ma ormai lo hai fatto, ti sei fermata e hai pure perso un casino di tempo a squadrarlo. Lui punta gli occhi dritti su quell'ultimo pezzo di dolcetto che gelosamente stringi. Tu sai che lo meriti più di lui, ma sullo sfondo intercetti un campanile e ti sorge il dubbio che questa davvero potrebbe essere una prova per mettere a dura prova la tua santità. Perciò glielo cedi. Allunghi la mano e, mentre il suo artiglio rapace ti strappa via l'amato dolcetto, anche se non piangi perché non hai tempo e già sei in ritardo, in fondo in fondo, ad essere precisi dalle parti dello stomaco ancora vuoto, sei commossa eccome. 

Certo, potresti rifarti con l'altro dolcetto, ma ormai hai così tanta paura che ti sottraggano anche quello, che fingi di dimenticarti di quanto hai fame.

Perciò riaccelleri il passo e ingoi saliva a più non posso, nella speranza di debellare dal palato e dai denti ogni briciola o granello di zucchero che, rimestandosi, ti restituirebbe l'amato e perduto sapore. 

E non ti è di nessun conforto il pensiero che, a finale, hai fatto una buona azione. 

Privandoti di quell'ultimo pezzo di dolce, non hai mica risolto il problema della fame nel mondo? E di certo nemmeno il problema della fame che hai tu. 

 

 
 
 

***lunga_durata***

Post n°526 pubblicato il 22 Giugno 2016 da fragolozza
 

Dopo il caffè, mi chiede se mi va di continuare a passeggiare. Accetto volentieri. 

Mi piace la sensazione di scoperta e sollievo che si accompagna ad un'amicizia appena nata, il senso di totale benessere nel riconoscere nell'altro la possibilità di condividere una parte di sé, quell'entusiasmo che ha molto in comune con l'amore appena sbocciato, ma senza paranoie e senza paure. 

È sabato pomeriggio e il centro commerciale è affollato e vivace di luci e persone.

Di fronte ad un negozio di cosmetici, si ferma.

- Ti spiace se diamo un'occhiata?  Vorrei comprare un nuovo rossetto. 

- Figurati.- e la seguo trotterellando all'interno.

Il prodotto che cerca l'attende, scintillante in una variante infinita di nuance, su un banco alla nostra destra. Una commessa si avvicina per aiutarla nella scelta.

- Mi hanno detto che è appena stato lanciato un nuovo rossetto a lunga durata.

- Prova questo!- le dice la commessa, porgendole uno stick di un colore che, già a vedersi, si intuisce che le starà perfettamente- Dura tantissimo. Puoi mangiare, bere e persino dormire con la sicurezza che, al risveglio, starà ancora bello appiccicato alle tue labbra.

- Anche baciare?

- Dipende dai baci- risponde la commessa, sorridendo.

Si dirige alla cassa, paga e infila il rossetto in borsa.

- Che dici, lo metto la prossima volta che esco con João? 

- Claro che sì! - le rispondo.  - Ma ad una condizione. Se esci con João e, al rientro a casa, hai ancora il rossetto, non ti accompagno più a cercare un nuovo rossetto. Ti accompagno a cercare un nuovo João! 

Scoppia a ridere ed io con lei. 

- Sei proprio un'ottima amica, lo sai?

In verità, no, non lo so, ma è bello sentirselo dire.

Smettiamo di ridere, ci guardiamo e quasi all'unisono - Ci prendiamo un altro caffè? 

 
 
 

***come_va?***

Post n°525 pubblicato il 06 Giugno 2016 da fragolozza
 

Va o almeno sembra che vada bene, poi però ti chiedono “come va?” e ti ricordi di tutte le cose che non vanno, di quelle che vanno male e pure di quelle che, fino a cinque minuti prima che te lo chiedessero, andavano bene.

Va o almeno sembra che vada, anche se ancora non hai capito che cos'è che esattamente dovrebbe andare, perché quando te lo chiedono mica specificano il soggetto? Sei tu che devi armarti di santa pazienza e tentare di indovinare l'elemento sottinteso e, di conseguenza, la risposta adatta. Come va cosa? La vita? Sto viva, quindi in teoria va bene. La situazione? Sì, ma quale? La maglietta nuova? Chissà, forse  fanno riferimento proprio a questo e fai bene a rispondere “bene”, anche se ti sei ingrassata e le cuciture ti segnano i fianchi. O, magari, sai perfettamente a cosa fanno riferimento e a te non va di parlarne, perché, guarda caso, eri appena riuscita a dimenticartene e, invece no, ti tocca ripensarci perché loro vogliono sapere come va.

Il punto è che, di qualunque cosa si tratti, per sua natura è destinata ad andare, a muoversi, ad evolversi, prima o poi a cambiare. Perciò va così, semplicemente va. E non senti il bisogno di aggiungere una connotazione di modo al moto. Per il momento continua ad andare ed tu continui a lasciare che vada. Il come saranno pure fatti tuoi.

 
 
 

***se_la_vita_ti_affanna***

Post n°524 pubblicato il 26 Maggio 2016 da fragolozza
 

Una delle frasi che non mancavo mai di trascrivere, ogni anno, dalle medie alla maturità, nel mio diario scolastico era "se la vita ti affanna, fatti una canna". Non mi facevo di canne (ne ho provata una, a ventidue anni, dopo aver visto L'erba di Grace, perché speravo di uscirne felice come la protagonista, ma il massimo che mi capitò fu di gettarmi dall'auto del mio ragazzo coi palmi a terra e di farmi tutte le scale di case nello stesso medesimo stile da uomo ragno; e un'altra la sera prima di un concerto dei Placebo, in un club di Roma, di cui ho ancora bene impresse in mente- e forse pure in fronte- le piastrelle e la tazza del bagno per quanto vomitai; peraltro il giorno dopo il concerto venne pure annullato...machevvelodicoaffare), ma trovavo fosse di notevole effetto, soprattutto se preceduta dalla sua variante pornografica "se la vita ti frega, fatti una sega".

 

Oggi ho trascorso una mattinata molto piacevole.  All'Academia Mineira das Letras era ospite Enzo Moscato per una conferenza sul teatro napoletano. Che bello sentir parlare la mia lingua, il mio dialetto! 

Sono rientrata a casa tutta felice e mi preparavo all'impegno successivo, non altrettanto piacevole, quando ho ricevuto un messaggio da una persona che semplicemente mi scriveva - Maria Piaaaaa

L'ho interpretato come un grido ed ho risposto - Ciao. Che succede?

In tutta risposta, mi è arrivato un - Dimmi gioia.

Il fatto è che io non avevo un bel cavolo da dire a quella persona, ma per educazione le ho inviato un messaggio dicendole - Oggi è un giorno molto pieno. A te come va?

Risposta - Non lo so, ma mi sento triste.

Ed è a questo punto che mi è partita la riflessione sul "se la vita ti affanna, fatti una canna" con un mavafancúl allegato, pronunciato con la cadenza di Enzo Moscato. Dico sul serio. 

Perché se vi sentite annoiati, frustrati, tristi, ci sono tante alternative. Compratevi e leggetevi un libro; uscite per strada e limonate con la prima persona che vi piace e ci sta; ascoltatevi un pezzo di funky brasiliano e ballate come delle scimmie; e se proprio non volete fare nulla di questo, ubriacatevi, drogatevi! Ma, per favore, non mandate messaggi a cacchio alla prima persona che vi viene in mente raccontandole della vostra tristezza. Perché non avete idea di cosa quella persona stia vivendo e di quanta fatica faccia a reggerlo. Perché quella persona potrebbe essere molto più triste di voi nonostante vi dica sempre che va tutto bene. Perché a quella persona potrebbe non interessare un emerito cacchio di quanto siate infelici. Ma soprattutto perché forse quella persona darebbe letteralmente un occhio della testa per barattare la sua tristezza con la vostra.

 
 
 

***casa_è_piena_di_ombre***

Post n°523 pubblicato il 24 Maggio 2016 da fragolozza
 

Il bimbo dell'appartamento adiacente non piange. Ulula. E lo so che lavoro troppo di fantasia, ma metti che stavolta sia diverso. Del resto, sono certa che, dopo aver tagliato quelle ultime due fette di salame, il tagliere era rimasto lì, sul tavolo. Potrei averlo poi lavato, ma non ricordo. Supponendo però che lo abbia fatto, dove l'ho posato? La cucina è piccola, pochi mobili ma pieni di cose. E, in mezzo a quelle cose, il tagliere non c'è. Ho controllato persino nel forno, nel frigo, pure nel congelatore. Mi manca di cambiare stanza e cominciare a guardare negli armadi, ma se veramente lo trovassi sepolto tra le magliette o, peggio, adagiato sulla tavoletta del water, il tagliere tornerebbe a posto, ma io no. Casa è piena di ombre, il tagliere potrebbe essere ovunque. Forse qualcuno si è infiltrato di soppiatto in casa, lo ha preso e ci si è chiuso nell'armadio pronto ad aggredirmi appena lo apro. Ma io non sono mica così scema? Non ci guardo nell'armadio, anzi proprio non vado in camera. Passo la notte qui, nella cucina. Casa è piena di ombre e il lupo mannaro continua a ululare.

 
 
 

***tu_vivi***

Post n°522 pubblicato il 19 Maggio 2016 da fragolozza
 

Le sedie e le riviste della sala d'attesa sono le stesse di un negozio di parrucchieri, solo che qui la maggior parte delle persone non ha i capelli. Si porta le mani alla testa per controllare che i suoi ci siano ancora.

C'è qualcosa di profondamente sbagliato nei fatti e pure nelle parole. Perché le parole mica sono tutte buone? Eppure basterebbe poco, perché sono i nomi che fanno le cose e se i tumori si chiamassero tuvivi forse farebbero meno paura. 

Dietro la porta c'è un camice bianco e il sorriso le si blocca nella smorfia dell'ultimo tiro e la cenere persa per strada. 

Le mappe di Google segnavano quindici minuti a piedi che in realtà sembravano quindici kilometri per cinquantacinque minuti a piedi, scanditi dai tac della busta, in cui ha infilato le due ultime tac e la risonanza, contro la coscia. 

È una zona un po' brutta, una zona di quelle che fanno paura a passarci da sola. Ma tanto oramai la paura è qualcosa che associa a quel tempo in cui ancora ignorava di essere vile e mortale. 

Ora il camice bianco le stringe le mani ed appare commosso; lei si ingelosisce per quel dispiacere che proprio non riesce a provare.

 
 
 

***nuotare***

Post n°521 pubblicato il 18 Maggio 2016 da fragolozza
 

Non sa nuotare, ma non è certo questo a fermarla. 
Pochi minuti prima ha litigato con tutti. 
Pensa che i genitori vogliano più bene a sua sorella che a lei e, per la frustrazione, la picchierebbe con palette e secchielli. 
Provano a convincerla che non è vero, che danno più attenzioni alla piccola, proprio perché è piccola, mentre lei è già grande. 
Ma ha sette anni e ricorda bene che, anche quando ne aveva cinque, come sua sorella adesso, già la consideravano grande. Quindi la spiegazione non torna, perché, in teoria, se a cinque anni lei era grande, anche sua sorella potrebbe esserlo.
Essere piccoli è un diritto che i primogeniti perdono nel momento in cui arriva l'altro o, in altre parole, essere grandi è una responsabilità che i primogeniti sono costretti ad assumersi non appena arriva un altro.
Di fronte ha il mare, gigante, azzurro. E l'azzurro è il colore che preferisce, molto più che il rosa.
Dentro quell'azzurro, dove si riflettono nuvole gommose, replicando un cielo molto più a portata di mano, nessuno può farla arrabbiare. Dentro quell'azzurro immenso, lei che non è grande affatto, torna a sentirsi un puntino. Perciò bagna un piede, poi l'altro. Il salvagente è una ciambella di plastica e aria aggrappata a ai suoi fianchi. 
Si volta a guardare a riva, ma non arriva risposta. Muove altri due passi.
L'acqua è tanto fredda, ma almeno la abbraccia.

 
 
 

***sorride***

Post n°520 pubblicato il 11 Maggio 2016 da fragolozza
 

Sorride. Lo fa per gli altri, mica per se stessa? Se vedono che riesce a sorridere, pensano che stia bene e, in fondo, non è così distante dalla realtà. 

Per la logica degli opposti, il fatto che non stia male vale come garanzia di benessere, di cui però coglie meno l'aspetto del bene e più quello dell'essere, inteso come stare, esistere e, quindi, vivere. 

Sopravvivere. 

L'ultima volta, al risveglio, aveva gli occhi rigati di lacrime.

- Non piangere.

Ma non riusciva a smettere.

- Perché piangi?

Non sapeva dirlo e non riusciva a smettere.

Mica voleva piangere? Era un riflesso condizionato dalle sue condizioni, pur tuttavia incondizionato dalla sua volontà. Si sforzava di rassicurarli, di raccontare loro che era un atto spontaneo e incontrollabile, come il tremore quando si ha freddo, il brontolio dello stomaco quando si ha fame.

Temeva avrebbe pianto di nuovo. Temeva che anche stavolta, al risveglio, l'effetto dell'anestetico avrebbe tramortito il suo autocontrollo, scatenandole, in singhiozzi, tutto il pianto ingoiato e taciuto nei giorni precedenti.

Eppure stavolta non piange. Stavolta riesce a controllarsi. Stavolta sorride. Ma lo fa per gli altri, mica per se stessa? Se vedono che riesce a sorridere, pensano che tutto vada bene e, in fondo, non importa se è tanto distante dalla realtà. 

 
 
 

***cuore_alle_ortiche***

Post n°519 pubblicato il 10 Maggio 2016 da fragolozza
 

I brasiliani ti chiedono "Todo bem?" e devi rispondere di sì, altrimenti, se dici no, vogliono sapere perché e magari piangono con te. I brasiliani ti vogliono bene a prescindere, senza riserve, senza diffidenze, e non importa se non conoscono il tuo nome, perché basta loro un attimo per chiamarti amica, sorella, figlia. I brasiliani hanno un sorriso aperto, autentico e sincero, e, quando ti abbracciano, lo fanno forte, come se volessero lasciarti addosso un pezzo di sé, quel pezzo che a te manca, quel pezzo che ti fa male. 

 

Un paio di giorni fa, in preda ad una desolazione senza troppi precedenti, contrariando la mia tipica reazione di fuga dal mondo e da me stessa, consistente nel rintanarmi in una stanza possibilmente buia, sono uscita di casa. Non avevo molta voglia di vedere gente, tantomeno di parlare, avevo solo bisogno di non pensare. 

L'atelier era aperto al pubblico, a chiunque avesse voglia di trascorrere qualche ora disegnando e cimentandosi con gli acquerelli. È stato lì che ho conosciuto P. 

Dopo avermi dato un paio di dritte su come usare i colori, ha cominciato a parlarmi di sé, della sua vita, dei suoi sogni. All'inizio non lo ascoltavo, impegnata a seguire le linee distorte che io stessa tracciavo, con la mano sul foglio e con la mente nei pensieri. Finché alcune delle cose che ha detto hanno attirato la mia attenzione. 

- Sai, io non sono uno che soffre troppo. Una volta, la persona che amavo mi ha tradito. Certo, mi ha fatto male, ma, il giorno dopo averla lasciata, l'avevo già dimenticata. Credo dipenda dal mio essere estremamente razionale. Non lascio mai che le emozioni prendano il sopravvento. Per me tutto ha una logica, soprattutto il peggio. 

Ho alzato gli occhi dal foglio e l'ho fissato. Al contrario di quanto il suo discorso raccontava, non dava affatto l'idea di un individuo superficiale o distante o incapace di emozionarsi. 

- Non hai paura che questa forma di eccessivo controllo sulle tue emozioni, alla fine ti impedisca del tutto di provarne?- gli ho chiesto. 

- Assolutamente no. 

- Io, invece, sì. Perché, vedi, sto passando attraverso qualcosa di orribile e l'aspetto peggiore è che non riesco a provare nulla. So che, al mio posto, un'altra persona sarebbe disperata, spaventata, mentre io, a parte qualche raro momento di rabbia, sono completamente indifferente, come se non mi riguardasse. 

- E dov'è scritto che tu debba per forza provare qualcosa?

- Da nessuna parte, ma comunque mi sento vuota e non voglio che, da una semplice sensazione, questa diventi davvero la mia natura.

- Impedirti di provare emozioni negative non ti renderà mai vuota, anzi, ti permetterà di apprezzare di più le emozioni positive. Tu hai bisogno di difenderti e l'indifferenza, in questo momento è la tua difesa. Perciò non lamentartene, ma, se ti permette di stare bene, vivitela, coltivatela. A proposito, che titolo vuoi dare al tuo disegno?

- Cuore alle ortiche.

 
 
 

***artefice***

Post n°518 pubblicato il 05 Maggio 2016 da fragolozza
 

È frequente scrivere di ciò che si è vissuto, ma vi è mai capitato di vivere qualcosa che avevate scritto? 

Anni fa, parecchi anni fa, cominciai a scrivere una storia. Nulla di importante, niente di preciso, solo una serie di situazioni immaginate, con una protagonista che un po' ero io, un po' non ero affatto io. Ogni capitolo era un racconto a se stante, ma ben armonizzato con gli altri. La disposizione all'interno della storia non era fissa. Avevo deciso solo quale sarebbe stato il racconto iniziale e quale quello finale. 

Poi mi capitò di vivere una circostanza quasi identica ad una di quelle descritte in un racconto. Col senno di poi, potrei pensare di aver forzato un po' la mano affinché i dialoghi, i gesti, fossero uguali a come precedentemente li avevo immaginati, descritti e scritti. Chissà... Sta di fatto che uno di quei racconti prese vita.

La settimana scorsa è successo di nuovo. Solo che stavolta so per certo di non aver fatto nulla affinché le circostanze fossero simili al mio racconto, peraltro al racconto finale, peraltro un finale di merda.

E poiché una parte di me è tanto sognatrice da credere davvero di essere artefice del proprio destino, ho deciso che scriverò un nuovo finale e farò il possibile affinché diventi reale. 

 
 
 

***prezzo_pieno***

Post n°517 pubblicato il 30 Aprile 2016 da fragolozza
 

Che la ragazza non sia particolarmente sveglia, lo capisco in fretta, poiché, dopo avermi chiesto di cosa ho bisogno, prima mi guarda come se le avessi nominato la polvere di fata, poi sparisce tra gli scaffali per dieci minuti. 

Premetto che vado spesso in quella farmacia ed il prodotto di cui ho bisogno, nelle ultime settimane, l'ho acquistato già tre volte, quindi non sono io quella che le ha fatto una richiesta strana, ma è lei quella a cui ancora non è scattata la sveglia.

Torna, passa la scatolina sul display e mi comunica il prezzo. Poi mi pone la domanda fatidica.

- Lei è già cadastrata nel nostro sistema?

- Ecchenesò...boh...ma penso di sì, perché, tutte le volte che vengo a comprare qualcosa, mi chiedete i documenti.

- Mi dia il suo CPF.

Apro il portafogli e le allungò la tessera. 

Fa un veloce controllo e con tono quasi trionfante, esclama - E no! Lei non è cadastrata. 

A quel punto, parte il terzo grado. 

Nome, cognome, data di nascita, indirizzo, casa o appartamento?, numero di appartamento, stato civile, numero di telefono, indirizzo email.

- Qual è il CEP?

- Che cos'è il CEP?

- Il numero della strada in cui vive.

- Ah, ho capito, tipo il CAP. No, non lo so, ma abito a cinquanta metri e suppongo sia lo stesso che vale per la farmacia.

Purtroppo, la ragazza sonnolenta non conosce il CEP della strada in cui ci troviamo. Prima chiede ad un paio di clienti che non ne hanno minimamente idea, poi si ricorda che sta usando un computer e cerca in internet. Poi il computer le si impalla, poi riparte, poi ricerca, poi non trova e nel frattempo pure la pagina in cui aveva inserito tutti i miei dati è scomparsa.

Ed è già passata mezz'ora. 

- Scusi, ma è proprio necessario cadastrarmi? Di solito, vengo, prendo, pago e me ne vado.

- Ma se si cadastra ha diritto allo sconto. 

- Ah beh... Allora riprendiamo.

Riparte la serie di domande. Ridò le stesse risposte.

- Qual è il CRM del medico che le ha prescritto il farmaco?

- Ecchenesò... Potrei buttarmi a indovinare sul numero di scarpe, ma il CRM... Che domanda è? 

Si ricorda di nuovo di stare usando un computer, ma di nuovo le si impalla tutto.

Solitamente, sono molto paziente, ma perdere un'ora della mia vita per portare a casa dieci grammi di gel oftalmico mi sembra troppo. Muovendomi, sbatto il ginocchio contro qualcosa di duro. Abbasso lo sguardo e realizzo che nei pressi del banco ci sono tre sgabellini.

- Guardi, ci vuole ancora un po', perché non si accomoda?

- No, aspetti, volevo chiederle... Ma di quanto è questo sconto? Perché posso anche pagare il prezzo pieno, basta che me ne vado.

- Intorno al cinque per cento. Ma ormai è quasi fatta, stia tranquilla.

- Così poco???

Ma mi rendo conto che è  una battaglia persa, per cui mi rassegno e decido di sedermi.

I tentativi di cadastro a vuoto si sprecano per un'altra mezz'ora, finché un'altra commessa mossa a pietà dagli abbiocchi della collega assonnata, nonché dal sonno che altrettanto sta colpendo la sottoscritta, interviene e, in due minuti due, sembra aver risolto tutto.

Mi viene porta finalmente la scatolina e mi avvio alla cassa.

La cassiera dev'essere parente della ragazza assonnata perché, per prima cosa, mi chiede - Lei è cadastrata nel nostro sistema?

- Certo che sì! Ho appena impiegato un'ora per poterlo essere!

- Mi dia il suo CPF.

Riprendo la tessera e gliela porgo.

- No, guardi. Lei non è cadastrata, ma se vuole lo sconto, può tornare al banco e in pochi minuti la inseriscono nel sistema.

- Ma vafancul!

(Alla fine il gel l'ho comprato a prezzo pieno)

 
 
 

***cattive_notizie***

Post n°516 pubblicato il 29 Aprile 2016 da fragolozza
 

Nutrivo il sospetto di non esserle molto simpatica.  Non che si fosse mai comportata male con me. Era una semplice intuizione, corroborata dal modo in cui mi guardava, dal sorriso sempre un po' forzato, dalla formalità dei gesti.

Ricordo che, una volta, mi era ripetutamente passata accanto senza salutarmi, senza neppure guardarmi.

Perciò, quando vedendomi, mi è venuta subito incontro e mi ha abbracciata forte e mi ha chiamata tesoro, ho avuto matematicamente la certezza che di lì a poco avrei ricevuto una cattiva notizia, di cui lei era già al corrente. 

Perché, per valutare la reale gravità della tua situazione, devi basarti non tanto  sul modo in cui affetta chi ti vuol bene, il cui dispiacere è ovvio e scontato, quanto sul modo in cui riesce a smuovere manifestazioni di affetto persino in chi, in altre circostanze, ti avrebbe serenamente ignorata. Come accade a quei cantanti che nessuno si fila di pezza, ma quando muoiono finiscono subito in hitparade. 

 
 
 

***capelli_corti***

Post n°515 pubblicato il 26 Aprile 2016 da fragolozza
 

Nell’estate del 1985, mia madre mi impose un taglio di capelli cortissimo. Avevo quattro anni e, come bambina, non mi contraddistinguevo certo per la verve modaiola di Suri Cruise, pertanto, a meno che non indossassi un vestitino o una gonnellina, tutti indistintamente mi scambiavano per un maschio.
Era frustrante, soprattutto al mare. 
– Tu non puoi giocare perché sei un maschio. 
E non importava quanto piangessi per farmi accettare, perché per quel gruppo di bambine boccolose, con i bikini o il costumino intero, io, con i miei capelli a spuntoni e le mie scarne mutandine rosse, ero e rimanevo un maschio. Peraltro, non ero neanche così smaliziata da intuire che mi sarebbe bastato abbassarmi il costume per convincerle che invece ero femmina.

Sarà per nemesi, sarà per malsuperato trauma, ma provo una sana e profonda diffidenza nei confronti delle donne che scelgono tagli di capelli maschili, tanto più se al taglio di capelli associano i peggiori atteggiamenti maschili. Anzi, in questo secondo caso, le proprio detesto. Tipo mia cognata F, che veste come un maschio, parla come un maschio, pensa come un maschio e fa tutto come un maschio.
Il dubbio che sia femmina mi sorge spesso, ma non gliel’ho mai detto. 
Ho troppa paura che si cali i pantaloni per dimostrarmi il contrario.

 
 
 

***verde***

Post n°514 pubblicato il 25 Aprile 2016 da fragolozza
 
Tag: Roma, Verde

- Scegli un colore.
- Verde. Perché? 
- Perché così, ogni volta che noterò un dettaglio verde in mezzo a tutto il resto, sarà come se tu fossi con me e mi stringi le mani.
Poi lo abbracciò un'ultima volta, con una stretta che sapeva di addio, sotto il sole abbacinante e a picco di piazzale dei Cinquecento, nei pressi di un'aiuola di rose rosse, ma con tante foglie verdi, che da lì a qualche tempo sarebbero state strappate via per far posto ad una delle statue più brutte della storia. 
Lo guardò allontanarsi in direzione di via Po, scalciando sassolini invisibili con i suoi stivali antipioggia che data la temperatura si erano rivelati assolutamente fuori luogo. Immaginò che si sarebbe voltato a guardarla e, prima che lo facesse, per non dover resistere all'impulso di correre ad abbracciarlo ancora, scelse a caso una direzione opposta e si incamminò veloce. 
Attraversò piazza della Repubblica e camminando, camminando tanto, arrivò a piedi fino a piazza Mancini, mandando a memoria, nel tragitto, tutte le canzoni di un album che era riuscita a scaricarsi con due mesi di anticipo rispetto all'uscita ufficiale ed il cui ascolto, abusivo e temporaneamente molto esclusivo, le garantiva un'illusione di dediche e citazioni dei suoi giorni.
Sul 220, non trovò posto a sedere e, quando l'autista partì sgommando, si aggrappò ad un sostegno chiendosi quante impronte estranee il suo palmo stesse raccogliendo. Poi, con una capacità di equilibrio tipica di chi passa troppo tempo in autobus, tirò fuori l'agenda dalla borsa ed abbozzò un pensiero sulla solitudine. 
Dalle parti di ponte Milvio, riuscì a sedersi e si adagiò  stanca contro lo schienale. Fuori scorreva il fiume e tutta quell'acqua le solleticò gli occhi di pianto. Provò a pensare a qualcosa che la facesse sorridere, una battuta stupida, un'immagine buffa. E lo avrebbe chiamato perché la sua voce la faceva star meglio, ma non aveva il suo numero. 
In fondo, cosa sapeva di lui? Il nome, l'età, che baciava bene?
Strizzò gli occhi, respirò forte ed ingoiò la tristezza. 
Di là del vetro, il paesaggio correva sfocato dai fumi del traffico. Case, lampioni, macchine e bidoni.
E alberi con le foglie verdi.
Si sforzò di immaginare, si sforzò di sentire, creando con la volontà un miraggio che la realtà non le avrebbe concesso, ma quando abbassò lo sguardo sulle proprie mani, vedendole così piccole e fredde, le strinse forte l'una all'altra, perché era l'unico modo che conosceva per sentirsi meno sola.

 

 
 
 
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Le cloache di notte somigliano
a fiumi nascosti.
Scommetti che a perdere il cuore
guadagni più spazio?
Sul banco dei pegni
ho impegnato
il mio ombretto di rosa.
Palpebre nude non chiudo
per cogliere il resto
di quello che resta
sul conto in sospeso
dei nostri sospesi.

Le formiche al tramonto ricordano
grani di pepe.
Sai contare al contrario, partendo
da cifre irrisorie?
Sotto l’arco
s’inarca in trionfo
la triade imperfetta.
Me stessa, quell’altra o la stessa
si chiudono a riccio.
Per capriccio
mi cavo d’impiccio.
Mi sento di troppo.

 

 

 

 
 

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