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*°*Run_Away*°*

Post n°350 pubblicato il 24 Gennaio 2010 da fragolozza

Da adesso in poi non devi usare i verbi di “pensiero”. Questi includono: pensare, sapere, capire, comprendere, credere, volere, ricordare, immaginare, desiderare e centinaia di altri che tu ami usare. La lista dovrebbe includere anche amare e odiare. (…)
Invece di un personaggio che vuole qualcosa, descrivi la cosa in modo che sia il lettore a volerla. (…)
E intanto che eviti i verbi di “pensiero”, sii molto cauto con l’uso dei verbi blandi “è” e “ha”. Prova invece a nascondere i dettagli su quel che un personaggio è o ha in gesti o azioni.
Mostrerai la tua storia anziché raccontarla.

Parola di Chuck.

Proviamo…

La pulsazione alla tempia sinistra aumenta ad ogni movimento dell’ombra che si rade sulla parete del bagno.
Tra la voglia di scappare e la possibilità di farlo davvero giace un paio di stivali acquistati per non molti euro. Vedendoli mia cugina aveva detto: “Che carini! Sai come sono comodi?”
E invece no, non lo sono affatto e nel mentre li infilo in tutta fretta, senza tirare giù la lampo a lato della caviglia, i piedi mi si incastrano e mi partono crampi tra le dita.
L’ombra sul muro si sposta, vede cosa sto facendo e mi domanda dove ho intenzione di andare. Non rispondo e continuo a infilare a forza i piedi, riuscendo finalmente nell’impresa.
Mi metto dritta e mi precipito verso il giubbotto poggiato sullo schienale di una sedia. L’accendino nella tasca pizzica il guanto che ho infilato senza badare a che andasse nel verso giusto.
“Dove vai?” e stavolta non è silenzio, non è un mormorio stentato il mio, ma è una voce più alta di parecchi decibel quella che lancia nell’aria della stanza uno stronzo! che spero vi aleggi per tutta la mia assenza.
Spalanco la porta e, fuori, lo schiaffo al viso del buio tramortisce parzialmente il mal di testa. Prima stringo i pugni, poi apro le mani. Le chiavi di casa cadono e le raccolgo in fretta, infilo nella toppa quella giusta, la faccio girare e… arrivederci...
Non è lunga la strada fino alla prima curva. Accelero il passo quando vedo che, in lontananza, una porzione di cielo è ancora rosa. Provo a raggiungerla, ma, per quanto io mi sforzi o mi affanni, tutte le volte che alzo la testa il cielo è più scuro, sempre più scuro, è quasi nero, perciò ripiego sul marciapiedi lo sguardo e l’asfalto cede il posto all’astinenza da catrame
Non ho le sigarette ed entro in un bar, dove una vetrina di zippo mi saluta scintillante. Una moneta mi sfugge dal palmo ed un estraneo mi aiuta a recuperarla sotto il banco dei dolciumi. Non lo ringrazio per quel suo modo di guardarmi che lascia in sospeso una frase tipo: Povera scema… Chissà che le succede.
Succede che compro due pacchetti di Benson, uno per tamponare, l’altro per medicare.
E me ne torno in strada con un abbozzo di sorriso, perché con quaranta sigarette in borsa non solo posso star via per sempre, ma posso anche decidere che ho la forza per rientrare.

Run away from all your boredom
Run away from all your whoredom
And wave your worries
And cares goodbye
All it takes is one decision
A lot of guts
A little vision
To wave your worries
And cares goodbye
Run away...

 
 
 

*°*CosacchiA*°*

Post n°349 pubblicato il 23 Gennaio 2010 da fragolozza

Trovo ingiusto che il Kazakistan non figuri tra le opzioni cliccabili nella casella d’inserimento della nazione di provenienza.
Il Kazakistan, forse perché altrimenti detto è Cosacchia, sarebbe la mia nazione ideale.
Cosacca, cosaccia… sì, mi suonerebbe proprio bene… ma, mancando l’opzione, mi sono autoproclamata temporaneamente cittadina del Burundi.

Non ho molte cose da dire e se penso che, in inglese, DIRE si pronuncia SEI, potrei aggiungere che non ho molto da essere, tranne per il fatto che, esulando dalle mie abituali tecniche di sopravvivenza, per sperimentare forme di trascorrimento del tempo ben diverse da quelle in base alle quali l’avevo trascorso finora, mi ritrovo ad essere molto più di quanto credevo di essere. Ed è quasi strabiliante!
Ci sono fogli che volano e fogli che restano fermi e ben impilati su una scrivania che è quasi più grande del mio letto. Continuo a disegnare cuoricini, come se il mio cuore non fosse sufficiente a contenere un vuoto che mi fa sobbalzare spesso, se solo ho l’impressione di intravedere qualcosa che valga la pena vedere.
Ma le mie scale di valori si ribaltano spesso e quello che vale adesso, varrà molto poco domani. Varrà quanto un filo d’erba, lo stesso di quello stupido libro di Romano Battaglia, quello che comprai credendo si trattasse della biografia di un tossicomane (“Ho incontrato la vita in un filo d’erba” non è un titolo fuorviante?) e che poi scoprii essere una raccolta di aforismi sull’amore e sulla fede. E continuo a scrivere stupide frasi in forma di poesie, sui ritagli di spazio dei giornali gratuiti, che poi fingo di dimenticare su qualche panchina, chiedendomi se qualcuno, leggendole, potrà mai amarle.

 

 
 
 

***nubilato***

Post n°348 pubblicato il 19 Gennaio 2010 da fragolozza

Tra le cose che non sopporto credo di dover inserire a pieno titolo i manifesti dei film di Muccino, i titoli dei film di Muccino e le scene di bacio dei film di Muccino. Mi fanno venire voglia di prendermi l’herpes labiale a vita.
Sono poco romantica, soprattutto dopo il bum bum bum domenicale dei vicini di casa.
Alle sette del mattino di un giorno libero, l’ultima cosa che vorresti è svegliarti di soprassalto causa rumori che nel dormiveglia scambi come conseguenza di un lavoro di idraulica e che successivamente riconosci quale risultato sinfonico di un tentato e poi riuscito sfondamento di porta da parte di marito ubriaco tenuto fuori da moglie spaventata e piangente e urlante.
Pare che quando sia riuscito finalmente ad entrare in casa l’abbia poi accoltellata ad una mano.
Sono sempre più convinta che il nubilato sia la mia condizione ideale.
Non so se per zia Emilia il nubilato sia stato una scelta o un’imposizione. Uno dei cugini che meno sopporto l’aveva soprannominata zia pepeghella, un po’ perché era sordomuta, un po’ perché quando capitava che incrociasse qualcuno, di chiunque si trattasse, cominciava a sbraitare e ad aggredire senza tregua.  Per tutti gli altri era semplicemente “la muta”, un personaggio quanto mai mitico, capace di slanci sopraffini di paradossalità acuta, tipo quando mi incrociò per le scale il giorno del mio dodicesimo compleanno ed io ero scesa a prendermi un biglietto di auguri consegnatomi dal postino e lei prima cercò di spingermi giù per le scale, poi provò a togliermi il biglietto di mano, poi non riuscendoci mi prese a morsi con l’unico dente rimastole. Confesso che quella volta, per autodifesa, provai a tirarle un calcio, ma indossavo le pantofole e quindi non le feci male. Confesso anche che quando scendevamo in contemporanea, io, in quanto più veloce, arrivavo giù per prima e le spegnevo la luce lasciandola al buio.
Ma c’è da dire a mia discolpa che una volta a causa sua, mio padre si stata beccando una mitragliata in faccia da parte di un carabiniere idiota che, non avendo capito un cavolo di quello che lei diceva (zia Emilia aveva una passione per gli uomini in divisa, perciò stava in caserma un giorno sì e un giorno sempre), fermò i miei genitori sotto casa, in pieno giorno, in pieno sabato santo, minacciando di arrestarli, il tutto con l’arma spianata.
Insomma, finché è stata di sana e robusta costituzione, zia Emilia ha dato a tutti un lungo lunghissimo spago da torcere. Ma le abbiamo voluto bene e se, buon per lei, è vissuta fino a 95 anni, credo sia stato anche in virtù di quel bene.
Senza alcuna retorica, senza parole di circostanza, senza compassionevoli ricordi: è così che voglio salutarla. Perché sono sicura che, qualunque sia il posto verso il quale oggi pomeriggio si è diretta, la sua anima sarà pronta scatenare un putiferio. E da qui dove sono, non posso che fare il tifo per lei.
Buon viaggio!

 
 
 

*°*wishes*°*

Post n°347 pubblicato il 11 Gennaio 2010 da fragolozza

Auguri a quella parte di te che credevo fosse fatta per me.
Auguri ai tuoi vent’anni, che poi divennero trenta e oggi fanno qualcuno in più e chissenefrega che è il tuo compleanno, tanto i calendari cambiano e le espressioni rimangono e ancora non riesco a dimenticare quella volta che ti chiamai per farti gli auguri e mi riattaccasti il telefono in faccia perché eri di corsa per andare da tua zia.
Però, a ripensarci, era proprio un tuo compleanno la prima volta che ti telefonai.
Me lo chiedesti tu.
Mi chiamerai per gli auguri?
Ed io ti chiamai da quel telefono a monete nella sala d’attesa del reparto di chirurgia vascolare, un piano sopra quello a cui ero ricoverata io, con quei miei
quasi sedici anni, e adesso proprio non sembra vero che già ne sono passati tredici e da qualche parte ancora conservo quelle duemilaquattrocento lire di parole che dovevo spendermi al distributore delle merendine al cioccolato, ma che lasciai scivolare giù per il filo di un altro tipo di dolcezza, esclusivamente mia, quasi per niente tua, ma chisseneimportava, tanto era così bello parlarti che pure quando sbadigliavi riuscivo a sentirmi felice.
Ma gli incantesimi si spezzano, le ferite guariscono, i telefoni a monete spariscono e i grandi amori finiscono.
Auguri a quella parte di te che non è mai stata fatta per me.
Auguri anche se non ti chiamo più per farti gli auguri.
Insomma, fosse solo per il modo affettuoso in cui ancora posso ricordarmi di te…
…auguri.

 
 
 

°*°In_Anticipo°*°

Post n°346 pubblicato il 09 Gennaio 2010 da fragolozza

Un pakistano lancia un urlo da mohicano, che se ci fosse meno asfalto potrebbe anche essere un urlo da Tarzan, e parte con uno scatto da centometrista più veloce della velocità della luce dei fari dell’autobus che s’intravede in lontananza.
Rispondo con uno sbuffo da muflone, mi disarticolo in una specie di corsa ostacolata dal cappotto, dalla pioggia e dall’ombrello e provo a batterlo sul tempo: mi vince per un soffio, ma riesco a salire anch’io e, ancora per una volta, mi perdo la gioia di arrivare in ritardo.
La planimetria dello spazio tra la chiave di volta e l’acqua alta sintetizza un archetto di cielo grigio e pezzetti di città piangente. Ponte Milvio è sommerso dall’ oscurità data da un sole assente.
Al mattino è più semplice, positivo e propositivo riflettersi nel volti altrui, immaginando similitudini nei pensieri, però poi arriva la sera ed è tempo di ammettere con se stessi che in fondo anche i quadrifogli, dal punto di vista dei trifogli, non sono altro che mostri.
Credo sia per lo stesso motivo che lo stolto chiama storpio il saggio.
La maggioranza vince, la maggioranza giudica, la maggioranza pensa di essere nel giusto anche quando è evidentemente piazzata nel torto. O forse il torto è della minoranza e, dunque, farei meglio ad evitare di tracciare collegamenti tra gli idioti e gli alberi sui marciapiedi, quasi fossero parimenti vegetali utili solo all’inciampo o come tramite alla pioggia, quando è ormai smessa, ma le gocce trattenute dai rami ancora mi bagnano la testa. Perché gli alberi sono meglio!
Non c’è promessa che tenga o parola data che mantenga, in uno stato sufficientemente dignitoso, il mio bisogno di credere nella bontà altrui. Non ce n’è, ne sono consapevole e, per questo, precorro gli epiloghi, facendo previsioni tremende al fine di essere smentita da una smentita che non arriva mai.
Rimane che mi ero ripromessa di abolire la parola fallimento dal mio dizionario, ma se prevedo le mosse e perdo comunque, se gioco d’anticipo e sono costretta ad aspettare, non posso continuare ad essere troppo leale.

 
 
 

***PROPOSITI***

Post n°345 pubblicato il 31 Dicembre 2009 da fragolozza

Lei guarda di là del vetro verso quella parte di cielo meno grigia. E le direi di lasciar perdere, perché anche oriente e il suo sole nascente promettono luce non mantenuta o soltanto abbozzata, nella circostanza di un’alba che fa seguito ad una notte che va avanti da quando è nato il mondo.
Del resto, una sequela di giorni interrotta da una tregua di festeggiamenti non può dirsi anno.
E’ soltanto un periodo, di quelli poco auspicabili, inaugurato cadendo dai tacchi poco dopo mezzanotte e proseguito incassando prima tanti pacchi e poi sulle spalle pacche, a ripetizione e a oltranza, cosi che fosse chiaro il concetto che nel 2009 avrei fatto meglio a mettermi in salamoia, in ibernazione, in stand-by.
Eppure…
“Non lo so come hai fatto”
Non lo so neanch’io, ma in qualche modo l’ho fatto, ci sono riuscita, anche senza l’aiuto voluto, anche lasciando sul campo pezzi di cuore, di stomaco e soprattutto di testa, che nessuna festa, in particolare questa, potrà mai restituirmi.
Lei intanto guarda a oriente, continua a farlo e allora le dico “Fa’ come ti pare, anzi fallo ancora.”
Tutto sommato, sottratta l’amarezza, rimane tanta forza. 
L’importante è spenderla bene.
E poi c’è l’affetto, quello profondo e vero, quello che vale anche il dolore perché lo inserisce nella giusta prospettiva e lo lascia al tempo che trova, vale a dire nessuno.
I propositi sono sempre gli stessi: gioire delle cose belle, superare le situazioni brutte, ignorare le interferenze, mantenere la calma e sorridere… sorridere sempre. SORRIDERE TANTO.
lei già lo sa, perché è così che ha sempre vissuto e che sia la parte migliore di questa persona che troppe volte ha desiderato non essere non fa differenza.
Un anno passa, ma la mia anima resta, immutata, intatta e potenzialmente migliore.
E, cavoli, quanto sono orgogliosa di questo.


 
 
 

°*°fare_o_non_fare°*°

Post n°344 pubblicato il 23 Dicembre 2009 da fragolozza

Avevo pensato di fare una cosa che poi non ho fatto.
E lo so che è inutile parlare delle cose non fatte, che il pentirsi non giova, che la vita è adesso, che carpe diem e via discorrendo.
Ma se non fosse stato oggi - mettiamo fosse stato il mese scorso- nemmeno mi sarebbe mai passata per la testa l’idea di poter fare quello che avevo pensato di fare.
Perché oggi è quasi natale e non c’è via di fuga: alla lunga, per quanto le eviti, per quanto le ignori, per quanto ti ingegni a riempirti di impegni, capita sempre un attimo di solitudine e silenzio, una frazione di smarrimento, giusto per andare a rimestare nel torbido e assecondare emotivamente tutte quelle cretinate tipo “a natale puoi fare quello che non puoi fare mai”, “tutto quello che voglio per natale sei tu”, “va la slitta va”, “la guerra è finita”… e andate in pace.
E’ l’idea di esserci quasi cascata a infastidirmi. Il resto è relativamente blando, quindi ideale, una sorta di situazione ungarettiana, ma senza le capriole di fumo nel focolare.
Che poi Ungaretti nemmeno lo sopporto. Lo portai all’esame di maturità, malgrado già allora io amassi Cesare Pavese, ribattezzato da una ragazza a cui una volta preparai una tesina Pavesi, sottotitolo “l’inventore dei pavesini”, la stessa che ribattezzò Ungaretti come Ulgaretti (ma c’è da dire a vantaggio della ragazza che non ha mai tentato i quiz di medicina né il concorso in magistratura).
Pavese però non lo avevamo ancora studiato e questa cosa mi faceva arrabbiare, perché le cose e le persone che mi piacevano erano sempre un fuori programma, un tutt’al più, proprio come la cosa che oggi avevo pensato di fare e che poi non ho fatto e, a ripensarci, nemmeno farei.
In fondo, per quanto mi riguarda, potrebbe anche essere ferragosto e la prossima persona che mi tagga in una foto con le renne, giuro che la taggo in una foto con le zecche!

PS: comunque sia… giusto perché ormai è una mia personalissima tradizione (e alle mie tradizioni ci tengo),
BUON NATALE, a chi si merita un natale speciale e
BUON NATAZZO, a chi si merita un natale del c…o.

 
 
 

*°*ingiustizie*°*

Post n°343 pubblicato il 20 Dicembre 2009 da fragolozza

Quando ha bussato alla mia porta dormivo da quattro ore, ma potevano essere trascorsi degli anni per quanto mi sentivo stanca.
Dopo lo scossone iniziale (non capita spesso che qualcuno venga a trovarmi in piena notte) mi sono buttata giù dal letto, ho infilato le pantofole e sono andata verso la finestra.
E’ stato in quell’istante che ho sentito la sua voce chiamarmi per nome.
Sono scesa ed ho aperto la porta.
Me la sono ritrovata sulla soglia, in lacrime, sconvolta, intirizzita dal freddo. Indossava una parrucca ed il trucco cominciava a colarle sul viso.
Ho pensato fosse venuta da me per rifugiarsi, per scappare da qualcuno. Ho pensato che l’avessero picchiata.
L’ho abbracciata d’istinto, prima di chiederle cosa fosse effettivamente successo e l’ho invitata ad entrare.
A volte la evito perché in certi momenti mi sembra troppo invadente; a volte mi evita perché secondo me ha capito che sono parecchio lunatica. Eppure so che, qui dove vivo, è l’unica alla quale potrei chiedere aiuto, qualora ne avessi bisogno. E penso che per lei sia lo stesso.
Piangeva perché al rientro dal lavoro aveva trovato casa devastata. Piangeva perché le avevano rubato tutto il denaro, tutti gli oggettini d’oro e persino un paio di scarpe.
Mi ha chiesto se avevo sentito qualcosa. Sa che non dormo e qualche volta si ferma da me fino a che fa mattina.
Quella sera, però, ero stanca davvero. Quella sera, fanculo, mi ero addormentata come una gallina.
Ho guardato l’orologio ed ho visto che era soltanto l’una di notte. Mi sono infilata una giacca e l’ho seguita a casa sua. C’erano vestiti e oggetti sparsi dovunque, valigie sul letto, ante spalancate, cassetti sfondati.
Dopo un po’ sono arrivati anche altri vicini e una sua amica, tutti perfettamente svegli, alcuni di passaggio in quel momento, segnale evidente che chi ha commesso il furto ha avuto una bella fortuna a non essere sorpreso da nessuno.
“Farai la denuncia?” le ho chiesto.
“Non posso, lo sai” mi ha risposto.
E ieri sera, prima di andare a lavoro, mi ha chiesto di custodirle, fintanto che era fuori, quel poco che le resta, quel poco che le basta per pagarsi l’affitto e spedire a casa qualche soldo per natale.

 

 
 
 

*°*isole*°*

Post n°342 pubblicato il 19 Dicembre 2009 da fragolozza

Ho imparato a fingere che la vita che vivo non è la mia, il che è un po’ come credere al destino: c’è da risparmiare un sacco in termini di responsabilità o di pentimenti.
A volte fa freddo, come faceva freddo quel giorno che decisi di lasciarti andare perché con te il tempo passava troppo in fretta e io ero troppo vigliacca per accettare di invecchiare. Che poi chissà se eri tu quello che mi lasciavo alle spalle o una parte di me meno viva, ma non tanto più morta da non voler evitare che potesse resuscitare.
Una risposta ce l’avrei, ma non credo sia quella giusta. Del resto chi eri? Chi sei?
C’è molto caos adesso, eppure non è ancora tempo di stelle danzanti. Ci sono lampioni, quelli sempre, anche se, non per questo, è meno buio.
E mi verrebbe di cercarti (e lo so che detto così sembra strano, visto che non cerco mai ciò da cui in altre circostanze fuggo) solo per raccontarti di come sono diventata brava a lasciare che una parolina magica (serenase) resti scritta su un foglio o al massimo mi giri per la testa, senza per questo cedere alla tentazione di renderla reale. 
Il mio medico scrollerebbe il capo, questo lo so, ma so anche che fortunatamente sono ancora incostante e, nella mia incostanza, preferisco fare leva su quello che regge invece che sulle macerie.
Insomma, voglio continuare a farcela da sola, anche se il desiderio di farsi da soli, il farsi da soli e il semplice farsi, dai più sono ancora intesi come corrispettivo, nei risultati, di una sega mentale.
E’ che in certi momenti tutto è troppo brutto, ma ce ne sono altri di momenti, in cui sono preda di una felicità strana, ma capace di farmi dimenticare e, addirittura, farmi sentire sciocca, al pensiero del dolore provato. A te capita mai?
A guardarmi o a sentirmi parlare, sono sicura che ti divertiresti un sacco.
Ho preso l’abitudine a collezionare amicizie a breve scadenza. Il meccanismo è  molto semplice: quasi tutti i giorni esco di casa convinta che incontrerò qualcuno che sceglierà di parlarmi. E quasi tutti i giorni succede. L’altro ieri era una donna con una nipote che sta male; ieri una coppia che non sapeva su quale autobus salire. Abbiamo fatto un pezzo di strada insieme e poi ciascuno è tornato sulla propria isola. Non credo siano i messinesi quelli che più degli altri hanno bisogno di un ponte e, anche se ne avessero tanto bisogno, a quanto pare non sono i soli.
Ed ho preso la pessima abitudine a mettere da parte le amicizie di lunga data, un po’ per capire quanto valgono, un po’ perché non mi va di mostrarmi come sono, di simulare ciò che ero e, soprattutto, di chiedermi quante di loro sopravvivono per convenienza, per affetto o per altro ancora. Andranno a male? Sai che non m’importa?
Non sono più così capace di prendermi cura degli altri, ma mi sto impegnando a prendermi cura di me. L’impressione di avere molto poco da curare, talvolta, è un incentivo a mandare tutto all’aria, ma in mezzo a tutto questo casino, c’è ancora un puntino di luce... e che sia l’origine di una stella o il semplice riflesso di un lampione, ancora mi piace tenerlo acceso.

 

 

PS: A nove anni, durante una festa di piazza, un deficiente mi lanciò un petardo che mi esplose sulla guancia. Ma nessuno ha mai pensato che fosse colpa dei comunisti. Quello fu considerato esclusivamente come il gesto di un idiota.

 

 

 
 
 

*°*Fabio_Volo*°*

Post n°341 pubblicato il 12 Dicembre 2009 da fragolozza

Mi ero pure preparata una lista di domande.
Niente di eccezionale… tutte cose del tipo : ”Caro Fabio Volo, pensi che se, invece di chiamarti Fabio Volo, ti fossi chiamato Fabio Atterro, Fabio Precipito o Fabio Cado, avresti avuto successo comunque?”
Ma poiché la risposta non sarebbe valsa il tempo speso ad aspettarla, in coda ad una fila più lunga di quella che c’è fuori dalla posta di Cicciano, nei giorni in cui danno la pensione e gli stipendi (e in quel caso almeno la gente aspetta di essere pagata), me ne sono andata.
Le persone, nei pressi della Mondadori, continuavano ad accalcarsi, le ragazze accorrevano urlanti, i ragazzi stretti nei cappotti si stringevano la loro copia al petto.
Non potevo rimanere lì. Io non ho nemmeno mai comprato un libro di Fabio Volo.
Ciononostante sono tornata a casa con un’aria afflitta.
“E allora?”
“E allora niente.”
“A proposito, finora mi ero dimenticato di chiedertelo… ma Fabio Volo non è per caso lo stesso tizio che era ospite in quella discoteca di Firenze quella sera che ci andammo e c’era una fila lunghissima all’entrata e a un certo punto facevano entrare solo le ragazze e tu entrasti e mi lasciasti là fuori da solo fino alle due di notte, roba che riuscii ad entrare solo per riprenderti e tornare a casa, perché ormai si era fatto tardi e io il giorno dopo lavoravo?”
(Più che una domanda, a me è sembrato un ben ti sta…)
“Se la fila era lunghissima, allora di sicuro era lo stesso tizio.”

Uff... Potevo ricordarmelo prima.

 
 
 

*°*astrakan*°*

Post n°340 pubblicato il 10 Dicembre 2009 da fragolozza

L’unico motivo per cui volevo si avvicinasse natale era questo.

Commemorare la scomparsa, ad un anno esatto dalla prima comparsa, di un qualcuno che fu protagonista e, in seguito, nemmeno figurante dei miei giorni, giace sullo stesso piano di uno studio approfondito sugli effetti collaterali della passiflora.
Entrambe le cose mi farebbero piangere, da entrambe le cose mi tengo ben distante. E non per istinto di autoconservazione (quello lo esercito girando al largo quando mi trovo in prossimità di un ponte), quanto piuttosto  per curiosità.
Se un libro non mi piace, smetto di leggerlo.
Se un film non mi piace, smetto di guardarlo.
Ma non si può assumere lo stesso atteggiamento nei riguardi della propria vita.
Se fossi morta tutte le volte che l’ho desiderato, non avrei mai scoperto che ogni nuovo giorno comporta una nuova scoperta.
Certo, le mie scoperte non sono annoverabili tra i dieci motivi per cui vale la pena svegliarsi la mattina... ma questo è solo un trascurabile dettaglio. E, in fondo, ancora credo nella possibilità della scoperta giusta e quindi ancora sono curiosa di sapere cosa succederà.

(Quando mi sentivo Alice nel paese delle meraviglie usavo la mia fantasia a scopo d’evasione.
Da quando sono diventata Carrie lo sguardo di satana uso la mia fantasia a scopo terapeutico.
Stamattina ad esempio, mentre pensavo a quanto fossero fastidiose le lamentele, gli insulti e gli sbuffi di una vecchiazza ricoperta di astrakan, con borsa di gucci e capelli a forma di cuscino, nei riguardi di un povero autista che per un guasto all’autobus tardava a ripartire, con lei che a suo dire non aveva mai preso l’autobus e mai più lo avrebbe ripreso, con lui poveraccio a fare un lavoro pubblico con un pubblico per lo più del cavolo, ho cominciato a immaginare la vecchiazza legata all'autobus  e costretta a trainarlo, torturata dalle pecore e frustata dall’autista.
E per un pochino mi sono sentita meglio.)

PS: tanti auguri a BRIAN!

 
 
 

°*°Persone_Silenziose*°*

Post n°339 pubblicato il 05 Dicembre 2009 da fragolozza

MT rasentava la catatonia. Non sorrideva mai, non parlava mai, non emetteva alcun suono. Se ne stava seduta nel suo banco, unica bambina fra tutte la cui grande aspirazione nella vita sembrava fosse diventare una mummia.
Al contrario, io ero una chiacchierona, una bambina vivace, una che stava bene in compagnia.
Ma con lei era come rivolgersi al muro. Le facevo il solletico, le tiravo i capelli, la prendevo a gomitate e lei… niente. Non diceva sì, non diceva no, non diceva a, non diceva o. Niente di niente.
La punizione della mia infanzia è stata sederle accanto per tutti gli anni delle elementari.
Il primo giorno delle medie, dopo che mio padre mi scaraventò gentilmente dall’auto a 500 metri di distanza dall’istituto, oltre che arrivare a scuola col fiatone, ci arrivai con un sospiro di sollievo. Finalmente mi sarei potuta trovare una compagna di banco con cui parlare, con cui giocare, con cui COMUNICARE.
Ma quando da lontano vidi MT fuori dalla porta dell’aula che mi era stata assegnata mi prese un colpo.
Mi avvicinai con cautela e rassegnazione.
“Hai visto che bello? Stiamo di nuovo insieme!”
Oltre a rimanere sorpresa per il fatto che io mi ero scelta il tempo prolungato e lei quello normale, quindi era impossibile essere capitate insieme, mi stupì la sua voce. Se era più bella della mia, perché non l’aveva mai usata?
Ero troppo piccola per elaborare teorie psicologiche, perciò mi limitai a gioire del fatto che, pure se mi rompeva le scatole che i suoi genitori e la mia vecchia maestra mi vedessero come uno stimolo, ragion per cui erano intervenuti affinché non ci separassimo, almeno stavolta avrei avuto una compagna  parlante.
E così scoprii che MT era simpatica e, soprattutto, che non mi portava rancore per tutte le volte che avevo cercato di strapparle qualche suono a suon di schiaffi.
Non durò però molto. Dopo qualche mese, di preciso dopo un’interrogazione di religione a cui non aveva saputo dare alcuna risposta (ma si può andar male ad un’interrogazione di religione?), smise di nuovo di parlare.
A quel punto mi arresi. Non mi andava nemmeno più di picchiarla, votata com’ero ad un destino di silenzio che, già allora, riconoscevo come causa delle mie prime, adolescenziali, crisi depressive.  Del resto, conoscevo il suono della sua voce e conoscevo il motivo per cui non parlava.
MT era una grande paraculo, una parassita, una che si fingeva autistica per non affrontare le difficoltà della società (non a caso molti dei miei compagni logorroici in quegli anni vennero bocciati, mentre lei andava tranquillamente avanti, senza dire niente, attaccata come una cozza al mio gomito destro, lei che era mancina e che, quando si arrabbiava se non la lasciavo copiare, mi spingeva col braccio per farmi pasticciare).
E che avesse scelto me, come organismo da cui trarre forza, diventò palese quando ci fu da iscriversi alle superiori. Io scelsi lo scientifico, convinta che non mi avrebbe mai seguita al liceo. Ma ero stata troppo benpensante: quella pazza aveva intenzione di seguirmi vita natural durante.
Perciò, furbescamente, aspettai che fosse luglio, aspettai di non rivederla, mi recai allo scientifico, ritirai la preiscrizione e me ne andai felicemente al classico.
Di MT ho saputo che dopo un paio di settimane allo scientifico, si ritirò per iscriversi al magistrale.
Di MT non ho poi più saputo nulla (per fortuna non l’ho nemmeno più incrociata per caso e manco la riconoscerei se capitasse).
Ma da MT ho derivato quell’odiosa e oscena capacità di chiudermi a riccio, di sopportare, di non reagire a niente e, quindi, di non superare.
Fanculo a MT ovunque ora sia.

MORALI DELLA STORIA:
- il silenzio fa bene solo a chi lo crea e mai a chi lo subisce;
- fingersi dementi è un ottimo modo per essere promossi nella vita;
- farmi benedire fin  dalla tenera età non sarebbe stata una cattiva idea.


 
 
 

****IRINA***

Post n°338 pubblicato il 03 Dicembre 2009 da fragolozza
 

“Immagina come sarebbe, se avessi un altro nome, magari russo, tipo Irina o Ilona… insomma, uno di quei nomi brevi ma d’impatto”. Mi stiracchio le braccia, allontano la sedia dalla scrivania e comincio a passeggiare per la stanza.
Mauro alza lo sguardo dal testo di algebra, mi fissa e, per un attimo, ho l’impressione che mi abbia capita, che davvero mi stia osservando come vorrei mi osservasse.
“E allora cosa ne pensi?”
“Di cosa?”
Ma non mi ha capita.
“Non sarebbe meglio se mi chiamassi Irina?”
Glielo ripeto scandendo bene il suono, affinché la limpidezza di tre sillabe molto diverse da quelle che effettivamente compongono il mio nome contribuiscano a modificare l’idea che credo lui abbia di me. Ma è evidente che è ancora perplesso.
“Scusa, ma perché proprio Irina?” mi chiede. “Irina è un nome che fa schifo. Sempre la marca di uno spray nasale o, alla meno peggio, il diminutivo di una marca di collirio. No, non mi ci vedo a chiamarti Irina”
“E allora come vorresti chiamarmi?” chiedo curiosa.
Mauro sbuffa, si alza a sua volta, mi si avvicina e mi lascia sulla spalla l’impronta di una pacca data forte. “Smettila di pensare a certe stronzate. Hai un nome bellissimo. Perché ne vorresti un altro?”
“Perché quello che ho non è per niente bello e tu sei un bugiardo a dire così. Metti poi che neppure l’ho scelto io. Ti rendi mai conto di quanto poche siano le cose che possiamo scegliere o anche solo controllare? Il nome è ciò che ci identifica, che ci rappresenta nel mondo, eppure non siamo noi a sceglierlo. E’ ingiusto, non trovi?”
“Ci sono ingiustizie peggiori, sai? Anche doversene stare qui ad ascoltarti è un grande ingiustizia”
Se la sua era una battuta, io non l’ho capita, perché mentre mi sorride, provo a sputargli in faccia quel poco di saliva che mi resta, prima che mi si secchi in gola. Mi sforzo con tutta me stessa e lo sputo si ferma a mezz’aria. A considerarlo meglio, sembra uno spruzzo, uno di quelli che ti viene fuori dal naso e dalla gola quando starnutisci senza fare in tempo a coprirti la bocca con la mano. Anche i miei sputi sono senza controllo, ma questo lo so io soltanto, perché Mauro, nel mentre prendevo di mira la sua guancia sinistra, mi ha voltato le spalle.
Si avvia verso la porta chiusa della mia stanza, spalancandola all’invadenza della luce che riempie il corridoio.
Resto inizialmente interdetta, poi gli urlo: “E adesso che fai? Te ne vai?”
La sua voce mi giunge ovattata dalla distanza che separa la piastrella del pavimento su cui mi sono inchiodata dalla cucina. “Devo bere, vuoi che ti porti dell’acqua?”
Mi siedo sul letto, poi mi sdraio e il cuscino mi fa il solletico al collo. Questo è uno di quei momenti in cui ci starebbe bene un bacio, una coccola inattesa, una sorpresa.
“No, non voglio niente!”
Sento il rumore del frigo che si apre, il bicchiere sul tavolo, l’acqua che lo riempie e di nuovo il frigo, ma che si chiude. Sollevo un po’ la testa quando si riavvicinano i suoi passi.
Si ferma sulla porta e so di non averlo mai visto così bello. Se avessi più coraggio rimarrei stesa, a lasciare che le prossime ore soli in casa e i suoi ormoni in subbuglio adolescenziale facciano il resto. Io, però, non ho alcun coraggio e mi tiro su a sedere, tirandomi giù la maglietta che si era sollevata a scoprirmi l’ombelico.
“A che punto eravamo?” mi chiede, guardandomi in un modo strano ed ora so per certo che vorrei mi stupisse, vorrei che mi prendesse tra le braccia e mi stringesse forte. Peggiore dell’ingiustizia di non scegliersi il nome è il fatto di non poter mai vivere in prima persona una scena da telefilm americano.
“Con i compiti di matematica o con la mia teoria sui nomi?”
Non mi risponde. Si avvicina e si siede al mio fianco, sul mio letto. Sta zitto, ma continua a guardarmi in quello strano modo.
Non lo so se respiro ancora. Forse sì, ma solo per abitudine.
E finalmente lo fa. Allunga una mano ad accarezzarmi il viso e si avvicina e poi preme le sue labbra sulle mie. Non mi bacia per molto. Si allontana di scatto ed il suo viso è tristemente normale, mentre il mio, me lo sento, è una palla di fuoco.
“E questo? Non puoi controllare neanche questo?”
Non capisco se è una domanda a trabocchetto, ma d’istinto rispondo: “No”
“Io, invece, sì” replica lui e scoppia in una risata crudele, come quella che farebbe  un assassino, prima di sventrare la vittima con delle trinciapollo.
“Dai, secchiona, non rimanerci male. Era solo uno scherzo! Lo sai che ti voglio bene. Non prendertela”
“Non me la sono mica presa? Guarda che stavo scherzando anch’io!”
E’ evidente da come continua a ridere che non mi crede.
Se mi chiamassi Irina, stavolta prenderei bene la mira, anzi lo terrei fermo per evitare di sbagliare. Risucchierei tutto i liquidi che ho in corpo e glieli sputerei addosso senza ritegno. Ma io mi chiamo Carmela.
Ed è una grande ingiustizia chiamarsi così.

 
 
 

°°°specchio°°°

Post n°337 pubblicato il 26 Novembre 2009 da fragolozza

La mortificazione del corpo, concepita come maieutica di un dolore altrimenti difficile da partorire,  stavolta ha il sapore dei concentrati di frutta, che non lava via la rabbia ma almeno, dentro, brucia allo stesso modo o forse più, come un fuoco che nemmeno l’acqua fredda sui vestiti riesce a sedare.
Ero nell’angolo a guardare la scena, inconsapevole che viverla davvero concretizza le arcane paure di sempre e non sapevo che fungere da spettatori di se stessi non è poi tanto piacevole.
Bisognerebbe vivere senza guardarsi  allo specchio, perché qualora il riflesso fosse bello, il solo pensiero che chi è dall’altra parte del vetro conduca un’esistenza migliore della propria, basterebbe a sollevare il panico.
Che da questa parte sia rimasto molto poco è quasi certo e il fatto che alcune persone rovistino tra le mie cose inutili e, quando trovano le poche cose utili, mi chiedano di privarmene, di regalargliele, mi lascia interdetta.
Ma, probabilmente, questo accade perché io non so chiedere nulla.

Adoro Matthew Bellamy. Ogni volta che canta, sembra stia impazzendo.
(controlling my feelings for too long...)

 
 
 

***vorrei***

Post n°336 pubblicato il 20 Novembre 2009 da fragolozza

-Vorrei che i Maya avessero ragione.
-Vorrei vivere in uno di quei posti dov’è notte per sei mesi e giorno per altri sei.
-Vorrei che chi usa la parola “uomofobia” nella campagna contro le unioni gay e contro l’impiego della RU-486, avesse l’onestà di usare anche le parole “misantropia” e “ipocrisia” nella propria campagna elettorale.
-Vorrei aver avuto il coraggio di chiedere a Ciampi la grazia, quell’anno che lo vidi passare in via del duomo per l’inaugurazione dell’anno accademico, perché i santi non possono nulla, mentre di sicuro i politici fanno miracoli.
-Vorrei delle riserve di sputo sufficienti a ripulire le facce di quelli che vivono di menzogne.
Ho l’età che mia madre aveva quando io avevo sette anni e ricordo che allora lei mi sembrava “grandissima”.
-Vorrei avere già ottant’anni.


 
 
 

***PUSKIN***

Post n°335 pubblicato il 18 Novembre 2009 da fragolozza

Lo spettro semantico del concetto di mancanza, da intendersi in tutte le sue più importanti accezioni, ossia come carenza, nostalgia e torto, si è impossessato del mio spirito, il che significa che, contemporaneamente,  troppe cose mi mancano,  io stessa mi manco e la divergenza tra le mancanze subite e quelle perpetrate è solo per modo di dire.
Reagisco, perciò,  spiazzandomi, come sono tanto brava a fare, e non perché mi piaccia sentirmi apolide, ma perché in certi casi, convincersi di non appartenere ad alcun luogo è una necessità… soprattutto tenendo conto che tutte le straniere bionde che incrocio cominciano a parlarmi nella loro lingua e si offendono se non rispondo.
E poi ci sono quelli che credono io sia moldava, cosa che sarebbe positiva visto che la gran parte delle moldave, dopo un periodo di stenti se ne ritorna in patria, si costruisce una villa e vive felice e contenta.
Ma io non sono moldava, io sono italiana e mi sa che mi conviene prendere lezioni di grammatica russa, fare un biglietto per l’altrove e mandare tutto a Puskin o a Putin… che tanto è lo stesso.

 
 
 

*°*questione di feeling*°*

Post n°334 pubblicato il 13 Novembre 2009 da fragolozza

Io e Lamberto Sposini passeggiamo teneramente avvinghiati in un giardinetto pubblico, finché non arriva un gruppetto di fotografi e lui  mi chiede di nascondermi, se no è un casino.
Io ubbidiente mi allontano, mi nascondo dietro il primo muretto e penso.
Penso di chiamare mia madre per dirle di cominciare a guardarsi La Vita In Diretta, perché mi sono fidanzata con Sposini.
Poi penso che non sarebbe corretto comportarmi in questo modo, perché Lamberto mi ama e dichiararlo al mondo solo per fare la buffona sarebbe un vero tradimento.
E, infine, penso che faccio bene a tornare a cercarlo, se no, non solo mi perdo Lamberto, ma mi perdo pure la possibilità di poterlo presentare un giorno a mia madre.
Lo cerco, lo trovo e lui ha un’espressione strana, un’espressione che riconosco subito.
E’ l’espressione di chi sta per mollarti e vuole farlo nel modo più stupido che io conosca, vale a dire con la scusa del: ”Sai, ho scoperto che mi sto innamorando di te e non ero pronto per questa cosa”. 
Ci resto davvero male, provo a capire perché si comporta a quel modo e quando finalmente sto per convincerlo a viversi il nostro amore, perché non capita tutti i giorni e, soprattutto, perché non c’è niente di male nel sentirsi innamorati, mi sveglio.

Non sono mai stata attratta da Lamberto Sposini, credo che soffrirei di più se mi ci fidanzassi piuttosto che se mi lasciasse e in  altre circostanze avrei ritenuto paradossale questo sogno se non fosse che…
se non fosse che ultimamente vengo consultata, quasi io fossi la Sibilla Cumana, sempre in merito a storie che finiscono male.
Non c’è bisogno dunque di Freud per capire che il sogno è una summa di tutti i consigli  che da anni cerco di dare alle mie amiche e che, o perché incompresi o perché inespressi, mi ristagnano dentro e danno vita a strani rigurgiti onirici.
I consigli sono i seguenti:
1) mai mettersi con un uomo che non si apprezza appieno e, soprattutto, mai fidanzarsi per convenienza;
2) mai mettersi con un uomo che non è orgoglioso di farsi vedere in giro con la propria donna, a meno che anche la donna non abbia le stesse remore, ma in quel caso che senso ha stare insieme?
3) mai vantarsi di aver trovato un fidanzato se prima non lo si è presentato ai propri genitori. Se dopo il primo appuntamento ci si è convinte di aver trovato l’uomo giusto al punto da dirlo a tutte le altre amiche, in particolare a quelle ancora single, il rischio che si corre e quello di non rivederlo mai più, nemmeno per l’arrivederci (questione di malocchio);
4) mai fidarsi di un uomo che dopo poco tempo ti dice che è innamorato di te. Non è scientificamente provato, ma è empiricamente dimostrato che nella maggior parte dei casi un uomo crede di essere innamorato di una donna solo finché non c’è andato a letto, mentre al contrario una donna capisce di essere innamorata di un uomo solo dopo esserci andata a letto. Insomma, frenare l’ormone se si ha intenzione di costruire qualcosa di serio, sembrerà pure una pratica medioevale, ma ancora funziona.
5) mai sottovalutare la propria individualità a vantaggio di un’idealizzazione dello stato di coppia. E’ proprio necessario fidanzarsi????

 
 
 

°°°verificare°°°

Post n°333 pubblicato il 07 Novembre 2009 da fragolozza

Il non verificarsi di situazioni che non si vuole si verifichino è assimilabile alla realizzazione di qualcosa che si vuole si realizzi.
Io non volevo tornare a casa. Lo avevo sbandierato ai quattro venti. Perciò il fatto che alla fine mi sia convinta a tornare, ma che abbia comunque fatto una corsa, buscato un infarto, sguazzato nella pioggia e perso l’ultimo autobus del giorno verso Nola è sintomo che, forse, non sarò brava ad ottenere ciò che voglio, ma me la cavo ancora bene con quello che non voglio, incluso il brodo di pollo che mi attendeva al mio rientro.
E così ho affogato lo stomaco in una poltiglia di patatine, perché anche quello che è leggero diventa prima o poi pesante.
E’ tutto molto umido, compresa la sensazione di tristezza agli occhi, nel dovermi spesso confrontare con estranei che, dal niente, cercano di consolarmi in relazione ad una presunta elasticità del cervello che io non ritengo tale, ad una certificata rovina sociale a cui io non voglio pensare, ad un’improbabile possibilità di costruire rapporti sani che io non voglio instaurare.
Fingersi accondiscendenti è come dare il numero di telefono sbagliato. Sarebbe corretto non darlo affatto, ma quando ci si trova di fronte a qualcuno che ha già preso carta e penna o ha già il pollice pronto a smanettare sulla tastiera del cellulare, è difficile non dire di sì e regalare, quindi, un’illusione di contatto.
Do sempre lo stesso numero e a volte mi chiedo che faccia abbia, quante maledizioni mi mandi, se è contenta di questa cosa o meno, la persona verso la quale dirotto tutte le mie logorroiche conoscenze di strada. Prima o poi mi converrebbe verificare.

PS: meglio che vada, altrimenti perdo di nuovo l'autobus.

 
 
 

***incomunicabilità***

Post n°332 pubblicato il 05 Novembre 2009 da fragolozza

La luna storta ed il sole non troppo splendente mettono sotto la giusta luce (nessuna luce), quello che mi accade. Nemmeno le lampadine di casa sortiscono chiarore. La psichedelia, semmai se ne voglia trovar traccia, è tutta nelle parole, nell’effetto che sortiscono e nel modo in cui mi rendono consapevole che, in fondo, starsene zitti, rinchiudersi a riccio, farsi esclusivamente i cavoli propri, in certe circostanze è la soluzione migliore. Perché se non c’è comunicazione che non vada a buon fine, tanto vale non comunicare affatto.

ESEMPIO UNO: comunicazione delicata.
Entro in farmacia per comprare una cosa non particolarmente esaltante. Mantengo un profilo basso e quando arriva il mio turno delicatamente chiedo una scatola di xxx.
Ovviamente mi capita l’unica farmacista sorda del negozio la quale fa: “Come ha detto prego?”
“Mi dà una scatola di XXX?”
“Di cosa si tratta signorina?”
Penso sticazzi, mi guardo intorno e le spiego di cosa si tratta.
E’ sulla richiesta di come è scritto il nome che mentalmente esamino tutti i modi possibili per sprofondare. Per non parlare poi di quando mi dice che quel prodotto non c’è…
Il fanculo che le ho rivolto mentalmente non è il finale della storia, perché ho girato per altre due farmacie, la prima delle quali era chiusa e la seconda delle quali era gestita da un uomo, stronzo, brutto e poco professionale, visto che mi ha montato una tiritera sull’impossibilità di vendermi il farmaco che mi serviva senza prescrizione medica, per poi vendermelo comunque e farmelo pagare più di quanto sono solita pagarlo. La prossima volta comprerò le medicine per posta.

ESEMPIO DUE: comunicazione professionale.
Leggo di un’offerta di lavoro, da parte di una scuola privata, a docenti di varie discipline. Mi precipito ad inviare il curriculum e dopo poche ore mi viene fissato un appuntamento per un colloquio. Senza raccontare niente a nessuno (tutte le volte che dico a qualcuno che devo fare un colloquio la cosa si risolve in epiloghi grotteschi), ieri pomeriggio alle quattro e mezza sono uscita di casa piena di belle speranze. Non m’importava della pioggia, del freddo, del sito dell’atac che calcola i percorsi in modo sbagliato, dei dieci kilometri a piedi fatti per giungere alla fermata giusta, della fitta ai polmoni quando mi sono messa a correre perché erano già le sette meno un quarto,  il mio appuntamento era alle 18 e 30 ed io avrei fatto una brutta figura arrivando in ritardo. Non m’importava di niente.
Ma quando mi è stato chiaro di cosa si trattava- la scuola era in realtà un garage, dove  due tizi hanno pensato di metter su una sorta di associazione culturale incentrata sull’organizzazione di corsi di decoupage, di tecniche di vendita, di creazione di gioielli- mi è importato eccome. Possibile che la mia e-mail, con un chiarissimo oggetto relativo a materie quali italiano, latino, greco, storia, geografia ed educazione civica, fosse scritta così male da non rendere palese che del decoupage non mi importa un fico secco?
La prossima volta che devo sostenere un colloquio faccio un voto di castità. Chissà che non vada meglio…

ESEMPIO TRE: comunicazione interrotta.
L’altra sera, dopo più di un anno, ho aperto la cartella di posta elettronica di Libero e ci ho trovato più di duemila e-mail. Ne ho spulciate un centinaio e, al di là delle notifiche, delle spam e di altre varie ed eventuali, ho trovato un messaggio che diceva più o meno così: “Grazie perché da quando ti conosco la mia vita è diventata meravigliosa”. Poiché il mittente non si firmava e aveva un indirizzo assurdo, ne approfitto per ricambiare da qui gli auguri di buona pasqua ed estenderli magari fino al prossimo natale. E’ vero che sarei curiosa di sapere se la vita di questa persona è ancora meravigliosa,  ma poiché la mia lo è davvero poco, mi auguro che a costui le cose vadano meglio che a me. Vorrebbe dire che un minimo di utilità sociale ancora lo conservo.

 
 
 

***piccioni***

Post n°331 pubblicato il 01 Novembre 2009 da fragolozza

Due predicatrici di strada cercano di convincermi che lo sguardo del signore è puntato anche su di me e io invece mi convinco di non essere l’unica ad avere problemi di strabismo.
E’ come quando lasci una persona in un posto e dopo nemmeno un attimo  ti volti e ti accorgi che è sparita.
E’ come cercare di dare una forma ai riflessi di luce sull’acqua o ai fili di nuvole nel cielo, per poi comprendere che nessun disegno durerà in eterno.

Seduta su una panchina a guardare i passanti, è molto facile rendersi conto che due cuori che non amano allo stesso modo non hanno proprietà osmotiche.
E’ per questo che mi affascinano le tecniche di corteggiamento dei piccioni: i maschi gonfiano il collo, allargano le piume della coda e cominciano ad incedere arroganti sulle loro zampette rosse, senza una mira precisa, senza un obiettivo prefissato… come se una picciona valesse l’altra; le femmine prima corrono, poi rallentano, poi si fermano, del tutto incuranti di non essere affatto speciali per il loro futuro compagno.
Ci sarebbe tanto di guadagnato a comportarsi come i piccioni.

Qualche giorno fa, in un film di cui non conosco il titolo, uno Steve Martin molto malinconico, sul finale, si voltava a guardare Claire Danes , pensando a quanto fosse assurdo sentire la mancanza di una persona che aveva allontanato proprio per non doverne sentire la mancanza.

Mi sento dire troppo spesso che non mi manca niente. E se anche a me cominciassero a mancare cose di cui non avrei voluto sentire la mancanza?

 

 

 

 
 
 

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Le cloache di notte somigliano
a fiumi nascosti.
Scommetti che a perdere il cuore
guadagni più spazio?
Sul banco dei pegni
ho impegnato
il mio ombretto di rosa.
Palpebre nude non chiudo
per cogliere il resto
di quello che resta
sul conto in sospeso
dei nostri sospesi.

Le formiche al tramonto ricordano
grani di pepe.
Sai contare al contrario, partendo
da cifre irrisorie?
Sotto l’arco
s’inarca in trionfo
la triade imperfetta.
Me stessa, quell’altra o la stessa
si chiudono a riccio.
Per capriccio
mi cavo d’impiccio.
Mi sento di troppo.

 

 

 

 
 

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