Creato da fragolozza il 13/10/2006

LeCoccinelleVolano

...ma cadono lo stesso.

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‘cause you’re the truth

not I.


 


 

 

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IL MIO PROSSIMO FIDANZATO

 

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°°°nuvole_sparse°°°

Post n°412 pubblicato il 11 Novembre 2010 da fragolozza

La mia testa sta diventando come la mia casa: c'è una confusione pazzesca che prima o poi risolverò. Ma adesso non ho tempo per farlo.

1) Metti che io resti zitella a vita, anzi no... Metti che io resti scapola (che secondo me non è usato come femminile di scapolo, perché scapola può confondersi con costola e far crollare il mito della genesi. O magari le femmine che si sposano sono quelle generate dalla costola e quelle che non si sposano è perché per errore sono nate da una scapola. Potrebbe essere...) 
Comunque sia, aggiungi che mi toccherebbe fino alla fine dei miei giorni badare a me stessa, provvedere a me stessa, mantenere me stessa.
Dopodiché, considerato quanto sopra, spiegami perché le persone che vivono sole, in base a quanto ho letto oggi sul giornale, dovrebbero pagare più tasse di chi vive in una coppia che sia ufficialmente riconosciuta e quindi si bada a metà, si provvede a metà, si mantiene a metà.
I conti non mi tornano.

2) "...Poi però i tram continuano a passare e finisce che su qualcuno ci sali e allora davvero diventiamo lontani e quel passo che ci aveva portati ad un passo dall’essere nient’altro che noi e, forse, più che altro noi soli, diventa una corsa a ritroso verso le lande del chissà se non t’avessi mai incontrato…" (la salubrità dell'autocitazione)

3) In fondo avre belle mani se non mangiassi le unghie, le dita, i palmi e, qualche volta, anche i gomiti. E così, ora mi ritrovo con dello stupido smalto sbavato color puffo a farmi da deterrente per tutti i morsi che non so su quali unghie dirottare.
A proposito di dirottamenti, ne sogno spesso, con tanto di caduta a precipizio finale e poco fa mi si è appena avverata una cosa che avevo sognato e, se considero che tutte le mattine io passo per l'aeroporto e che il sogno che mi si è avverato era completamente diverso, ma non è detto che non mi si avverino anche gli incubi... comincio ad avere paura degli aerei.

4) Guardare Brian Molko mi stimola analogie con le nubi. Se ne stanno lì e, contrariamente alla gravità, non cadono, ma crescono e poi scompaiono e poi tornano e poi cambiano forma, ma in ogni caso diventano sempre più belle.

 

you're the truth not I

 

 
 
 

***NaTuRaL***

Post n°410 pubblicato il 02 Novembre 2010 da fragolozza

Mangio ARIA fritta e, quando sono a TERRA, mi aggrappo a un FUOCO di paglia che fa ACQUA da tutte le parti.

(ma almeno sono in sintonia con i quattro elementi della natura)

 
 
 

°°°pensierini°°°

Post n°409 pubblicato il 30 Ottobre 2010 da fragolozza

Penso a come sarebbe sgominare la folla, mettermi a capo della fila e, coinvolgendo tutti in un canto collettivo del ritornello di You’ve Got The Love, rendere più allegra e solidale l’attesa interminabile per salire sull’unica scala mobile funzionante.
Penso a Clive Owen, istigatore mattutino a fantasticherie vivaci, perché sono sicura che nessuno è capace quanto lui di stringere tra le mani, in maniera altrettanto sexy, una boccetta di profumo Bulgari.
Ma penso pure a Colin Firth, che da quando ho scoperto essere (o almeno esser stato) domiciliato a Roma, mi fa guardare la città con occhi diversi e soprattutto più attenti, data la speranza di incontrarlo da un momento all’altro, abbacinarlo e vivere felice e contenta insieme a lui per il resto dei miei giorni.
Penso alle lucertole, alle mosche e ai moscerini e a tutti i probabili sconosciuti posti in cui vanno a dormire o si riparano quando piove.
Penso ai panini con la mortadella, ai taralli, agli arancini di riso, alle barrette kinder e alle altre mille cose buone di cui potrei nutrirmi, quando il concetto di “magra è bello” mi fa optare per la pastina col dado.
Penso che fidarsi è bene, ma anche che ogni volta che mi fido poi finisce il bene, quindi è meglio diffidare.
Penso che se a ottobre sono già 4 i gradi per le minime, a dicembre mi farò musulmana giusto per poter andare in giro coperta da un burqa di dieci strati di pelle di capretto.
Penso che se “il prossimo” non potrà mai essere “il primo”, allora ama il tuo prossimo come te stesso è un invito ad ammettere con se stessi di essere sempre gli ultimi.
Penso pure ad altre cose, ma poi me ne dimentico e penso sia meglio così.

 

 
 
 

***compagna***

Post n°408 pubblicato il 25 Ottobre 2010 da fragolozza

La notiziona del giorno, stando alla prima pagina di METRO, è che il 55% degli italiani è infedele alla propria compagna (ammazza che scoop!).
La parola compagna, sarà per l’allomorfia con campagna, mi ha sempre suggerito sfondi idillici, di altalene tramonti e scrosci d’acqua accompagnati da arcobaleni. E credo non sia un caso se adoro le metropoli.

E’ un periodo di inedite certezze, di sfrontate consapevolezze e di ardite sicurezze. Deriva da una profonda e autoimposta inettitudine a supporre. Del resto, dopo aver realizzato che tutte le cose finora supposte, in qualità di supposte, finivano sempre e solo in un unico posto, dovevo pur arrendermi.
Comunque sia, ci sono frasi che continuano a girarmi in testa e parole che non riuscirò mai a dire nel modo giusto.
Ed è ingiusto sentirsi onnipotenti, anche soltanto nel pensiero, per il semplice fatto di ritenerlo possibile, e poi scoprire che in realtà non lo si è affatto. Bisognerebbe fare i conti con i propri limiti prima di azzardare somme e soluzioni.
Ed è malsano sentirsi romantici, che sia pure per quella specie di stridio che emette il petto, salvo poi associarlo a un malanno di stagione. Bisognerebbe piantare bene i piedi in terra, prima di azzardare costruzioni di castelli in aria.

Sopravissuta a quest'ultima prova in fondo posso vantarmi di essere una donna con la D maiuscola...

 
 
 

***cosa_buona_e_giusta***

Post n°407 pubblicato il 15 Ottobre 2010 da fragolozza

In prima media, ci fu un periodo in cui ero innamorata contemporaneamente di un ragazzo che frequentava la seconda e di un paio di ragazzi che frequentavano la terza. Quelli di prima media erano esclusi, ma compensava la loro assenza almeno una decina di altri ragazzi che ogni tanto incrociavo di sfuggita per strada.
Credo che tutta questa profusione di sentimento, da parte mia, fosse dovuta alla convinzione che amare è cosa buona e giusta, talmente giusta che quando avevo l’impressione di non  essere innamorata di nessuno (cosa piuttosto difficile, ma comunque possibile), uscivo di casa ogni volta con l’intenzione di individuare tra la folla l’uomo della mia vita e di farne l’idolo incondizionato, seppur a tempo determinato, di tutti i miei pensieri amorosi.
Un giorno però mi successe la tipica cosa che non ti aspetti, quella che ti lascia col fiato sospeso, ti stropiccia gli occhi e dopo di questa sai che niente sarà più come prima.
Io e i miei compagni di classe eravamo stati condotti nel laboratorio tecnico, uno stanzino tre metri per cinque, arredato oltre che da sedie e banchetti, anche da uno scheletro di datazione punica (in quella scuola era tutto piuttosto vecchio, persino le scarpe della mia insegnante di francese che, in un tema, un mio amico definì risalenti al 15-18, facendo sì che l’epiteto di “la professoressa con le scarpe del 15-18” rimanesse attaccato alla malcapitata per tutto il triennio) e da un televisore con annesso videoregistratore, che a seconda della tortura del giorno, trasmetteva o registrazioni dell’ultimo SanRemo- a capirlo poi a che ci serviva rivedere SanRemo e commentare ogni singola canzone - o un film sul nazifascismo o qualche noiosissimo documentario scientifico.
Quel giorno eravamo lì per la nostra prima e ultima lezione di Educazione Stradale (fortunatamente il docente si rese conto per tempo che alcuni di noi non erano ancora capaci di distinguere la destra dalla sinistra, ragion per cui l’obbligo di precedenza e il divieto di svolta risultavano un pochetto fuori luogo).
Ricordo che non mi fregava niente di quello che stavo ascoltando (mio padre da ex-istruttore di scuola guida mi aveva insegnato a riconoscere tutti i segnali e a risolvere gli incroci già a sette anni); ricordo che, in quasi trenta, là dentro si stava davvero stretti; ma ricordo soprattutto che, nell’accingermi ad intraprendere una delle mie attività preferite, cioè scrivere sul retro dei dorsi legnosi delle sedie, che già di per loro erano parecchio imbrattati, una frase attirò la mia attenzione.
Era una frase indirizzata a mio nome e firmata con un nome corrispondente a quello del ragazzo che frequentava la seconda, il quale, fra tutti, era quello di cui in quel periodo ero più innamorata in assoluto.
La frase diceva semplicemente: TI AMO.
La mostrai felice a tutte le amichette. Che fosse per me non esistevano dubbi: in quel periodo, in quella scuola, solo io rispondevo al mio nome. Poi tornammo in classe, poi tornai a casa… ed ero ancora felice.
Ma il giorno dopo non lo ero più. 
L’amore, quella cosa buona e giusta di cui, fino ad allora, ero stata convinta di essere l’unica depositaria, apparteneva anche ad un altro e io non riuscivo ad accettarlo.
Perciò mi disamorai in tutta fretta del ragazzo di seconda e in tutta fretta mi dimenticai di quella frase.
L’amore doveva essere e rimanere una cosa solo mia e non condivisibile. E per fortuna c’erano almeno un'altra ventina di ragazzi, inconsapevoli della mia esistenza, che mi avrebbero consentito di preservare la mia intenzione.

 
 
 

°°°B_r_A°°°

Post n°406 pubblicato il 13 Ottobre 2010 da fragolozza

Prendi una di quelle sensazioni che non riesci a spiegare, perché è passato un sacco da che l’hai provata l’ultima volta. Ed è così un sacco che ti chiedi se l’avevi provata davvero o se non è più vero che ti eri immaginata tutto.

Da quando non ho più la tv, il mondo è diventato più bello di quando non avevo la radio.  Ed ora che ho di nuovo la radio, mi chiedo perché certe canzoni mi fanno commuovere immancabilmente, ogni volta che le ascolto. 

 

 

E altre mi fanno irrimendiabilmente ridere (...Così da sola vivi qua. Il letto tuo chi te lo fa?)

Per fortuna sono felice.

 
 
 

°°°capannelle_atto_terzo°°°

Post n°405 pubblicato il 11 Ottobre 2010 da fragolozza

E’ una giornata splendida splendente, sebbene il freddo dell’alba trapassi il mio giubbotto e il mio anacronistico maglioncino bianco da donna delle nevi.
Il cielo delle sette del mattino somiglia a quello del tramonto più bello che abbia mai visto, ma è più fucsia.
C’è così tanto potenziale che, per cominciare a metterlo in atto, sorrido persino alla bottiglie di birra vuote lasciate in giro da coloro che sanno che i vuoti a perdere saranno pure inutili, ma rendono le scenografie pazzesche.
Il primo intoppo è nel pensiero: i giorni importanti mi stimolano sinapsi ansiogene.
Il secondo intoppo è nei presentimenti: riuscirà la nostra eroina ad arrivare per tempo al non primo giorno di lavoro, ma a quello in cui è attesa da tutti i capi, dalla prima timbratura e dalla divisa nuova?
Il terzo intoppo è a Capannelle.
Sono sprofondata nella lettura di una delle avventure erotiche di Anaïs Nin, talmente avventurosa che gli ultimi strascichi di sonno mi chiudono gli occhi, quando mi accorgo che qualcosa non funziona.
Non ho fatto caso al tempo trascorso, ma fuori dal vetro un cavallo mi fa ciao e capisco che siamo ancora a Capannelle, quando in realtà dovremmo essere già altrove.
Mi sposto sulla poltrona/seggiola e vedo un raggruppamento di individui in prossimità delle porte del treno, che blatera e stramaledice Trenitalia.
Non si aprono le porte e non significa che non si apre UNA porta: significa che siamo letteralmente intrappolati sul treno, che peraltro nemmeno riparte. Poco male, penso… tanto ho un’ora di anticipo.
Solo che passano i minuti, solo che passano decine di minuti, solo che passa un’ora e lo stramaledetto treno non si apre e non riparte. E’ inchiodato come una zecca defunta al suo tratto di binario, il numero due, che è pure l’unico dopo il numero uno, roba che quando dagli altoparlanti viene diffuso il messaggio: “Attenzione treno in transito al binario due, allontanarsi dalla linea gialla”, a sentire l’avvicinarsi furibondo dei vagoni in transito, accompagnati da un suono di trombe pazzesco, mi metto quasi a piangere (anzi togliamo il quasi) pensando al tipo di morte idiota che mi sta per capitare.
Ma per fortuna non muoio.
Il treno in arrivo, all’ultimo momento, si sposta sul binario adiacente con strascico di fischi e rumore di libertà.
La macchinista del nostro treno- una deficiente che piuttosto che controllare il mezzo prima che partisse, al fine di evitare un guasto alla prima stazione, aveva preferito giocare a fare la strafiga con tutto il pubblico della stazione termini- passeggia tranquilla sulla banchina.
Arrivano i vigili del fuoco, fa la strafiga anche con loro e, quando finalmente le porte si aprono, ha il buon senso di rintanarsi nella sua cabina, tanto è presente in ciascuno di noi quasi duecento passeggeri il desiderio di prenderla a capate in bocca.
Comunque, scendere dal treno non è un sollievo.
Da bravi visitatori di passaggio a Capannelle ci raggruppiamo in capannelli e sembriamo dei profughi albanesi. Sembriamo una mandria di pecore ripudiate dal pastore. Persino i fantini che si allenano poco distanti ci pigliano per i fondelli.
Il mio anacronistico maglioncino bianco da donna delle nevi diventa un forno crematorio e passo la successiva ora  rimirando le campagne di Capannelle e pensando che   mai come in questo momento non ho bisogno sia necessario credere nell’esistenza di un dio per soddisfare l’esigenza di farsi mandare e mandare a farsi benedire.
Alla fine, il treno rotto viene fatto ripartire e si sottrae al nostro desolato sguardo. Alla fine cominciamo ad augurarci di essere capitati nel bel mezzo di un episodio di star-trek e che presto una navicella arriverà a portarci via. Alla fine passa un treno, ci saliamo, dopo una fermata riscendiamo, aspettiamo un altro treno, risaliamo e finalmente ciascuno arriva a destinazione.
Per la cronaca, arrivo al mio non primo giorno di lavoro, ma di presenza di tutti i capi, di prima timbratura e di prima vestizione della divisa con due ore e mezza di ritardo.
E i pantaloni mi stanno pure corti di due spanne e mi si vedono i calzini corti rosa, con disegni di fragole e ciliegie.
Devo convincermi a rivalutare l’uso dei collant.

PS: il Capannelle_atto_primo rappresentò uno dei momenti più sfigati della mia esistenza; il Capannelle_atto_secondo è stato uno dei frammenti più belli della mia esistenza. Per il meccanismo a rima alternata, la prossima volta che capito da Capannelle sarà memorabilmente felice.

 
 
 

°°°slancio°°°

Post n°404 pubblicato il 01 Ottobre 2010 da fragolozza
 

Del resto, rientra nei rischi del mestiere, pensò. E lo pensò così intensamente che quasi arrivò a crederci sebbene nel suo caso non si potesse parlare né di rischio, né di mestiere.
Un rischio è rischio finché resta tale, cioè quando si configura come una probabilità, come una minaccia e non come verificabilità o certezza. Quanto al mestiere, non era certo bella quanto Shannon, al punto da arrivare a spararsi in faccia per riacquisire una giusta consapevolezza della propria dimensione.
Doveva però ammettere con se stessa che, sebbene non facesse la strafiga di mestiere,  l’immagine che le restituiva lo specchio, nella forma di una figura slanciata e quasi sinuosa, valeva la candela.
Ciack… Click… Cheese… immortalando bellezza e attimi fuggenti.
Ciack… Click… Cheese… fermando la corsa del tempo che non casca, ma che, correndo troppo, fa cascare braccia e mento e pancia e seno e cosce e vita.
I primi cinque minuti furono d’impatto.
Poi…
Poi impattò nel rischio temuto e quando il motivo di tanto orgoglio, quel tacco diciassette slanciante, strabiliante e rivitalizzante, causa di sguardi e onore e ammirazione, le si staccò da un piede, costringendola in una brutta posa da bella statuina, paralizzata da un imbarazzo mortificante, infoiata dalla sola necessità di chiamare soccorso, che fosse anche quello del padre che avvicinandosi le avrebbe chiesto: “E adesso? Vuoi che ti presti la mia scarpa?”, tornando indietro dimentica degli sguardi e dell’onore e dell’ammirazione, come una cenerentola scalza, ma senza principe di fianco, capì.
Perché sfilare per la piazza del paese, con tutti gli occhi puntati addosso, non ha prezzo. Ma evitare di risparmiare sulle scarpe, per risparmiarsi una figura di merda, un prezzo potrebbe averlo.

 
 
 

°°°fobie°°°

Post n°403 pubblicato il 16 Settembre 2010 da fragolozza
 

Aveva un alito assassino, un alito che, se avesse avuto la facoltà di agire, avrebbe organizzato una manifestazione appannaggio dell’introduzione degli isocianurati nell’igiene orale.
Si conciliava ad una fantasia bucolica, contraddistinta da arbusti a forma di spazzolino, fiumi di colluttorio e siepi di salvia e menta, favorita anche dal modo ipnotico in cui il tizio si ciondolava prima su un piede poi sull’altro.
Se avessi mostrato maggiore attenzione per i suoi movimenti, sarei giunta alla conclusione di aver incontrato un individuo altamente a rischio di un disturbo di conversione, ma ero così presa dal mio sogno aromatizzato allo xylitolo da riservargli un’indagine veloce e superficiale.
Era apparentemente insicuro, ma intimamente convinto- e lo si intuiva dalla procidenza degli occhi- che mancava poco a che, sollecitata magari da un arcano segnale celeste, io lasciassi il suo fiato devastare il mio, in quel frangente impegnato a rimandare il momento e a fondersi pacificamente col fumo di una sigaretta e con i gas di scarico delle automobili che mi passavano accanto.
Non era stata una mia idea, anzi quando la mia analista mi aveva suggerito che una delle soluzioni atte a superare tutte le mie paure sociali messe insieme (riteneva soffrissi di afefobia,biofobia,  antropofobia, agorafobia e nei momenti di crisi acuta pure di autofobia) consisteva nel liberarmi dalle consuetudini, assecondando la mia consapevolezza di non essere completamente a posto con comportamenti che non fossero parimenti completamente a posto, ero rimasta perplessa.
Versare un onorario settimanale di 115 euro per sentirmi dire che il mio ritorno alla normalità passava attraverso i sentieri dell’assurdità era un ossimoro persino per me che ormai ero abituata a pensare per contrasti ma, poiché a rifletterci troppo mi stava venendo pure la decidofobia, mi decisi a tentare e così lasciato lo studio, mi chiusi la porta alle spalle, zompettai  sui gradini di 5 rampe di scale e mi precipitai in strada, assolutamente determinata a mettere da parte, per tutto il tempo in cui ci sarei riuscita, l’avversione agli imprevisti e ai fallimenti (che la mia analista avrebbe giustamente definito cainofobia e atychifobia).
Ed ora me ne stavo lì a distanza di sicurezza, ma non troppo, dall’uomo contro il quale ero andata inavvertitamente a sbattere e al quale avevo stupidamente detto che morivo dalla voglia di baciarlo. Ovviamente non era affatto vero: il mio era solo il primo tentativo di restaurare un collegamento diretto tra pensiero pensato e pensiero parlato, per poi verificarne e analizzarne le conseguenze, ma come potevo spiegarglielo?
Nemmeno il tempo di verbalizzare quell’idea malsana e lui aveva provato ad attirarmi a sé, dicendo: ”E cosa aspetti piccola?”
Era allora che lo avevo sentito.
Il suo alito era così orrendo che di primo acchito dava l’impressione di essere caduti accidentalmente in una fossa biologica. A respirarlo più intensamente, però, la prospettiva s’infittiva: non era una semplice fossa biologica, era la fogna in cui viveva  It e nella quale erano fluiti la pipì dei morti viventi, la cacca degli Sgorbions e persino il vomito verde di Regan. Ed io a malapena riuscivo a tenermi a galla, immaginando il pronto intervento del capitano di “pasta del capitano”.
“Guardi- gli dissi- c’è un errore… anzi no, non è un errore. E’ che io sono matta. Vede quel palazzo laggiù? Ecco, lì c’è il mio medico. Sono affetta da sindromi maniacali di ogni genere, forma e sorta. Sono psicolabile, sono malata. Faccia conto che non sia successo niente, anzi… mi scusi. Le chiedo scusa e le auguro una buona giornata.”
L’uomo si allontanò alla svelta. A passo veloce lo vidi percorrere qualche metro di marciapiede per poi attraversare la strada e svanire dalla mia visuale.
Mi rimasero le mie fobie, alle quali per un attimo si era aggiunta anche l’emetofobia, ossia  la paura di vomitare, e mi chiesi se, qualora quell’uomo avesse avuto un miglior  rapporto con il suo dentista, mi sarei davvero liberata dai timori e da quella ladra della mia analista.

 
 
 

***catatonia***

Post n°402 pubblicato il 15 Settembre 2010 da fragolozza

L’interrogativo attraverso l’occhio dilatato di chi m’interroga perde ogni sua efficacia.
Graffia, gratta, sgretola e se ti serve prendi pure a calci: io resto il solito, vecchio e sgangherato muro di gomma, la cui piuma, più di gallina che d’oca, stavolta resta nascosta sotto i cuscini su cui non dormo, ma nemmeno penso.
Eppure, a dispetto dell’ostinata premura con cui si osteggiano le eventuali controindicazioni cui dovrei far fronte, io reagisco con alzate di spalle, dura ma non indurita nelle pose, anzi quasi dinoccolata, come quell’albero a lungo infestato che finalmente si liberi dell’edera infestante.
Ne viene fuori l’illusione di un alter ego, più pulito ma non per questo smacchiato, dalla mia coscienza cosciente, che da brava incosciente, finora avevo ignorato.  E non ci sarebbe nulla di male, se l’impressione non fosse quella derivante da un’improvvisa e spiacevole sorpresa che in effetti improvvisa non è o da un inaudito e insormontabile sconforto, che in effetti insormontabile non è.
C’è chi la chiama delusione, io la chiamo catatonia.

tu sei uno degli errori di Dio
tu, piangente tragico spreco di pelle
sono ben consapevole di quanto faccia male
e tu continui comunque a non farmi entrare
adesso sto buttando giù la tua porta
per provare a salvare il tuo viso gonfio
sebbene tu non mi piaccia più
tu, bugiardo insopportabile spreco di spazio

 
 
 

°°°alfa_beta_gamma_delta°°°

Post n°401 pubblicato il 03 Settembre 2010 da fragolozza

Colleziono solo momenti dimenticabili perché quelli indimenticabili me li perdo troppo in fretta.

E’ per quella tua dannatissima necessità di dare un senso a tutto che a volte ti ritrovi così, col naso per aria e le mani in tasca a chiederti, quasi fosse una cosa normale, quanto di ciò che fai somiglia a ciò che sei o piuttosto quanto di ciò che sei non sia il risultato di ciò che fai.
Perché tu scopri dannatissime analogie ovunque.
E non è dunque un caso se tra tutti i modi in cui potresti sentirti adesso, tu scegli di sentirti alla maniera di una vocale tematica, ma non di una qualunque (sarebbe troppo semplice).
No.
Tu vai a sceglierti la vocale tematica di un dannatissimo nome neutro in dentale che persa la consonante finale, non la sostituisce con il SIGMA e nemmeno si allunga per compenso.
Se ne resta mutilo e a malapena bisillabo.
Ma forse è perché sai che persino le consonanti mute sono più simpatiche di te.

 
 
 

***vertigini***

Post n°400 pubblicato il 29 Agosto 2010 da fragolozza

Da lassù la città era solo un tappeto, di cui poteva calpestare grossi tratti, semplicemente tenendo fermo uno dei due piedi, arrestandolo per qualche attimo al continuo ciondolare.
Anche la luce più infinitesimamente piccola, a fissarla, avrebbe illuminato qualcosa.
Anche la stella più galatticamente lontana, a considerarla, avrebbe riempito uno spazio.
Ma in quel momento avrebbe avuto un senso?
L’uomo la colse di sorpresa, raggiungendola alle spalle, scavalcando il parapetto e sedendosi al suo fianco. Non la guardò, non la toccò, non la considerò. Rimase lì come non ci fosse mai stato.
E si chiese quanto, scrutato da quattro occhi piuttosto che da due, il buio fosse meno buio.
E si chiese quanto stupida sarebbe ancora potuta diventare fingendosi saggia invece che più semplicemente ammettere con se stessa che anche da lassù la città non era altro che un crogiuolo di ricordi e panchine e sassi che l’avrebbero seguita a prescindere da quanto alto fosse il punto a cui sarebbe mai giunta.
Ma in quel momento lui le prese la mano. Vieni con me- le disse- qui fa troppo freddo.

*Per gli sfigati: finale A
*Per gli incompresi: finale B
*Per  i pessimisti: finale C
*Per gli ottimisti: finale non pervenuto.

 

Finale A
Allora sei con me?- lei gli chiese, sorridendo e scostandosi dal viso i capelli mossi dal vento. La mano, stretta a quella di lui, le comunicò sensazioni di pace e per provarne ancora, per provarne di più forti, provò a  farglisi incontro così da poterlo abbracciare. Solo che fu poco attenta e, perso l’equilibrio, precipitò nel nulla, chiedendosi almeno un milione di volte, prima di sfracellarsi al suolo, come sarebbe andata se non fosse stata tanto sciocca da fidarsi anche stavolta.

Finale B
La ragazza non rispose. L’uomo aspettò le sue parole, aspettò un cenno, aspettò un rifiuto. Ma niente. La ragazza si limitò a fissarlo, quasi fosse spaventata.
Se avesse saputo che era sorda, l’uomo non avrebbe di certo impiegato tanto tempo prima di andar via, ma non lo sapeva e fu per questo che si beccò tre minuti di freddo talmente intenso da valergli l’influenza dei
giorni a venire e almeno dieci milioni di maledizioni per la stronza seduta sul parapetto e che probabilmente lo aveva scambiato per un maniaco.

Finale C
Hai ragione- disse lei, scavalcando il parapetto e seguendolo lungo il sentiero che li avrebbe ricondotti a casa.
Niente sarebbe cambiato, niente sarebbe migliorato.
E girato il primo angolo ebbe la certezza che il mondo non è affatto rotondo.
Il mondo è una scatola quadrata e scalarne le pareti serve solo a fare più strada quando si torna indietro dopo che si è constatato che, al di là di esso, non c’è assolutamente nulla che valga la pena uscire fuori a cercare.

 
 
 

°°°mirtilla°°°

Post n°399 pubblicato il 21 Agosto 2010 da fragolozza

Per il ciclo “la fattoria degli animali”- puntata n°2…

L’avevamo chiamata Mirtilla.
In verità l’avevamo proprio battezzata, non nel senso che avevamo chiarito il suo nome, ma nel senso che una domenica di luglio di quel periodo in cui mio fratello si era convinto che da grande avrebbe fatto il vescovo, mentre io già davo segni che da grande avrei fatto l’idiota, organizzammo un vero e proprio battesimo.
Fu una cerimonia così perfetta, con tanto di libretti per la messa, acqua santa, invitati, dolcetti e bomboniere, che ce ne saremmo tutti volentieri dimenticati, tranne E. T., che non era un extraterrestre, bensì un ragazzo di nome Enzo Tortora (da notare il cognome in tema), che qualche anno dopo, incontrandomi, mi disse: “Ti ricordi di me? Sono un amico di tuo fratello ed ero tra gli invitati al battesimo del gatto”.
Insomma, nonostante tutto, rimase una circostanza memorabile, con mio fratello che faceva da officiante ed io che tenevo la gattina tra le braccia, la quale, per l’occasione indossava un completo corpetto all’uncinetto e gonnellina a fiori, rigorosamente cucito dalla sottoscritta.
A credere a Brian Weiss, autore di “Molte vite, un solo amore” (ma si può leggere un libro che si intitola così, senza uscirne male? Credo di no.) si potrebbe pensare che le mie abilità sartoriali fossero segnale di una precedente esistenza nei panni di Coco Chanel. Sta di fatto che avevo preparato con i veli dei confetti, anche un copricapo, solo che Mirtilla non ne volle sapere di indossarlo ed io lo tenni da parte per la comunione.
Comunione che non ci fu mai perché, benché l’avessimo liberata dal peccato originale, Mirtilla continuava a comportarsi da gatto, saltando sui mobili e  in particolare su quelli della cucina e in particolare quando c’erano le pentole sul fuoco, perciò mia madre decise che non potevamo più tenerla e la regalò a sua zia.
Provammo a riprendercela. Una sera che eravamo andati a trovarla, infatti, io e mio fratello la infilammo nell’auto, solo che prima che andassimo via, la malvagia zia di mia madre se ne accorse e chiese che gliela restituissimo.
Dopo quella sera non la rivedemmo più. E così Mirtilla non solo si perse la comunione, ma anche la cresima, il matrimonio e persino la sacra unzione.

 
 
 

***pippo***

Post n°398 pubblicato il 13 Agosto 2010 da fragolozza

“Passer mortuus est meae puellae,
 passer,
 deliciae meae puellae”

La scomparsa di Pippo, passero (ma forse canarino o cardellino o, nell’incertezza, più semplicemente uccello) di casa, che dopo quattro anni di venerabile carriera canora, esibita sul balcone con particolare dovizia, anche nelle circostanze meno adatte, tipo cortei funebri, processioni di santi e orari da pennichelle,  spalancava scenari di fitto mistero.
La gabbietta vuota, le piume sul pavimento della cucina e la finestra non del tutto chiusa, tracciavano la pista più probabile: Pippo era evaso, aveva svolazzato un po’ per casa e poi se n’era andato. E forse mortuus erat.
Ma la realtà era diversa.
Testimoni raccontano che il passero, gaudente e sorridente per l’inedita libertà, dopo una vita di cattività, mercoledì pomeriggio si sia lanciato dal balcone convinto che, per il semplice fatto di avere delle ali, sarebbe riuscito ad emulare le rondini.
La forza di gravità però ha avuto la meglio e Pippo, piuttosto che librarsi felice nell’aria, è atterrato miseramente sul marciapiedi antistante la macelleria sotto casa.
Il macellaio, anima pia, che avrebbe potuto decapitarlo, spennarlo, sventrarlo, e infine venderlo, facendolo passare per una mini-quaglia, ha avuto pietà e lo ha raccolto.
A quel punto, come si conviene nelle storie normali, Pippo sarebbe dovuto tornare a casa, nella sua legittima gabbia, a riprendere le sue normali attività di passero domestico.
Ma la realtà è più inquietante.
Il macellaio, incerto sulle generalità dell’uccello ritrovato, lo ha affidato ad una famiglia di vicini che, invece, le generalità del passero le conosceva benissimo, ma che ciononostante non ha repentinamente provveduto alla restituzione.
L’ipotesi è che la suddetta famiglia, inizialmente indifferente all’affido, abbia subito dopo maturato l’idea di un sequestro, magari pure con richiesta di riscatto.
Ma il loro piano è andato a monte perché stamane, dopo che mio padre ha casualmente incontrato il macellaio e ha dunque scoperto la verità, la mia mamma si è recata dai vicini (che nel frattempo la incrociavano, la salutavano e le parlavano di tutto, tranne che del passero), ha reclamato la restituzione ed ha finalmente riportato Pippo a casa.
Tutto è bene quel che finisce bene.

Morale della storia: non si rubano i passeri degli altri!

 
 
 

*°*vecchi_sapori*°*

Post n°397 pubblicato il 13 Agosto 2010 da fragolozza

So che, per prima cosa, dovrei superare l’impatto dell’eccezione e riprendere i contatti con la regola.
Capisco che, soltanto dopo questo sforzo, sarò in grado di recuperare, come fuori da un’apnea, il respiro e, come fuori da un tunnel, la luce.
Spero che, al di là del bene e del male, in quello spazio cioè intermedio quale di né carne né pesce- semmai di pomodori e frutta fresca- tutto quello che ho sperato, saputo e creduto, si ricongiungano e acquisiscano la forma di una soddisfazione reale e, almeno per un attimo, niente affatto potenziale (a dispetto di un eccessivo abuso del congiuntivo, dall’effetto mai esortativo e mai, soprattutto, congiungente).
Ma sapere, capire e sperare valgono a niente quando si deve agire, realizzare e, in ultima istanza, percepire, con chiarezza e cognizione di causa, ciò per cui ci si accinge ad agire, realizzare e percepire.
Perché io a volte non ne ho idea.
Sembra sia tutto casuale e fatidico, mentre attraverso la strada col rosso e, poco distanti, poche cifre sfuggono all’osservazione e mi catapultano in un altrove di cui conosco il solo nome.
E poi c’è l’acqua, la piazza, la carta, la borsa, la penna e persino troppo sole.
Sale di lacrima e alla bocca ha il mio sapore: quello perduto, ripudiato, non voluto.
Al primo segno tuttavia riconosciuto.
Perché la forza è soltanto un vestito e la vera fibra è sempre e solo debolezza?

 
 
 

°°°but_not_for_me_and_you°°°

Post n°396 pubblicato il 12 Agosto 2010 da fragolozza

Riflessione Narcolettica
Gli amici nel momento del bisogno sono solo persone che godono una cifra a vederti nella “merda”.
Personalmente preferisco chi se ne frega.

 

 

 

“Obbligato a farcela ad ogni costo, mi sento emaciato.
E' difficile respirare io provo e riprovo, rimarrò asfissiato.
Spenzolando dalle cime più alte, senza aver lasciato niente a cui aggrapparsi.
Ogni cielo e' blu, ma non per me e per te. Torna a casa, torna a casa, torna a casa, torna a casa.
Bicchiere e benzina vodka gin, è come respirare metano.
Ti getti da un corpo all'altro, e tuttavia non sembra lenire il dolore.
Svanisce come una traccia di rossetto, mi spazza sempre via.
Ogni nuvola e'grigia, con i sogni di ieri. Torna a casa, torna a casa, torna a casa, torna a casa, torna a casa, torna a casa, torna a casa, torna a casa.
Tutto va al contrario, e posso provarlo e smentirlo.
Dai a una scimmia un mezzo cervello e tuttavia finirebbe per friggerselo.
Ora il momento culminante è defunto, volevo essere lì anch' io.
Ogni cielo e' blu, ma non per me e per te. Torna a casa.”

Cit. Brian Molko

 
 
 

***cadere_in_alto***

Post n°395 pubblicato il 09 Agosto 2010 da fragolozza

Cadere per le scale non è affatto qualcosa di cui rammaricarsi. I gradini sono soli, terra terra e calpestati. Quante volte hanno la possibilità di entrare in contatto con zone del nostro corpo diverse dalle piante dei piedi? Cadere per le scale è, dunque, un atto di estrema generosità… verso i gradini.

Il motorino gli si è ribaltato subito dopo la curva, in quel tratto di strada che di solito percorriamo sbadatamente, ma che stavolta imbocchiamo alla velocità giusta per accorgerci in tempo dell’ostacolo e non finirgli addosso.
Madama Butterfly se ne sta sul ciglio della strada, fuori dal suo negozio, a braccia conserte insieme a un paio di compari.
La scena è piuttosto surreale: ci sono un uomo a terra, una moto capovolta, un paio di auto ferme, una decina di spettatori e nessuno muove un dito per risolvere la faccenda.
Dopo un attimo di smarrimento, ci scaraventiamo fuori dall’auto. Io mi allontano (malferma e claudicante dato il precedente incontro ravvicinato coi gradini di casa) a controllare l’accesso alla curva qualora qualcuno, meno prudente di noi, non decida di piombarci addosso.
Bastano pochi minuti- basta poco che ce vo’?- e l’uomo è di nuovo in piedi, è di nuovo in sella e di nuovo sbanda. Ma almeno è in piedi.
Rimontiamo in auto e passiamo davanti a Madama Butterfly che ci fa: “Non avreste dovuto aiutarlo, è un pericolo pubblico, è un ubriacone”. Praticamente, secondo Madama Butterfly e la sua finta erre moscia da finta origine francese, anziché andare a lavorare, oggi avrei dovuto trascorrere il pomeriggio a scommettere su quanto tempo il pericolo pubblico-ubriacone-steso a terra-e sanguinante da un piede avrebbe impiegato da solo a sgomberare la strada.
Per la cronaca, Madama Butterfly è una stronza che incontro tutte le mattine e che tutte le mattine mi lancia occhiate schifate. Per la cronaca, Madama Butterfly ha un negozio di carta, anche igienica. Per la cronaca, nella vita forse non tutto è a caso, cadute e carte igieniche comprese.

 
 
 

°°°varchi°°°

Post n°394 pubblicato il 04 Agosto 2010 da fragolozza

Sono l’unica che si divora le unghie, mentre non attendo nessuno, né mi faccio attendere da qualcuno e giusto per rendere più movimentata la situazione o per darle un senso, decido di farmi un giro nel metal detector che confina l’accesso al ritiro bagagli smarriti.
Sento di essere diventata di ferro e mi aspetto che ne venga fuori un allarme a mo’ di musica da discoteca, ma la verità è che sono ancora tristemente di carne e l’unico suono che ne viene fuori è la voce irritata dell’addetto ai controlli che mi rispedisce di là della soglia a rimirare i turisti che atterrano con le facce smorte di chi ha fatto vacanza ma vorrebbe farne ancora o di chi è appena tornato, ma vorrebbe partire ancora.
Eravamo usciti di casa perché io dovevo passare in farmacia a comprare quel miracoloso prodotto drenante che, su di me, sortisce l’unico miracoloso effetto di farmi conoscere tutti i bagni pubblici di Roma, quando abbiamo incontrato la mia vicina/vicino che ci ha chiesto se le facevamo il favore di accompagnare una sua amica/amico in aeroporto a ritirare una valigia.
“Mica è una cosa illegale? Mica mi arrestano?” le ho chiesto.
“No che non ti arrestano!”
“Ok, allora falla salire che andiamo!” le ho detto, anche se inconsciamente speravo che mi rispondesse di sì, visto che in qual caso avrei avuto: a) un motivo per dire di no e tornare subito a casa a dormire; b) un motivo per essere arrestata e chiusa subito in una cella in cui avrei potuto dormire.
L’amica/amico della mia vicina/vicino non parla in italiano, ha la cittadinanza spagnola, si chiama Cartagena, come la città di Efraim, e mi insegna che nella sua lingua domenica si dice domingo.
E allora penso a quanto sia fortunato Placido Domingo anche solo a chiamarsi così, visto che da un po’ di tempo a questa parte io non riesco nemmeno a pronunciarla una placida domenica , né tantomeno un placido lunedì, presa come sono da scapicollamenti infra,ultra, e multi settimanali che mi hanno alterato la percezione temporale al punto che mi verrebbe da riscrivere il Poema Sulla Natura di Parmenide (là è la porta dei sentieri della Notte e del Giorno, con ai due estremi un architrave e una soglia di pietra; e la porta, eretta nell'etere, è rinchiusa da grandi battenti) e correggerlo, dato che  nel mio caso la porta che separa il giorno dalla notte e la notte dal giorno ha perso i suoi battenti ed è praticamente diventata come il varco d’accesso ai controlli di Fiumicino, cioè quasi incapace di tenere distinta una parte dall’altra.

PS: comunque, alla fine, l'amica/amico della mia vicina/vicino ha trovato la paletta o manetta o come cacchio si dice valigia in spagnolo e, poiché in tutto questo, non ho più avuto modo di passare in farmacia, un giorno di riposo almeno dai bagni pubblici, riuscirò a prendermelo.

 
 
 

***gli_ultimi_sogni***

Post n°392 pubblicato il 22 Luglio 2010 da fragolozza
 

Il cuore rallenta.
Lo immagino strisciare, piuttosto che battere, come l’animale che tutte le sere incontro sulla porta di casa e che io chiamo lumaca, però non è una lumaca, perché è vermiforme e ha gli occhi sulle corna, è  nero, brutto, ma a differenza delle lumache non si porta dietro nessun guscio.
Con una mano stringo la stoffa del cuscino.  L’altra, all’altezza del fianco, accarezza la ruvida trapunta, incapace di spostarsi oltre a raggiungere l’altra, per insieme congiungersi a mo’ di gesto di preghiera.
Per lungo tempo ho creduto che i suicidi, nell’arco temporale che separa il gesto che la determina e la morte in sé, avessero visioni nitide della vita che sarebbe potuta essere, se solo avessero avuto la pazienza di resistere altri cinque minuti. Visioni che ne avrebbero determinato l’espressione cadaverica, serena in caso di nessun rimpianto, atroce in caso di troppe rinunce.
Io non vedo niente di trascendentale. Vedo i pallini della federe dilatarsi e restringersi quasi fossero pupille soggette a veloci giochi di luce.
E rivedo me stessa, compiere i miei gesti in maniera avventata e veloce; la bottiglia di whiskey da sette euro in cui ho svuotato quattro bustine di antinfiammatorio in granuli; il blister di plastica e carta d’alluminio a cui ho sottratto quattro pasticche di barbiturico giallo.
Nel palmo della mano che ora stringe il cuscino ho tenuto le pillole, con l’altra ho sollevato il whiskey ed ho brindato alla mia fine del mondo.
Aspetto che mi passi la voglia di riaprire gli occhi. Aspetto che mi venga sonno. Credo non ci vorrà molto.
Chissà come sarà non svegliarsi o svegliarsi altrove.
Sorrido perché ho smesso di pensare ai miei perché anche se, ora che penso a quanto è buffo non pensarci, i miei perché assumono dimensioni irrilevanti.
Allora è questo che si prova!
Sapere per certo di essere in punto di morte, a un certo punto, non solo mette fine alla paura di morire, ma anche al desiderio di morire.
Io non lo so se ho ancora voglia di morire e non m’interessa.  Non sono più così lucida per deciderlo. Sono in quella fase di sonno incerto in cui il pensiero razionale si trasforma in sogno irrazionale.
Quando ci si addormenta di colpo non ci si fa caso. Ma quando  ci si addormenta con difficoltà, capita spesso che dopo un primo brevissimo sonnellino ci si risvegli chiedendosi: “Se  ho chiuso gli occhi desiderando e immaginando di stare alle Maldive con Jude Law, com’è che ora stavo sognando di essere al supermercato travestita da clown?” Cose così…
Ma se questi fossero i miei ultimi sogni, non sarebbe meglio se fossero belli?

PS: poichè talvolta scrivo cose che a qualcuno provocano infarti, ebbene... questo non è un diario. peace and love!

 
 
 

°°°intuito°°°

Post n°391 pubblicato il 09 Luglio 2010 da fragolozza

E’ più difficile trovare un lavoro probabile o è più facile trovare un lavoro improbabile?


Che presentarsi ad un colloquio di lavoro indossando una maglietta con su stampata l’immagine della foto qui sopra non era proprio l’ideale, me ne sono resa conto solo quando l’insolazione ha cominciato a fare i suoi effetti.
L’asfalto dei marciapiedi si liquefa sotto i miei passi, ma tutto rientra nei piani. Sono così consapevolmente convinta che sia il lavoro adatto a me, che anche il mio inconscio, per dimostrarmelo, mi fa inconsapevolmente uscire di casa dimenticandomi dell’indirizzo al quale mi devo recare. Del resto, se proprio devo fare l’investigatore privato, tanto vale fare le prove cominciando con la ricerca della società ed io me la sono cavata egregiamente, girando a vuoto soltanto per un kilometro in più.
E quando finalmente sono arrivata ed ho scoperto che la persona con cui dovevo colloquiare indossava una maglietta con su stampati i PUFFI che, a confronto, la mia impallidiva, allora è stato ufficiale: è il lavoro per me!

Ho sempre avuto intuito nella ricerca delle cose e delle persone che volevo trovare.
Come quando cominciai a cercare Luca Carboni, perché volevo sposarlo.
Sapevo che per riuscirci avrei prima dovuto parlare con lui al telefono, visto che, a undici anni, prendere un treno e andare a Bologna per incontrarlo mi sarebbe stato un po’ difficile.
Perciò dopo aver accuratamente studiato il testo delle sue canzoni, scoprii il nome di suo padre.
Perciò dopo aver scoperto il nome di suo padre, andai al centralino e chiesi l’elenco telefonico di Bologna.
Perciò dopo aver trovato nominativo e numero, convinsi mio fratello a chiamare (io sarei stata troppo emozionata per riuscire a dire qualcosa di sensato al mio futuro suocero).
Mio fratello aveva otto anni e a otto anni i bambini al telefono hanno tutti la voce da femmina, anche se sono maschi.
Il padre di Luca Carboni fu molto gentile. Dopo aver confermato di essere il padre di Luca Carboni e dopo che mio fratello gli chiese se poteva passargli Luca, lui rispose: “Certo, piccolina!”
Mio fratello mi mollò la cornetta e così, quando finalmente nel ricevitore tenuto incollato all’orecchio, sentii quel ”Pronto, pronto… ciao…” in voce lucacarbonesca, riuscii a rispondere solo con un timido ciao e a riagganciare, perché mio fratello non la smetteva di blaterare, tant’era incazzato per essere stato scambiato per una bambina.
Forse questa non è la prova che sono una brava investigatrice (al massimo una brava rompiballe). In fondo, non ho ancora sposato Luca Carboni. Ma la verità è che non è che desidero poi tanto sposarlo ancora. E penso che la ricerca sia fallita solo per questo.

 
 
 

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Le cloache di notte somigliano
a fiumi nascosti.
Scommetti che a perdere il cuore
guadagni più spazio?
Sul banco dei pegni
ho impegnato
il mio ombretto di rosa.
Palpebre nude non chiudo
per cogliere il resto
di quello che resta
sul conto in sospeso
dei nostri sospesi.

Le formiche al tramonto ricordano
grani di pepe.
Sai contare al contrario, partendo
da cifre irrisorie?
Sotto l’arco
s’inarca in trionfo
la triade imperfetta.
Me stessa, quell’altra o la stessa
si chiudono a riccio.
Per capriccio
mi cavo d’impiccio.
Mi sento di troppo.

 

 

 

 
 

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