Creato da sanavio.stefano il 09/01/2010

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Accadde quarant'anni fa: Lou Reed "Transformer"

Post n°52 pubblicato il 22 Novembre 2012 da sanavio.stefano

Che dire di Lou Reed dopo che sono stati scritti libri e articoli su vari magazine e giornali dagli anni sessanta ad oggi senza risultare scontato, pedante e ripetitivo? La prima cosa che mi viene in mente l’ho letta non molto tempo fa su una rivista specializzata ed enunciava più o meno il seguente concetto: Lou Reed meriterebbe il massimo rispetto anche se pubblicasse un disco di sole scoregge. Grande dichiarazione ironica ma neanche tanto poi, che sottolinea l’immenso rispetto dovuto a una credibilità inossidabile che il nostro si è guadagnato da tanto tempo a questa parte. Per dire la verità un disco di ‘scoregge’ il nostro lo ha persino pubblicato, di ‘scoregge elettroniche’ trattasi, era il lontano 1975 ed il disco di chiama “Metal Machine Music”, la musica della macchina metallica, un doppio contenente quattro facciate di rumori di sintetizzatori portati all’eccesso dalla mente paranoica del giovane Reed, un disco che qualcuno ha persino osannato quale gesto rumorista estremo, sta di fatto che molti degli acquirenti a suo tempo per un attimo insultarono giustamente l’ex Velvet Underground per aver acquistato una doppia ciofeca. Poco male perché re Lou avrà altre occasioni per farsi perdonare. 
Classe ’42, appartenente alla ricca borghesia ebraica stabilitasi a Brooklyn, il giovane Lou conosce il dramma del trattamento forzato sotto forma di elettroshock a causa delle sue presunte fantasie omosessuali più o meno dichiarate ai genitori. Al liceo inizia a strimpellare il pianoforte senza applicarsi a dovere perché è la chitarra lo strumento che ha catalizzato la sua attenzione e che lo entusiasma, alla prima lezione mostra all’insegnante un 45 giri di Carl Perkins e chiede di mostrargli gli accordi per suonarlo. Inizia a scrivere canzoni che annota sul suo inseparabile taccuino insieme ai versi poetici che provengono dalla sua sensibilità di artista. Si iscrive alla Syracuse University perché è il college più lontano da casa sua, una città nella città con ventimila studenti e duecentocinquanta ettari di campus, Reed studia musica, letteratura e poesia. Ed è il destino nel 1962 a far arrivare al campus il nuovo insegnante di scrittura creativa Delmore Schwartz, geniale scrittore in fase decadente, malato di paranoia e di protagonismo che prende sotto la sua ala protettiva Lou Reed, il quale dichiarerà anni dopo ‘è stato il mio padrino spirituale’. La sua influenza poetica nei confronti del futuro leader dei Velvet sarà fondamentale, gli indica la direzione creativa in Ginsberg e nella beat generation. Ben presto coniuga la poetica in versi di canzoni che mette a disposizione della sua band, gli LA and the Eldorados, assieme all’amico Allen Hyman, e conosce altri due studenti: tali Sterling Morrison e Joe Tucker, fratello di Moe, futura batterista dei Velvet Underground. Ma è un altro incontro che cambia definitivamente la storia del rock: quello col gallese John Cale arrivato da oltre oceano grazie a una borsa di studio per il conservatorio dal quale è stato espulso e che sbarca il lunario collaborando con lo sperimentatore La Monte Young. Nasce così una nuova band, i Primitives (no, non quelli con Mal), con Reed, Cale, Morrison e Angus Mc Lise alla batteria; quest’ultimo è un tipo talentuoso ma un po’ suonato, allergico alla disciplina, capace di arrivare in ritardo alle esibizioni e andarsene dopo che i compagni se ne sono andati già a casa da un pezzo. Insomma un vero pazzoide, che però ha il merito storico di trovare a casa di un amico un libretto di Michael Leigh chiamato “The Velvet Underground” con in copertina fruste, stivali in pelle e vari attrezzi e proporlo come nome definitivo al resto della band. Comunque Mc Lise se ne va e per fortuna che si ricordano della sorella del loro amico Joe, Maureen Tucker che a casa si esercita con i tamburi. Detto fatto, avviene l’avvicendamento e nasce la band che segna il nuovo corso del rock. 
Inizia la leggenda dei Velvet Underground legata a Andy Warhol (produttore nominale che non capisce niente di musica ma che trova contatti e date per le loro esibizioni) e la Factory, la dea algida Nico imposta come voce femminile alternativa a Reed e Cale, l’exploding plastic inevitabile, lo spettacolo che dovrebbe accompagnare i concerti della band e che comprende balletti, luci stroboscopiche e scene al limite delle pratiche sadomaso, con la band che suona dando le spalle al pubblico. Una rivoluzione che nell’anno 1966 sfocia già in un disco, il fondamentale “The Velvet Underground and Nico” che verrà pubblicato solamente l’anno dopo, un disco che anche dopo oltre quarant’anni sprizza energia ed emozioni da ogni solco. Dopo la fine del sodalizio con Warhol esce lo stesso anno il secondo “White light white heat”, altrettanto fondamentale, col suo rumore bianco che ispirerà decenni dopo tali Sonic Youth, poi Lou Reed caccia John Cale perché si rende conto che due egocentrici di tale portata non possono stare a lungo sotto la stessa ragione sociale. Ancora un album stupendo quello che esce l’anno dopo, il terzo centro, con Doug Yule che rimpiazza Cale, le sonorità si ammorbidiscono, diventano quasi celestiali dopo il marasma che lo ha preceduto. Arriviamo al capolinea della band, nel ’70 quando esce il quarto disco “Loaded” Reed se n’è già andato, sfibrato dalla frenetica vita newyorkese, rinuncia alla sua creazione e si appresta ad iniziare una fortunata carriera solista. Per la RCA nel ’72 pubblica il suo primo disco composto in larga parte da materiale dei Velvet con riletture interessanti, però sul disco pesa la produzione piatta di Richard Robinson e l’accompagnamento di una band che poco ha da spartire musicalmente con l’artista, ci sono persino Steve Howe e il suo tristo compare Rick Wakeman, in libera uscita dagli Yes. Per fortuna che lo stesso anno grazie al suo compagno d’etichetta David Bowie ha subito l’opportunità di riscattarsi. 
Novembre 1972, quarant’anni fa esatti esce “Transformer”, il secondo album solista e primo capolavoro firmato Reed e prodotto da Bowie, vi figurano alcuni dei pezzi che lo  renderanno immortale: “Walk On the Wild Side” inconfondibile pop song venata di jazz col basso in primo piano che parla dei personaggi conosciuti alla Factory quali Holly Woodlawn, Candy Darling, Joe D’Alessandro, poi “Perfect Day” resa famosa dal film “Trainspotting” nell’indimenticabile scena in cui il protagonista letteralmente sprofonda dopo l’ennesima ‘pera’, “Satellite of Love” dolce senza scadere nello sdolcinatezza, l’iniziale “Vicious” con quella chitarra tagliente che asseconda la voce perversa di Reed, “Hangin’ Round” che omaggia il glam di Bowie, e ancora “Andy’s Chest”, “Wagon Wheel” fino allo scherzo conclusivo di “Goodnight Ladies”. Dopo questo disco Lou non sarà più lo stesso, ha in mente un’opera rock decadente ambientata nella colta Berlino all’ombra dell’opprimente muro che sarà il suo lasciapassare per l’eternità. 

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animalshelter
animalshelter il 29/11/12 alle 15:18 via WEB
MICA PAGLIA !!! GRANDE !
 
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