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Post n°134 pubblicato il 25 Marzo 2008 da Il.Don.Camillo
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di Maurizio Crippa
Sebbene una giornalista collettiva l’abbia definita “l’ultima puntata di questo grande serial televisivo sull’aborto in onda da tre mesi in Italia”, la splendida storia della Juno di Pordenone è tutt’altro che questo, è l’ultimo di quattro grandiosi fatti –  non opinioni – accaduti in Italia dall’inizio del 2008, da quando è cominciata la moratoria contro la pena d’aborto. Non per “colpa” della moratoria e neppure, va da sé, per suo solo merito: sono la vita e la sua intelligenza che pulsano e incrinano la crosta dell’indifferentismo morale. Da nord a sud dell’Italia emerge la ribellione di fronte all’unica cosa di cui davvero non se ne può più, il maltrattamento su scala industriale della vita. Così, giunti a metà di una campagna elettorale che non decolla, nonostante il tentativo quasi unanime di silenziare il tema della vita per parlare di Alitalia, è il momento di fare il punto sui fatti grandiosi che accadono. Di aprire gli occhi sulla loro capacità di invertire l’ordine prestabilito (prestabilito da chi?) delle cose di cui ci si dovrebbe limitare a discutere.
Il primo è Napoli. Anzi, a Napoli sono accadute due cose. Uno, che un bambino è stato ucciso perché era malato. Di una malattia che basta cliccare Google per sapere che non è d’impedimento a una vita dignitosa, la sindrome di Klinefelter. La donna che poi si è trovata nella condizione di dover abortire in un bagno poteva ignorarlo. Forse avrebbero dovuto avvertirla i medici cui la legge 194/78 “per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza” affida il compito di accompagnare le donne nel loro doloroso percorso. Ma (forse) si sono limitati, loro sì, al procurato allarme: signora suo figlio sarà handicappato. Due, che la verità e la buona informazione hanno bucato il velo omertoso del giornalismo collettivo, hanno fatto sapere alla nazione che al Policlinico Federico II non c’era stato nessun blitz a sirene spiegate, non era stata interrogata con metodi inquisitori una donna che aveva appena abortito. Non c’era stata alcuna caccia alle streghe scatenata da feroci campagne pro life. Così l’aborto divenuto atto di eugenetica spiccia – nella banalità e nel cattivo funzionamento della sanità pubblica – è stato riconosciuto per quel che è, emergendo per la prima volta come fiume carsico nella coscienza nazionale. Il secondo fatto è avvenuto a Genova, dove un’indagine su un ginecologo che praticava aborti al di fuori della legge, e che ha deciso di risolvere nel più inappellabile dei modi il suo contenzioso con la giustizia, ha portato alla luce un altro aspetto dello scandalo supremo del nostro tempo: quello di un bambino abortito per un reality show. L’aborto comodo, fuori controllo, per futili motivi. Ancora una volta è stato il buon giornalismo a contraddire l’opacità morale. E l’Italia ha scoperto che l’allarme di cui ci si dovrebbe curare non è l’inesistente “campagna contro le donne”, ma la violazione incivile della legge 194, peraltro sanabile con euro 51 di multa.
Il terzo caso, che ha illuminato la Pasqua, è quello della giovane donna di Pordenone. Non più violazione della 194, ma violazione del tabù mortifero che l’ha trasformata in silenzioso killer e accettata regola sociale. C’è molta più maturità e coscienza del proprio tempo nel “voglio questo figlio, voglio allevarlo con tutto l’amore di cui sono capace” detto da una ragazzina, che nel disturbo luciferino del solito, ineffabile Silvio Viale, il medico che difendeva la sacrosanta libertà della donna che ha abortito per un reality, ma che ora s’indigna perché il caso pieno di vita vera della Juno di Pordenone sarebbe stato “trasformato in un reality”. Il re è nudo, si rompe la crosta arida della società, non solo italiana: segnatevi il luogo e la data in agenda: ne parlerà il mondo. E da sotto, chiara e fresca emerge una nuova cultura della vita, smentita secca e gioiosa del dogma per cui il sesso – anche un po’ incosciente – di una quattordicenne debba e possa avere come unico pozzo in cui purificarsi quello nero dell’aborto, il metodo di contraccezione brutale e definitivo, culturalmente imposto.
Il quarto fatto non ha a che vedere con l’aborto, ma pur sempre con la vita maltrattata, stavolta la fine della vita. Il 15 marzo Salvatore Crisafulli, che vive in condizioni di “minima responsività”, con altri malati e famiglie di malati nelle sue condizioni ha iniziato uno sciopero della fame per denunciare “l’eutanasia passiva dello stato italiano”, dispensata tramite la mancanza di assistenza. Una protesta estrema e tale da mettere a rischio la stessa vita dei malati. La novità, anche qui, è che stavolta non si tratta di uno sciopero della fame per chiedere l’eutanasia, la fine della sofferenza, ma per rivendicare il diritto alla vita e all’assistenza da parte dello stato. Fosse una campagna “à la Welby”, il giornalista collettivo farebbe a gara per aggiornare in tempo reale, per stracciarsi le vesti contro la legge che nega la libertà di morire. Ma qui invece c’è la contraddizione vera, la vita, ancorché sofferente, che preme per esserci. Perché si parli di lei e si agisca contro il suo maltrattamento. E’ un cambiamento nella cultura e nella politica. Non basterà mettere il silenziatore a una campagna elettorale. Things they are changing.
Tratto da www.ilfoglio.it

 
 
 
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