Creato da ciapessoni.sandro il 21/02/2010

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« "LA PAZZA DEL SEGRINO...RUSTICHE CASE... »

"LA PAZZA DEL SEGRINO" di Ippolito Nievo V Capitolo

Post n°26 pubblicato il 20 Agosto 2010 da ciapessoni.sandro
Foto di ciapessoni.sandro

Dolce e lombardo di giovinetta viso
lieto s'aggrazia a rimirar que' monti
dove il riflesso magico s'incanta...

Sandro Ciapessoni

***

 

Una nota su: La pazza del Segrino:

Tratto da “NIEVO FRA NOI” di Marcella Gorra

 

[…] Quando sulla fine del ’55 (1855) Nievo consegnò al Lampugnani perché apparisse in uno dei loro periodici (« La Ricamatrice », quindicinale, o « Le ore casalinghe », mensile) La pazza del Segrino, ambientata (eccezionalmente, per una novella campagnola nieviana) in Brianza, e ne ebbe un rifiuto, che il Lampugnani motivò col « non convenirgli la lunghezza e il genere contadinesco alla Carcano»,  Nievo non negò che, lunga, la novella lo fosse: « tutte le mie cose o lo sono o lo debbono sembrare  »; ma, « che la fosse dello stile di Carcano, sfido il diavolo a provarmelo », scriveva al Fucinato (lettera del 27 gennaio 1856 in Ippolito Nievo, lettere ad Arnoldo Fusinato, a cura di Luigi Ciceri, Udine, tipografia Pellegrini 1946 pag. 54). A dispetto delle intenzioni dichiarate […] 

Si legga con l’attenzione che merita la continuazione della medesima lettera ad Arnaldo:

[…] Intanto, figurati, vo studiando Omero e questi nostri contadini di stampo affatto primitivo. Non puoi immaginarti quanto io trovo affini questi due studi; solamente ti confesso che trovo assai più aperta l’anima del mio gastaldo che non il Greco dell’Iliade, per cui vo avanti di pari passo colla traduzione latina letterale del Mattei e coll’italiana del Monti. Da tutto ciò ho in mente di far saltar fuori un Romanzo il quale in barba al Lampugnani sarà contadinesco e non alla Carcano.

                                     ***** 

LA PAZZA DEL SEGRINO di Ippolito Nievo

V Capitolo.

La famiglia dell’amorosa di Giuliano era tale, che chi fa studio di caratteri ci avrebbe trovato una miniera larga ogni giorno d’un qualche tesoretto. Nulla di più comune della vita patriarcale di que’ due vecchi, marito e moglie, che da trent’anni la tiravano innanzi fra loro in una casetta di campagna, amministrando in pro dell’unica figliuola il ricco patrimonio, e di libero arbitrio imponendo a sé stessi una frugalità eguale a quella che la necessità impone alle più strette famigliole del contado; nulla di più comune, dissimo (dicemmo), in apparenza, dacché a guardarci più a fondo si pescava a piene reti nel meraviglioso. Il padre della Camilla era, come volgarmente si dice, una testa di ferro; in lui tutto era ordine, giustizia, dovere; né faceva pel quieto vivere indulgenti distinzioni fra ragioni e sentimento, fra abitudini e capriccio, tra facile e difficile, fra estate ed inverno, ma tutto era uguale dinanzi a lui ed egli uguale in tutto. E questo vorrei lo intendeste letteralmente; giacché per esempio, fosse agosto o gennaio, il signor Ambrogio dormiva sempre colle sole lenzuola, e appena, quando si scioglievano le nevi, e l’umidore penetrava le ossa, costumava stendere dalle ginocchia in giù lo sciugamani.

Per questo nei primi anni di matrimonio fra lui e la signora Peppina, era stato un continuo taroccare, e a stendo dopo quasi due lustri eran venuti a questo temperamento, che restasse in piena disposizione della moglie quella parte di talamo nuziale che le spettava di diritto. Però ai diverbi sulle coltri e sui spiumacci era succeduto un eterno rammarichio della signora per certi reumi che la diceva aver guadagnato da quel decennio durato ogni notte collo stridore dei denti; a che il signor Ambrogio rispondeva, alla cura del freddo continuata per dieci anni filati dover lei che il reuma non le fosse degenerato in una sciatica; e rampognatala di procacciarsi a tutta forza tali maluzzi con l’incaponirsi in quella sciocchezza di dormir seppellita come un coniglio. Insomma ve lo assicuro io che l’era proprio un uomo singolare; e a questa sua maniera di pensare, corrispondeva la foggia del vestire, del conversare, del vivere; sicché dopo vistolo la prima volta restatasi in dubbio, s’egli fosse un filosofo o un pazzo. La signora Pappina dal canto suo l’aveva battezzato per filosofo; ma che un tal vocabolo corrispondesse nel suo modo di vedere al significato comune, o al valore etimologico, ne dubito assai; avvegnaché lo appiccicasse ella sempre per coda a una dozzina d’epiteti l’uno più burlesco e scherzevole dell’altro; onde dopo aver garrito collo sposo e datogli del rusticone, del gabbiano, dell’orso, finiva collo scrollare le spalle mugolando, che già l’era un filosofo e non bisognava dargli retta. All’opinione della moglie accostavansi i campagnuoli circostanti, i quali beneficati dal signor Ambrogio con quella sua maniera ruvida e ordinata, godevano del benefizio senza credersi tenuti a nessuna gratitudine; e così pure avvisava il prevosto, e con lui qualche originale del paese; ma tuttavia la gente civile s’accordava generalmente nel qualificarlo per pazzo; la qual gente civile, siccome chiama pazzo un uomo qualunque che adoperando diversamente da lei si mostri più curante dell’onore che del danaro, più della propria soddisfazione che di quella degli altri, così intendeva forse con un tal titolo quello che il prevosto e i campagnuoli per filosofo, e che noi intenderemo per galantuomo di rigidissima coscienza.

Che tra lui e la moglie non fosse una perfetta armonia, lo si avrà già potuto rilevare; però le erano nubi, se volete anche, temporali, ma il fondo restava sereno; e dopo trent’anni que’ due borbottoni non sussurravano peggio che al primo giorno, e si amavano poi e si stimavano tre volte tanto. Era naturale che con una tale indole il signor Ambrogio riuscisse un padre di famiglia alla romana, una specie di autocrata fra quattro muri, ma tal suo dominio non si stendeva che sul materiale dei fatti e delle cose; del resto coscienza e stampa erano libere affatto. E quel suo governo piuttosto che ad un’autocrazia lo assomiglierei ad una libertà inglese, per la quale tutti pensano e dicono e credono anche di poter fare quanto vogliono, e alla fin fine poi son ridotti ad operare come agli altri aggrada. Quando Giuliano, per esempio, gli si introdusse per la prima volta in casa, e dopo un mese egli scoperse una specie di reticola amorosa che s’andava saldando fra quel giovine e la Camilla, non ebbe la cosa a male. A costei sarebbe toccata una buona dote, Giuliano aveva qualche cosa e la faccenda secondo lui aveva gambe da camminare. L’indulgenza di cotal suo giudizio stava in questo, che non cercava quali proporzioni fossero tra la dote della figlia, qualche cosa  del genero futuro. Guai però se costui avesse avuto nulla!… Cadesse il mondo, il signor Ambrogio non avrebbe mai acconsentito un tal matrimonio. Perciò se gli amori dei due giovani erano iti a piene vele finché il signor Graziadio ebbe a conservare netto d’ipoteche il suo fondaiuolo (piccolo fondo, podere) di Brianza, vennero essi a dar in secco, non appena la lite promossa dal dottor Anselmo, mise in pericolo ogni sostanza del vecchio speziale.

Il signor Ambrogio appena ebbe sentore di questo malanno cominciò dall’ammonire la figlia che il signor Giuliano non faceva più per lei; la Camilla tirata pei capelli dalla crudezza paterna tempestò gridando che così la si voleva sacrificare ad una sfrontata avarizia; e il vecchio senza alzar la voce soggiunse, che la strillasse pure a suo grado, ma che già quel giovine non era un partito conveniente; indi partitosi, non si degnò tampoco di scusarsi in punto all’avarizia rinfacciatagli, come avrebbe potuto fare  con assai buone ragioni.

Infatti che una sì inflessibile determinazione movesse da ben altro che da soverchio amore al denaro, non istava là a provarlo tutta la vita del signor Ambrogio? Chi dai coloni riscoteva più tenue l’affitto?… Chi meglio nodriva  ed alloggiava i suoi spesati?… Chi più abbondanti elemosine distribuiva?… Chi più assennato e prodigo di lui nel soccorrere agli indigenti? Infine, poteva farsi taccagno tutto d’un colpo egli che pur ieri avrebbe concesso volentieri la mano della figlia con centomila lire di dote ad un farmacista di campagna che, tutto sommato, possedeva due campetti pel valsente di tre in quattromila scudi? No, e poi no!… Il signor Ambrogio aveva mutato parere per ben altre ragioni che per iscrupoli di spilorceria! Per lui ogni ordine sociale posava sopra l’unico assioma: Tutti al suo posto.

Badate ora ch’io racconto e non scuso; né certamente vi figurerete ch’io sorga a difendere pei tempi che corrono la costituzione dei Faraoni. Or dunque, “tutti al suo posto” pensava il signor Ambrogio; e siccome lui non sedeva né al primo, né al secondo, né al terzo piuolo della scala, così non si poteva appuntarlo di superbia. E tre a suo giudizio erano i ranghi delle persone: di quelli che hanno molto, di quelli che hanno qualche cosa, di quelli finalmente che hanno, o meno di mille lire, o nulla, o solamente debiti.

Per coloro poi che, essendo tra gli ultimi, non bastassero a procacciarsi di che vivere con l’opera propria, stabiliva una apposita categoria chiamata dei signori, e che noi diremmo dei giubilati, poiché concedeva loro il diritto di essere pasciuti per santo amore di Dio. Né tal diritto riconoscevalo semplicemente in teoria, ma sebbene anche nella pratica, dispensando ad essi annualmente una certa quota delle proprie entrate. Solo non voleva gli si parlasse d’istituti pii od elemosinieri, che usava definirli per uffizi di pubbliche mangerie; e una tale ingiustizia gli va perdonata, per aver inciampato, egli rozzo agricoltore, dove son già caduti parecchi suoi economisti. Gettati così come gli esposi i fondamenti del sistema, l’applicazione della materia matrimoniale di quel suo principio di “starsene tutti al proprio posto” avveniva così che non dovevano, secondo lui, persone di rango diverso unirsi in matrimonio, stante ché tali unioni racchiudevano un germe di sicura infelicità.

Né io infilzerò ora tutti gli argomenti dei quali puntellava la sua teoria, bastandomi lo stabilire, che colla separazione della Camilla rimasta ricca da Giuliano divenuto povero, stimava egli operare il maggior bene in pro dei due giovani; comeché, giusta il suo parere, questo matrimonio cadesse per l’appunto nel novero dei maledetti. Qui sorgeranno parecchi empirici a dar ragione così sulle generali al signor Ambrogio, notando solamente che delle eccezioni ve n’ ha un migliaio, e che fra queste prime cadeva il caso dei nostri due giovani. Ma ecco precisamente il maggior difetto ch’io scerna nel modo di pensare del signor Ambrogio!… Egli non pativa mai e poi mai un’eccezione: tutto era uguale per lui, egli uguale in tutto come dicevamo dapprincipio.

Giuliano era forse il solo in tutto il circondario, che avesse compreso nella sua interezza l’animo di quel vecchio singolare, e in vista del buono ne scusasse il cattivo anche a proprio discapito. Di più, non era egli di coloro che per contentare le proprie brame stimavano lecito sconvolgere da capo a fondo una famiglia: onde, rassegnatosi ai voleri di Dio, aveva cercato pel minor danno d’indurre nella Camilla un’egual rassegnazione; ma la fanciulla seppe male adattarsi così alla bella prima; e per le sue copiose lacrime e per l’intromissione della madre erasi ottenuto dal signor Ambrogio che un qualche legame fra la giovinetta e il suo innamorato potesse continuare tuttavia, sinché la decisione finale di quella lite malaugurata fosse sopraggiunta a recidere il nodo gordiano. Così erasi convenuto di lasciare i due giovani abboccarsi alla finestra. – Ma che nessuno sappia nulla, ed io meno d’ogni altro, - aveva conchiuso il signor Ambrogio; e così appunto fu ubbidito; che all’infuori della Celeste, la quale nelle sue notturni escursioni spesso era testimonio invisibile dei loro colloqui, tutta la gente credeva ogni rapporto fra i due giovani troncato, e maravigliavasi altamente, che tanto si tardasse a scegliere fra i molti pretendenti alla mano della Camilla. Più poi si stupivano che il signor Ambrogio non s’affrettasse ad accettare quel Leonardo, nipote d’una sua sorellastra, ch’era sempre stato il suo beniamino; ed anco sapevasi che la fanciulla infin dall’infanzia lo vedeva assai di buon occhio. Venne poi un giorno (e fu ai primi di settembre, qualche tempo dopo l’ultimo colloquio di’ due amanti), che il signor Ambrogio standosi in sacristia dopo la messa parrocchiale, annunciò ad alcuni compari il prossimo sposalizio col cugino Leonardo, e la curiosità degli oziosi ebbe un nuovo campo da mietere.

“Eh lo dicevo io che la sarebbe andata a finire così! Gli era fin da quando fu licenziato Giuliano che si andava maturando quella pera! – La ragazza fu sempre innamorata del cugino! Del cugino?… ed io mo scommetto, che quando Giuliano si sarà stabilito a Lecco, e ciò sarà ai primo d’ottobre, Leonardo se ne partirà colla sposa per Milano! – Eh mala lingua! Aspettate e vedremo!… Giulianetto da quindici giorni è mogio come un cane scottato, ma la novella di questo matrimonio finirà col piacergli. Alla fine poi, se amava davvero quella colombina, deve consolarsi che la sposa quel pastone (buona pasta) di Leonardo!…”

Cotali erano i discorsi delle brigate. La realtà era che dopo l’ultimo abboccamento con Giuliano, la Camilla, interrogata da suo padre del come si sarebbe comportata essendo chiesta in isposa da Leonardo, con universale maraviglia aveva risposto sospirando, che ubbidirebbe ai suoi genitori. Il signor Ambrogio fuori di sé dallo stupore e dal contento, stimando bene di ribattere il chiodo finché l’era caldo, di soppiatto aveva spedito e Lecco un suo famiglio, dal quale avvertito quel galantuomo di Leonardo era accorso gongolando il giorno stesso; e per un certo suo naturale di giovialone, tra per la gioia che gli bolliva entro, aveva fatto un gran baccano per la casa dello zio. E così poi tra lo scherzo ed il bicchiere aveva chiesto in isposa la Camilla, e n’aveva avuto dal padre della ragazza un bacione che valeva cento si, dalla madre una stretta di mano che ne valeva almeno cinquanta, dalla fanciulla una chinata di capo che non diceva di no. Costei certamente molto aveva sofferto nel secondare così animosamente l’intendimento di Giuliano, ma tanto bastò al nuovo promesso per menarne uno scalpore di trionfo per tutto il comune, tanto aveva bastato al signor Ambrogio per annunciare in sacristia il fausto avvenimento.

“E quando faremo le nozze? – chiese Leonardo all’orecchio del suocero prima di tornarsene a Lecco.

“Mah!… basta che ci corra di mezzo lo spazio necessario per le pubblicazioni - rispose questi.

“Di qui a due settimane dunque, - soggiunse l’altro montando nel calessino; - giacché la Madonna cade opportunissima in giorno feriale. Allora conviene spicciarsi! – concluse, e sferzò potentemente la cavalla.

*** 

Or qui, ai miei fedeli lettori, auguro una serena lettura.
Grazie!

Sandro Ciapessoni.



 
 
 
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