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IL MUGNAIO "MACININO" di Clemens W. M. Brentano

Post n°33 pubblicato il 19 Settembre 2010 da ciapessoni.sandro
Foto di ciapessoni.sandro

 

IL MUGNAIO “MACININO” di Clemens Brentano

da: Le fiabe dell’antico Reno

Indice necessario per la ricerca puntate precedenti:

Puntata – Numero. Post - Data del post

I 11 22 maggio 2010.

II 12 01 giugno 2010.

III 13 06 giugno 2010.

IV 15 10 giugno 2010.

V 15 15 giugno 2010.

VI 18 25 giugno 2010.

VII 19 13 luglio 2010.

Istruzioni: Ciccare su “«” del CALENDARIO fino a raggiungere il mese desiderato, indi sul giorno del post desiderato.

*****

Finale della VII puntata: – post nr. 19 del 13-07-2010-

“La principessa riposa in pace” lo interruppe Orecchioditopo, “la colpa è tutta sua ed ora giace in fondo al Reno con gli altri bambini; è caduta nel fiume mentre suonavo l’ultimo motivo”.

***

VIII PUNTATA:

A queste parole il topo si mise a singhiozzare ed a compiangere il povero mugnaio Macinino e, dopo che egli ebbe raccontato tutta la commovente storia, anche Orecchioditopo cominciò a piangere. Poi, siccome non c’era molto da rimediare all’accaduto, decisero di sistemare le salme della regina e di Rattopelato sulla nave, e di riportarle a Treviri, di deporre al loro posto nella tomba i fantocci di paglia e di cambiare l’epitaffio in modo che il mugnaio Macinino, al suo ritorno, venisse informato degli ultimi avvenimenti. E così fecero. Orecchioditopo caricò sulla barca prima la madre e poi il fratello, con l’aiuto del re dei topi mise nella fossa i pupazzi di paglia, capovolse la lapide e vi scrisse sopra:

“Orecchioditopo principe di Treviri

qui trovò madre e fratello

e li carico su di un battello.

 

Risalì poi Reno e Mosella

e in quel di Treviri li seppellì.

 

Ora giacciono nella tomba

due fantocci impellicciati

che da forca di Magonza

furono di là strappati.

 

Per punizione un motivetto zufolò

e tutti i bimbi di Magonza

il Reno ne affogò.

Nella volontà divina stava scritto

che per filiale amore compivasi il delitto.

 

Ah pio Macinino, che perdonarlo tu lo possa,

la bella Ameleya è ormai giù nella fossa.

 

Grazie a Dio ed al suo ausilio,

la notte… sempre donerà consiglio!

 

Dopo avere inciso l’epitaffio, il re dei topi andò sulla barca per ornarla di fiori e di ramoscelli, suonò la zucca e raccolse intorno a sé una ventina di topi e di ratti, suddivise equamente il resto del sacco di farina regalatogli da Macinino e si rivolse ai più anziani con queste parole:

“Da questo momento affido a voi la reggenza del regno. Ormai sono vecchio e non so se farò ritorno dal mio viaggio”.

Poi chiamò le coppie che volevano mettere su famiglia, chiese loro di stringersi le zampe e disse:

“Vogliatevi bene e preparate i vostri figli a vendicarsi della terribile disfatta che la nostra stirpe ha subito ad opera del re di Magonza. Addio e comportatevi sempre da topi d’onore!”

Salì sulla barca con Orecchioditopo e insieme veleggiarono spediti alla volta di Treviri. Quando approdarono in città, erano ancora tutti sconvolti per l’improvvisa fuga del principino, sicché non sapevano più se ridere dalla gioia per il loro ritorno o se piangere per la morte dei loro signori. Costruirono una splendida tomba con in cima una minuscola casetta d’oro per il re dei topi, che non voleva separarsi dalla vecchia regina, tanto l’amava; Orecchioditopo gli avrebbe portato ogni giorno un biscottino di marzapane. Il principino venne proclamato re all’unanimità per aver dato prova d’intelligenza e di coraggio. La prima cosa che fece, fu di armare un grande esercito per punire ancora più duramente il re di Magonza.

Come i cittadini di Magonza soffrivano per la scomparsa dei bambini, della brava Marzibilla e della figlioletta Amelina; del Pesciolindoro e del Topolinobianco.

Ora torniamo a Magonza a vedere che cosa combinarono il re, la regina e tutti i cittadini che Orecchioditopo aveva segregato in chiesa. Finita la messa, la gente voleva andare a casa per il pranzo, ma le porte risultarono sprangate: picchiarono, provarono diverse chiavi, non ci fu niente da fare. Tutti erano convinti che si trattasse di una marachella dei bambini e pensavano di punirli severamente non appena fossero usciti; chi altro poteva aver tirato il catenaccio se gli adulti erano rimasti tutti chiusi dentro?

Dalla chiesa si levava un unico terribile lamento; le cuoche gridavano in coro: “Dio mio, si brucia l’arrosto!”, le madri invece: “I bambini avranno fame!”. “Chi darà da mangiare al gatto e al pappagallo?” si lagnava la regina. Il parroco, che dal pulpito riusciva a sbirciare attraverso una finestra dentro la sua cucina, aveva notato che l’anatra allo spiedo stava bruciando; così, dimenticando che la cuoca era in chiesa, si mise a gridare con voce strozzata: “Sann…to ccie…lo! L’aaaa… natra… bbbb… rucia! Neee… naa giiii… raa… la!” I fedeli, convinti che parlasse in latino, gli fecero notare che avrebbe fatto meglio a suggerire in buon tedesco un modo per uscire di là. “Ahimè!” strillò la cuoca Nena, “signor curato, non posso girare l’anatra senza prima uscire di qui: vorrà dire che l’anatra brucerà”.

Alla fine uno di loro pensò di arrampicarsi sul campanile servendosi della corda della campana, poi si calò giù sulla piazza e riuscì ad aprire la porta. Tutti si accalcarono all’uscita e con grande stupore lessero:

“E intanto Orecchioditopo

principe d’illustre casato

tutte le porte ha qui sprangato”.

Nessuno sapeva chi fosse Orecchioditopo. Arrivarono anche i fedeli rimasti prigionieri nelle altre chiese e si meravigliarono molto di essere stati rinchiusi nello stesso modo. Poi si riversarono tutti sulla piazza del castello per cercare i loro bambini, ma la trovarono vuota ; i fantocci appesi alla forca erano scomparsi. Il re cercò la principessa, anche lei era sparita. Corsero a casa per vedere se i loro figli erano lì e intanto l’angoscia cresceva: dove potevano essere finiti?

Infine lungo il vicolo che portava al Reno raccolsero gli zufoli abbandonati a terra. Seguirono con grande affanno questa traccia e giunsero alla carrozzina del re, parcheggiata sulla riva del fiume. Quando videro galleggiare i berretti e le cuffiette e scorsero sulla sabbia le orme dei loro piedini che portavano dritti in acqua, i poveri genitori cominciarono a levare grida e lamenti strazianti. “O la mia bionda Ninetta! Mia piccola dolce Annina! Margheritina mia moretta!” si sentiva gemere e invocare . “Barbarella mio tesoro! Cara bambolina, sei annegata! Mio buon Giacomino! Mia bella trottolina! Ah, mio svelto Giovannino! Oh, Tonino, mio bambolotto! Federicuccio adorato! Oh, mio intelligente Franceschino! Martino buffoncello! Mio Severino! Oh, Massimino! Mio caro Vincenzino! Mio buon Carletto! Domenicane mio! Guendalina adorata! Bettina mia! Tesoruccio caro! Oh, Maddalenina! Dolce gattina degli occhi blu! Piccino mio! Sapevi già dire le preghiere e fare la calza! Sapevi già sillabare! Eri già chierichetto!”.

Piangendo e torcendosi le mani dal dolore ripescarono i berretti e le cuffiette e li baciarono, raccontandosi a vicenda le virtù dei loro poveri figlioli perduti.

Man mano che il tempo passava, e che invano sfogavano il loro indicibile strazio lì sulla riva, nel loro animo cresceva un feroce rancore contro il re che, per la sua slealtà nei confronti del mugnaio Macinino, era considerato l’artefice di tutti quei mali. Neppure il buio della notte poté indurli a rincasare: quella buona gente non riusciva a staccarsi dal luogo in cui erano periti i figli.

Intanto anche il re aveva fatto frugare ogni angolo della città nel tentativo di ritrovare la bella Ameleya e quando venne informato dai suoi messaggeri della sciagura che aveva colpito gli abitanti di Magonza non osò più aprire bocca temendo le ire del popolo, e questo timore non era sbagliato. Mandò quindi un vecchio prete a consolare i cittadini e a convincerli a tornare a casa; ma il sacerdote non venne accolto molto gentilmente. Tutti gli rimproverarono la sua interminabile predica; se fossero usciti prima dalla chiesa, forse avrebbero fatto in tempo a salvare i loro bambini!

Fu la fame a costringerli a rientrare; quella povera gente non aveva toccato cibo per tutto il giorno. Ma la loro afflizione non fece che aumentare quando varcarono la soglia di casa, dove un tempo i bambini correvano loro incontro: seggioline e giocattoli giacevano abbandonati e quando furono in procinto di coricarsi non trovarono nessuno che tendesse loro le braccine, nessuno che recitasse con loro le preghiere della sera. Poi videro i lettini e le culle vuote, mandarono giù qualche boccone tra le lacrime e per tutta la notte non chiusero occhio. A ogni ora le madri affrante si alzavano e controllavano le culle per convincersi della perdita dei propri figlioletti e, quando all’alba si addormentarono, ormai esauste, sognarono che i loro bimbi venivano sbattuti dalle onde contro gli scogli e che il mulino li stritolava sotto la ruota. Altre li sognarono ancora vivi, ma destandosi all’improvviso e rendendosi conto che era solo un sogno, ripresero a lamentarsi e con il loro pianto svegliarono i vicini.

Così ebbe luogo una nuova giornata di lutto e ne sarebbero seguite molte altre, ugualmente dolorose, se una nuova disgrazia fosse occorsa agli sfortunati magonzesi. Tutti i giovedì in città si teneva il mercato delle granaglie; i panettieri e le massaie si recavano ad acquistare il frumento dai contadini dei dintorni, che andavano al mercato a vendere i propri prodotti. Anche quel giorno, allo spuntar dell’alba, i fornai e le massaie scesero in piazza per riempire i loro sacchi, ma non vi trovarono neppure un contadino. Non riuscirono a capacitarsi dell’accaduto finché d’un tratto sopraggiunse una folta schiera di agricoltori provenienti da ogni dove, con in mano i sacchi vuoti: volevano comperare del grano poiché, spiegarono: “i topi ci hanno devastato i campi; il raccolto è distrutto e senza il grano non potremo neppure seminare!”. Quando si accorsero che nemmeno in città di trovava un solo chicco, si guardarono sgomenti; a quel punto il popolo prese ad urlare: “Carestia! Carestia! Dal re! Dal re! Ha ancora tutti i granai pieni” e una gran folla si avviò al castello gridando al sovrano di affacciarsi al balcone.Esasperato dalle grida insistenti, questi alla fine si risolse ad uscire ed esclamò furibondo: “Che vuole questa marmaglia che non mi lascia tranquillo neanche un secondo?! Dopo di aver perso quella sciagurata di mia figlia Ameleya, credevo di poter bere un bicchiere di vino in santa pace ed ecco piombare queste canaglie con le loro urla e i loro strepiti! “ Allora il popolo rispose che voleva il grano; per colpa sua i sorci avevano fatto irruzione nel paese e non avevano risparmiato neppure il più piccolo filo d’erba e ora si dava il caso toccasse proprio a lui procurare il frumento per la semina e per il pane.

“Perché non ci avete pensato prima ad amministrarvi meglio?” replicò il re, “le scorte di frumento servono a me ed ai miei soldati”. E la folla ribatté: “I tuoi soldati sono i nostri figli e per causa loro non devono morire di fame i loro genitori!”. “Pagatemi il sestuplo del prezzo e avrete un sacco di grano a testa!” tagliò corto il re chiudendo la finestra. Ma il popolo s’inferocì e cominciò a tirare sassi contro le finestre gridando a gran voce:

“Fuori il pane!”.

Il re allora fece sapere che avrebbero potuto inviare al granaio tutti quelli che fossero riusciti ad entrarvi: a ciascuno di loro avrebbe regalato un sacco di frumento. I poveretti si stiparono dentro come sardine, tanto che fra l’uno e l’altro non ci sarebbe stato posto neppure per uno spillo. Quando furono tutti ben ammassati il re fece chiudere le porte e alzare i ponti levatoi; il granaio infatti era costruito come una fortezza ed era circondato da fossati per proteggerlo da eventuali furti e incendi. Tutt’intorno fece appostare delle sentinelle e così la metà della popolazione venne crudelmente imprigionata e condannata a morire di fame.

Giorno e notte si udivano i lamenti di quegli sventurati, così strazianti da muovere chiunque a compassione; solo dopo due giorni il re fece gettare loro qualche pagnotta e, siccome non ci vedevano più dalla fame, molti di loro si picchiarono a morte. Quando gli altri rimasti davanti al cancello, s’inginocchiarono invocando misericordia per i poveri prigionieri, il sovrano urlò dalla finestra: “ Non sentite come squittiscono i miei sorci nel granaio? Dovrò rinchiudere anche voi se continuate ad assordarmi le orecchie con le vostre grida!”. E così i cittadini, impauriti e disperati se ne tornarono alle loro case.

Fra di loro c’era una brava donna di nome Marzibilla. Suo marito era un povero pescatore rimasto imprigionato nel granaio. Aveva una splendida figlioletta di nome Amelina , affogata insieme a tutti gli altri bambini; era quella bimba che Ameleya aveva tenuto a battesimo e che aveva tentato di salvare dal Reno poco prima di scivolarci dentro.

 

A giorni, seguirà la IX puntata.

 

 

 
 
 
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