Creato da ciapessoni.sandro il 21/02/2010

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L'AMORE DI LOREDANA - romanzo dello scrittore: Luciano Zuccoli.

Post n°216 pubblicato il 06 Marzo 2013 da ciapessoni.sandro
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L’AMORE DI LOREDANA – Romanzo dello scrittore: Luciano Zuccoli

 

 

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Riflesso di… lago

 

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… seguito PRIMA PARTE

***

 

…seguito Capitolo XVII (dal post 215)

 

Il passo di sua madre la faceva trasalire. La mamma aveva snebbiato il sogno, e invece dell'amore di Filippo le aveva recato il perdono. Chi chiedeva il suo perdono? Erano felici; lassù, ai piedi delle Grotte, non si ricordava la madre, non si ricordava il mondo; le acque del lago erano limpide e gli amanti vi si specchiavano, e le loro voci avevano toni d'infinita sollecitudine, e le giornate erano brevi, e le notti erano brevi. Egli la spogliava con quelle sue mani esperte, e ogni sera ella arrossiva, fremendo e sentendo il fremito di Filippo, che voleva indugiare e far presto, contemplare e possedere, allontanar la coppa e bere avidamente. Il mattino, sempre lieto, ascoltava i loro discorsi; dovevano partire di giorno in giorno. Filippo parlava di Roma con un entusiasmo che nessuno avrebbe mai supposto in lui; Roma tutta dorata d'un sole giallo e abbagliante, Roma stupenda a dispetto degli uomini e del tempo, Roma che ha visto milioni di pellegrini d'amore, sperduti e obliati nei secoli, contenti e umili, Roma appariva anche nei sogni di Loredana.

E dovevano andarvi di giorno in giorno, ma intanto le acque limpide del lago e la quiete del paese e il bel silenzio e le care abitudini di giorno in giorno li trattenevano. Che importava? Vi sarebbero giunti, più tardi; come presente e come avvenire non avevano che il loro amore, il quale pervadeva anche tutto il passato di Loredana; sarebbero giunti più tardi a Roma, col loro amore, grande abbastanza per così grande teatro...

Invece di quell'arcano, di quell'intimo poema, fatto di realtà e d'illusione, forte e inebriante questa come quella, la vita s'era chiusa d'un tratto. Pareva a Loredana d'essere stata colta nel sonno e trasportata a Venezia; e nessuna di tante delizie esisteva più; non restava che il perdono di sua madre e l'obbligo di tacere, simulando una verginità di corpo e di mente, che aveva offerto da tempo in olocausto, tutta vibrante di gioia, al solo uomo degno d'insignorirsene.

Poi cominciarono i pettegolezzi.

Emina De Carolis s'accorse in breve, con terrore, che tutti sapevano. Che cosa sapevano?

Ogni cosa e niente. Ma nessuno aveva creduto al soggiorno di Loredana a San Donà; avevano fatto finta di credere per convenienza; si era notato che a San Donà Loredana non aveva messo piede quell'anno, e che sua madre era turbatissima, e che rifuggiva dal parlarne; e che una notte era tornata da un paese misterioso, con la figlia, che non pareva più quella, che alcuni dicevano malata, che altri affermavano essersi imbruttita e che gli uomini esperti giudicavano bella, degna di concupiscenza e già istruita per l'amore.

S'era saputo che anche quel signore, un conte, il conte Filippo Vagli, il quale frequentava la casa da amico intimo, anch'egli era stato assente da Venezia tutto il tempo ch'era mancata Loredana... Come s'era saputo? Per quella misteriosa catena di parole e di chiacchiere, che ha talvolta il primo anello in un'alcova e l'ultimo in una bottega.

La famiglia Gianella, avuto appena sentore di qualche diceria, soffiò sotto, perché il giovane Adolfo non tornasse a incapricciarsi di quella svergognata, non pensasse alle volte di sposarsi quella disperazione. Si determinarono i fatti: Loredana era scomparsa qualche tempo per mettere alla luce un figlio, che aveva abbandonato in campagna, presso una contadina; il figlio era nato dalla tresca tra la ragazza ed il conte, il quale aveva coronato l'opera abbandonando la sedotta. E vennero fuori i testimoni improvvisati di quell'amorazzo: chi aveva visto Filippo entrar nella casa a notte fatta e non partirsene che all'alba; chi aveva notato che la madre lasciava gli amanti soli, chiusi in camera, per lunghe ore; una vicina, affacciandosi alla finestra, aveva dovuto assistere agli amplessi dei due, che si davano baci spudoratamente; un'altra invece affermava che non appena giungeva in casa Filippo, le finestre del salotto si chiudevano e si tiravano cortine e tende.

Questa marea di fango saliva, saliva, a poco a poco; forse in qualche anima di ragazza brutta o di donna volgare rodeva anche l'invidia per l'avventura, qualunque ella fosse stata, e ciascuna, pensava che al posto di Loredana avrebbe ceduto, ma più sapientemente, così da provvedere anche al proprio domani; e ciascuna si rammaricava di non aver trovato un ricco signore per amarlo, esserne amata e metter da parte un peculio. Onde, allo sdegno per la verecondia calpestata, non andava disgiunto in quelle donne un certo senso di commiserazione sprezzante per l'idealismo di Loredana, che seminava figlioli senza assicurarsi l'avvenire.

Ma quella madre! Quella madre che non aveva occhi né orecchie, e si lasciava sedurre in casa la figlia, e se la riprendeva poi con tanto agio! Che pensare di quella madre, se non che ella avesse trovato il suo tornaconto nell'affaraccio? Una comare, la signora Opimia Incudi, un vero chiodo dalla testa piccola sopra il corpo allungato, si presentò finalmente a Emma De Carolis, la quale non ricordava bene dove l'avesse conosciuta; e avvisò la signora delle voci che correvano, perché sapesse regolarsi, perché non si fidasse della gente, perché provvedesse a tutelare l'onore suo e della figliola, perché era tempo di metter fine a tanta cattiveria. E nel frattempo la signora Opimia stava, a guardar l'effetto delle notizie sulla faccia di Emma, e aspettava qualche risposta che servisse a nuovi commenti e a nuove induzioni. La faccia di Emma era pallidissima, gli occhi le si appannavano per lo sdegno; ma mentre appunto doveva venir la risposta, la difesa, la confessione, qualche cosa che ripagasse la signora Incudi della sua buona opera, comparve in salotto Loredana, la quale si fece ripetere tutta la storia.

E fu un colpo per la signora Incudi, quando la fanciulla si mise a ridere. Anche la mamma la guardò con un senso di sollievo, perché aveva temuto che Loredana soffrisse acerbamente. Loredana rideva, senza ostentazione, trovando nuova cagione d'allegria e di risa nell'aspetto stralunato della signora, alla quale traballava, la punta del naso lunghissimo sotto l'impressione della maraviglia. Poi, senza dir parola, Loredana uscì, lasciando che sua madre s'indignasse per le calunnie riferite; e non fu mai così allegra come quel giorno.

La visita della signora Incudi le aveva fatto bene, le aveva recato un alito di vita; il sussurro di quei pettegolezzi la ristorava. Non aveva cercato di meglio; ora sapeva, ora aveva il concetto chiaro di quel che poteva aspettarsi.

Era contenta che si mormorasse; ciò le risparmiava la commedia che sua madre aveva ingenuamente pensato, quella commedia di verginità, che le ripugnava. Era stata l'amante di Filippo, non aveva amato che lui ed era ancora sua.... Doveva fingere per la signora Incudi e per le sue amiche, doveva far loro intendere la nobiltà del suo sentimento, se quelle femmine per poco non l'accusavano di avere ucciso un figlio?

Ormai, al confronto di tutto ciò che si narrava, esser l'amante di Filippo sembrava quasi una virtù; e lieta di quella strana liberazione dalle paure del mondo, che la malignità del mondo le offriva, Loredana sentì crescere il coraggio per sostener meglio lo sguardo di sua madre, per attendere ciò ch'ella sperava in segreto ostinatamente, per vivere della sua vita, senza curarsi del giudizio altrui. La collana d'oro a maglie piccoline con la medaglia era diventata un talismano, e la fanciulla aspettava, credeva, perché la medaglietta diceva: «Sempre» e recava una data, che Filippo non doveva dimenticare.

Si rimise a vivere; andò a trovar qualche amica, la quale non pareva saper nulla, ma non domandava nulla intorno a quanto aveva fatto Loredana in quell'ultimo tempo; uscì a passeggio, e perfino un giorno, un giorno dal sole furioso, le salì alle labbra un motivo che non le piaceva e che pur l'inteneriva, e si provò a cantare, e tacque subito, perché quell'aria le rammentava la cameretta cara di Sirmione e la povera signora Teobaldi, tanto maltrattata in principio, che si girava sullo sgabello di reps rosso, e diceva, aspettando un elogio:

- Eh?

XVIII.

Poi, d'un tratto, Loredana si rintanò in casa di nuovo, come impaurita, e non volle più uscirne.

Aveva incontrato Adolfo Gianella per istrada e s'era rifugiata in un negozio a comprar bottoni e nastri; ma non così presto che Adolfo non avesse potuto vederla, sentire il sangue avvampargli la faccia e il cuore martellargli in petto.

Gli avevano tanto e tanto parlato di Loredana, delle sue colpe, dei suoi amori, della sua perfidia, che mentre egli lavorava a tutt'uomo per dimenticarla, essa gli tornava alla mento con acre persistenza; e la fantasia s'infervorava a seguirla nel turbine della nuova vita, tra i divertimenti che il seduttore prodigava certo intorno a lei, per ubriacarla di gioia e avvincerla a sé tenacemente. Adolfo non riusciva a capir nulla in tutto quell'armeggiare; la sconosciuta era assai ridicola, con un certo cappello alla cacciatora, che le stava appena sul cocuzzolo e ch'era ornato d'una penna di fagiano, ardita come una sfida al cielo; ma c'era, di peggio: la signora guardava Adolfo con occhiatacce mezzo beffarde e mezzo compassionevoli, le quali avrebbero fatte perder la pazienza a chiunque non avesse avuto un demonio più sarcastico e più fiero nel cervello.

E fu appunto per le stratte di quel demonio, che non voleva star quieto e che aveva tutta l'andatura d'una passione irragionevole, fu appunto in un impeto di dubbio, di gelosia, di paura e d'amore, che Adolfo Gianella varcò la soglia della casetta, e su a corsa per le scale, dietro Rosa che, rientrando, non gli aveva badato.

 

Fine prima parte capitolo XVIII

Buona lettura.

 

 
 
 

L'AMORE DI LOREDANA - romanzo dello scrittore: Luciano Zuccoli.

Post n°215 pubblicato il 26 Febbraio 2013 da ciapessoni.sandro
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L’AMORE DI LOREDANA – Romanzo dello scrittore: Luciano Zuccoli

 

 

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Desenzano del Garda

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… seguito PRIMA PARTE

 

***

Capitolo XVI (seguito del post 214)

 

- È lei la signora Teobaldi? - egli domandò con voce spenta a Clarice. - Ha lei le chiavi dell'appartamento?

Clarice si presentava già, le chiavi in una mano e la ricevuta del telegramma nell'altra.

- E questo, che cosa è? - domandò Filippo guardando il pezzetto di carta.

- È la ricevuta del telegramma, che ho spedito stamane per ordine della signora contessa, - rispose Clarice, pensando che non le conveniva far comprendere al conte tutto ciò ch'ella aveva immaginato.

- Ah, l' ha spedito lei! Loredana ha dato a lei questo incarico! - disse Filippo. - Lei è stata a Peschiera?

- Sì, signore, - confermò Clarice. - La signora contessa era molto buona con me.

Filippo diede un'occhiata alla Teobaldi, poi, come colpito da un pensiero improvviso, soggiunse:

- Io devo ritirare i bauli; vuole aiutarmi a mettere un po' d'ordine, signora Teobaldi?

Clarice non credeva alle proprie orecchie; le maniere cortesi di Filippo, l'accoglienza gentile, l'invito a dargli mano, la mandavano in visibilio. Ella squadrò l'ostessa, ch'era rimasta in disparte, e rispose:

- Io sono molto onorata, signor conte...

Filippo la precedette sulle scale, arrivò al primo piano, aperse, fece entrare la Teobaldi,

richiuse. Egli, che pur sentiva crescergli in cuore una disperata amarezza, non batté ciglio, vedendo sul divano il cappellino dell'amante.

- Si sieda, - disse alla Teobaldi. - Mi aiuterà quando le dirò io.

Da un largo baule pendeva il mazzo delle chiavi; Filippo aperse, e riprese:

- Ecco, signora Teobaldi; qui occorre la sua opera. Il baule della biancheria non può essere spedito così.

Clarice si alzò dalla poltrona, quasi spinta da una molla, e corse a vedere: la biancheria, era magnifica, in tela finissima, ornata di merletti e di fettucce.

- Ora ci penso io, - dichiarò la Teobaldi.

E mentre con cura meticolosa estraeva dal baule la biancheria, per riporvela poi sapientemente, Filippo prese una sedia e si mise a sedere vicino.

- È partita ieri sera, con sua madre? - egli domandò in capo a un attimo d'esitazione.

- Sì, signore. Sono andate in carrozza a Desenzano, e di là hanno preso il treno, io credo...

Ma che stupende sottane!...

- Ed era allegra? - chiese Filippo.

Clarice, che passava con un carico di sottane bianche sulle braccia, si fermò.

- Ah no, signor conte! Anzi, è stata malissimo, durante il giorno.

Filippo diventò subitamente pallido.

- È stata male? – ripeté . - Per carità, mi racconti, mi racconti tutto.

Allora la Teobaldi depose cautamente le sottane sulla tavola, prese una sedia ella pure, e raccontò dell'arrivo di Emma, dello svenimento di Loredana, dell'invio del telegramma, senza obliare l'incidente più piccolo, senza dimenticar parola, quasi avesse scritto ogni cosa ed ora rileggesse.

- Ma come ha potuto sua madre ricondurla a Venezia, se stava male? - esclamò Filippo, quando l'altra ebbe finito. - Come ha osato commettere questa cattiveria?... Ah Loredana, Loredana, Loredana!... Egli chiamò l'amante a voce alta, quasi ché ella avesse potuto rispondergli, ed era nel suo viso una tale espressione d'ambascia, che la Teobaldi restò inchiodata sulla sedia, senza trovare una frase di conforto.

- Lei non sa, - riprese Filippo, - lei non sa, non immagina che cosa sia Loredana per me: è la vita, capisce? Me l'han portata via, come si strappa un balocco dalle mani di un fanciullo, e vorrebbero ch'io tacessi, che figurassi anzi quasi un complice, che non la vedessi più... Non veder più Loredana, le pare possibile?

La Teobaldi fece un gesto disperato con le mani, come a dire: «Impossibile», ma il gesto richiamò Filippo alla percezione della realtà; sentì quasi meraviglia di trovarsi di fronte alla vecchia dalle sopracciglia al nerofumo e di sorprendersi a parlarle con tanta confidenza. Mutò voce, e disse:

- Vogliamo riprendere il lavoro?

Clarice riprese tosto, e, curva sul baule, sostando ad ogni poco, trasse tutta la biancheria e ve la rimise lentamente.

- Lei è di Venezia? - domandò Filippo, dopo una pausa.

- No, signore; son di Verona; ma ho a Venezia qualche parente...

- Ah! - mormorò Filippo. - Allora conosce bene Venezia?

La Teobaldi sbuffò, perché si rialzava, dopo aver collocato nel baule una bella collezione di calze di seta.

- Certo, - disse. - Vado a Venezia almeno due volte all'anno.... Queste calze rappresentano un tesoro; la calza di colore per l'estate è l'ultima parola della moda.

- Se viene a Venezia, - interruppe il conte, - non si dimentichi di me: avrò piacere di vederla...

- Ah, conte! - esclamò la Teobaldi. - Metter piede a palazzo Vagli, io, povera meschina!

Ella s'era fatta più rossa pel piacere, e s'immaginava già d'arrivare in gondola al palazzo, di salirne le scale preceduta da un valletto in livrea, di incontrarsi con qualche dama dal nome sonante, e di potere un giorno destar l'eco delle ampie vôlte con le note d'una romanza, probabilmente intitolata «Mon rêve»...

- Che idee! - osservò Filippo. – Perché non dovrei io trattarla come la trattava Loredana?

Il nome della fanciulla risonò di nuovo nella camera, risonò dolorosamente nel cuore dell'uomo. Egli ripeté :

- Venga a trovarmi, venga a trovarmi.

E alzandosi, andò alla finestra a guardare il lago, placido nel suo denso color di cobalto.

Clarice intuì ch'egli era caduto di nuovo in preda al dolore e ai ricordi, e non volendo riuscire importuna, si studiò di lavorar presto, senza chiasso, ma con precisione. Riempito un baule, passò nella camera da letto, raccolse le spazzole, i pettini, le fiale, tutti i preziosi gingilli ch'erano rimasti sul cassettone e ne fece un imballaggio accurato; poi guardò gli altri bauli, accomodò quelli ch'erano in disordine. E mentre, sudando e soffiando, faticava con tanto entusiasmo e con sì accorta discrezione, pensava che alla sua non più giovane età - ella non confessava gli anni nemmeno a se stessa – aveva finalmente il conforto d'esser compresa. Prima Loredana, poi il conte, uno dei più nobili patrizi veneziani, riconoscevano in lei la donna saggia, prudente, fidata; e, oltre la soddisfazione di quella tarda vittoria, ella gustava la voluttà di vivere in pieno romanzo, tra una tempesta di passione, della quale sentiva la rossa fiamma, sognava i vaghi episodi.

La voce di Filippo, che le risonava alle spalle, la fece trasalire.

- Io credeva di trovarla qui, - egli disse, pensando a Loredana. - Il suo telegramma non era chiaro. Se lo ricorda?

- Io non l' ho letto, signor conte, - dichiarò Clarice con solennità. - Ho eseguito l'incarico affidatomi, e mi sarebbe parsa indiscrezione riprovevole gettar l'occhio sul...

- Bene, - interruppe Filippo. - Diceva: «Un addio prima di partire». Credevo d'arrivare in tempo. Ah se non ci fosse stato di mezzo Candriani con quella sua stupida compagnia e quella gita, e quel pranzo! Ma non è possibile finirla così.... Che cosa devo fare, che cosa devo fare?

Clarice Teobaldi, udendo parlare di Candriani, di compagnia, di gite e di pranzi, ebbe la vertiginosa impressione di trovarsi già a piene vele nell'oceano della grande società; e sedette, si asciugò la fronte con la pezzuola, ripeté guardando per terra:

- Che cosa dobbiamo fare?

 

XVII.

 

«Non si tratta d'una pagina della mia giovinezza; si tratta della mia vita intera.». Le amare parole che la figlia aveva pronunciato in un grido di dolore, tornarono alla mente di Emma De Carolis non appena ebbe varcata la soglia di casa a Venezia. Tutto era mutato. Loredana trascinava con sè, in quelle camere già piene delle sue risa e del suo canto, qualche cosa d'infinitamente triste, qualche cosa che non si poteva vincere, qualche cosa che mutava il senso della vita, rimanendo immutabile. Emma la guardava camminare, parlare, vivere, senza riconoscerla; la fanciulla d'un giorno era spenta.

Subito, appena arrivata, Loredana, s'era messa a letto con la febbre; quel viaggio di sera, da Desenzano a Venezia, quella strada già percorsa in senso inverso con Filippo, e tutta piena di episodi memorabili, le avevano suscitato in cuore un tale spavento, una tale disperazione, da farle perdere conoscenza appena tornata nella sua casetta sul campiello muto. E di quello strazio le erano rimasti in mente una lettera e un numero, «a 3622 a», ch'erano segnati all'interno sulla portiera del vagone, e che ella aveva fissato per tutto il tempo del viaggio attraverso la campagna scura.

Furono giorni orrendi.

La canicola mozzava il respiro; Venezia era deserta; i vaporetti portavano al Lido orde di disperati in cerca d'aria più leggera; e lo scirocco pesava, spietatamente, fiaccando il corpo e lo spirito di giorno e di notte.

Per un mese intero, Loredana non volle uscir di casa; la gente le incuteva paura, i discorsi la irritavano; se la madre era intorno a lei con mille piccole cure insolite, ella sentiva la pietà pel suo dolore, e il dolore le tornava più vivo; se la madre si sforzava di fingersi lieta, Loredana si sentiva sola, avvilita, torturata da un sogno e da un rimpianto inutili. Ad ogni tentativo di sollevarsi, di liberarsi, di rivivere, s'agitavano in lei i ricordi minuti del suo amore, ed era come chi non potendo retrocedere, né avanzare, né durare sul posto, si dispera in cerca d'un aiuto o d'una idea o d'un'illusione.

Di Filippo, non più notizie. Che pensava? Che contava di fare? L'aveva abbandonata così, approfittando dello insperato intervento della madre? Il suo amore era stato anche più vile e più rapido d'un capriccio; Filippo aveva voluto il corpo della fanciulla, lo aveva corrotto per la sua libidine, lo aveva foggiato a strumento di piacere; e, subito stanco, non tentava nemmeno difendere la sua conquista. Tre anni di finta amicizia gli avevano dato finalmente il possesso di Loredana; e pochi giorni erano bastati a saziarlo; essa era stata il suo zimbello per tutto quel tempo; e non aveva memorie che di Filippo, perché tre anni addietro era una piccoletta, che confondeva ancora il conte con le bambole.

Come vivere, ormai? Che cosa poteva sperare? Aveva provato ogni gaudio nel giro di brevi giorni; il suo corpo sentiva ancora la carezza lunga e morbida, che l'aveva iniziata all'amore, dando al sangue un moto più vivo, più gagliardo, più impetuoso; e tutto d'improvviso le era stato tolto; e le notti insonni erano insopportabili per lo spasimo del desiderio che le ricordava una bocca ardente, un abbraccio violento, una preghiera e un dominio. Ma non era possibile che Filippo fosse così repentinamente scomparso dalla sua esistenza. Doveva tornare; sarebbe tornato domani, domani l'altro, un altro giorno prossimo; l'avrebbe richiamata, per continuare quel gaudio, per confondere le anime loro...

 

Fine prima parte Capitolo XVII

Buona lettura

 

 

 
 
 

L'AMORE DI LOREDANA - dello scrittore: Luciano Zuccoli.

Post n°214 pubblicato il 20 Febbraio 2013 da ciapessoni.sandro
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L’AMORE DI LOREDANA – Romanzo dello scrittore: Luciano Zuccoli.

 

 

Immagine: Venezia.

Bacino San Marco.

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… seguito PRIMA PARTE

 

***

… seguito Capitolo XIV (del post 213)

Appena la donna fu uscita, Loredana svestì l'abito di seta color d'oro, indossò presto l'abituzzo nero, che agli occhi della madre la ringiovaniva e quasi la purificava. La fanciulla non parlava, come avesse avuto bisogno del silenzio per sostenere la sua volontà e per trovare forza in quegli istanti crudeli, in quell'ora in cui il passato cadeva nel nulla e un avvenire torbidamente incerto le si spalancava innanzi.

Quando fu pronta, disse:

- Aspettami, torno subito.

E prima che la madre pensasse a trattenerla, Loredana uscì, discese le scale, andò in cerca della Teobaldi.

Era ripresa dalla necessità di dire una parola a Filippo, di mandargli un saluto; non poteva, da un istante all'altro, staccarsi da lui e dimenticarlo; tutta la sua anima, tutto il suo corpo gli appartenevano ancora, quantunque egli le apparisse ora così diverso da quello che aveva sognato, così cattivo e vile.

Trovò la Teobaldi in cucina; parlava sommessamente con l'albergatrice, presso la tavola, sulla quale erano disposti i piatti e le posate sporche. Loredana s'affacciò alla soglia, e con voce che fece dare un sobbalzo alla Teobaldi, chiamò:

- Signora Clarice!

L'altra le si avvicinò senza rispondere, e la fanciulla la condusse fuori, nell'atrio; poi prese una matita, vergò alcune parole sopra un pezzo di carta, e disse:

- Di lei mi posso fidare?

La Teobaldi mise una mano sul petto esuberante, e rispose:

- Tesoro mio, che cosa domanda? lo darei la vita per farle piacere.

- Bene: lei deve spedirmi domattina questo telegramma; vada a Peschiera e lo spedisca di là; qui non c'è telegrafo. Ma non dica parola ad anima viva. Mi posso fidare? Clarice ripeté il gesto, e rispose:

- Le ho detto: per farle piacere, darei la vita; che cosa devo dirle di più? Domattina alle nove sarà fatto tutto.

- Prenda, - soggiunse Loredana, - questo è il telegramma, questi sono i denari per la carrozza. Su, su, non voglio che rifiuti. Perché deve spender lei? E la ringrazio di cuore. Ma non parli nemmeno con l'aria.

La Teobaldi afferrò la mano della fanciulla, e domandò inquieta:

- Ci rivedremo? Tornerà?

- Sì, ci rivedremo.... Addio, grazie!

Allora Clarice non si rattenne, allungò le braccia, si strinse Loredana al petto, baciandola sulle guance impallidite.

- Addio, tesoro! Addio, bellezza! Che la Madonna l'aiuti...

Sentendo in quell'abbraccio il calore d'una affezione sincera, d'una simpatia verace, Loredana si liberò dalla stretta dolcemente, e sorrise con malinconia.

- Che la Madonna l'aiuti! – ripeté Clarice.

Ma, già la fanciulla saliva rapida le scale e tornava presso sua madre, la quale le veniva incontro, inquieta.

XV.

 

Le emozioni della signora Clarice Teobaldi non dovevano finir così presto. Quella sera stessa vide partire Loredana con sua madre nella carrozzella che le conduceva a Desenzano. La fanciulla, vestita d'un abito nero, inelegante e povero, mostrava gli occhi stanchi per il pianto, e tutto il suo corpo si reggeva a mala pena, quasi che un peso invisibile e intollerabile le gravasse le spalle.

Salita nella carrozza, fece alzare il soffietto, si rincantucciò al suo posto, abbassò il capo, e parve con la mente allontanarsi subito da tutto quanto la circondava. Sua madre non apriva più bocca, ma aveva sguardi lunghi e meditabondi per la figliuola. La vettura, partì, s'avviò per la strada sulla quale Loredana aveva il giorno stesso incontrata la mamma; sparve nell'oscurità della sera calante; qualche tempo ancora risonò il tintinnìo dei campanelli, poi il silenzio ricadde come un velo fitto, che separasse per sempre il passato da ciò che doveva avvenire.

La Teobaldi, rimasta sola, col cuore gonfio di gratitudine per la missione delicata affidatale da Loredana, col cuore gonfio di sconforto per la partenza della fanciulla, disdegnando esprimersi con l'albergatrice, salì nelle camere di Loredana, ne trovò l'uscio aperto, entrò.

Sulla tavola stava un doppiere, che la Teobaldi ravvisò nella penombra; ella lo accese, gettò un'occhiata in giro, afferrò il senso di desolazione ond' erano invase quelle camere, nelle quali s'era svolto un poema d'amore. Il piano era tuttavia aperto; in un angolo stava un grosso baule; sul divano giacevano un cappello bianco, una cintura rossa, un ombrellino scarlatto, gettati alla rinfusa, quasi con rabbia.

Nella camera da letto, dove la Teobaldi si recò, portando con mano incerta il doppiere pesante, restavano sul cassettone ancora tutti gli oggetti graziosi, ch'ella aveva ammirato altra volta; spazzole o pettini d'avorio, uno spruzzatore d'argento, un brucia profumi in bronzo; innanzi al letto le pantofoline trapunte d'oro; a terra giaceva, anche una camicia da notte, che la Teobaldi raccolse, piegandosi dopo non pochi sforzi, e ammirò per i bei merletti che l'ornavano.

Aleggiava nell'aria un profumo tenue, come la persona che era vissuta nella camera avesse lasciato dietro di sé un solco misterioso, fatto di olezzo inafferrabile e penetrante. La Teobaldi ritornò nel salottino, depose sulla tavola il doppiere, e si mise al piano. Le tornarono alla mente le note di quella romanza, «Mon rêve», che aveva cantato a Loredana; e le richiamò, dolcemente, stonando con delicatezza, quasi che la fanciulla avesse potuto ancora udirla. Ella se l'immaginava come allora, distesa sul divano, tutta bella, tutta superba del suo amore, nervosa per l'impazienza di riveder presto il conte.

Ma volgendosi, Clarice sentì il vuoto che la circondava, e restò al piano assorta...

Ah, essa aveva capito subito un mistero nella giovane esistenza di Loredana, e aveva tremato subito per lei! Chi le avrebbe detto ch'ella stessa, Clarice, sarebbe stata la confidente in quel dramma, troppo semplice per non essere compreso? Di quella fiducia insperata, la Teobaldi conservava, così profonda l'impressione, ch'ella si sarebbe ormai fatta uccidere piuttosto di parlarne. Non le era mai avvenuto d'essere messa a parte d'un segreto, perché i maligni la dicevano pettegola; soltanto Loredana aveva improvvisamente, istintivamente avvertito ch'ella sarebbe stata capace, per amor proprio e per gratitudine, d'un silenzio eroico. Non aveva nemmeno letto il telegramma affidatole da Loredana, e l'avrebbe spedito senza leggerlo.

Presa questa risoluzione, ella passeggiò con le mani sulla tastiera ingiallita e suonò lentamente la «Serenata» di Schubert, che le spezzava sempre il cuore, e che in quell'occasione le fece piover dagli occhi lagrime abbondanti. Pareva l'addio alla fanciulla lontana, che nel frattempo viaggiava, viaggiava, verso un destino crudele, verso una città nella quale non avrebbe trovato se non memorie di giorni cancellati per sempre; pareva il grido d'un'anima stanca e delusa...

Ma, la Teobaldi si destò di soprassalto dal suo sogno.

Aveva udito la voce dell'ostessa, la quale stava ritta sul limitare, e le diceva:

- Che le viene in mente, signora Clarice? Bisogna chiudere, qui, perché mi hanno affidata tutta la roba...

- Non penserà mica ch'io son venuta a portarla via? - osservò la Teobaldi alteramente.

- Dio me ne guardi! - esclamò l'ostessa.

- Bene, bene, me ne vado, - concluse Clarice.

Si alzò e si avviò verso l'uscio, per recarsi nella sua camera; ma l'albergatrice aveva voglia di chiacchierare, e riprese:

- Che ne dice?

- Di che?

- Ma di questa partenza. Ha visto com'era disfatta la signora contessa? Che ne dice, lei?

- Io? Io ho l'abitudine di non impacciarmi degli affari altrui, - sentenziò la Teobaldi. E aggiunse, con una occhiata di traverso: - E lei farebbe bene a imitarmi, per rispetto ai suoi ospiti!

L'albergatrice rimase intontita, fulminata, da tanta austerità, alla quale non trovava altra spiegazione se non che gli artisti son tutti pazzi da catena. Ma intanto la Teobaldi l'aveva piantata sulla soglia; e quasi ad aumentar la stupefazione della femmina, riprese con tono imperativo:

- Domattina alle otto, una carrozza per Peschiera!

L'ostessa spalancò la bocca, e allargò le braccia.

- Come, signora Clarice, vuol partire anche lei! - esclamò la povera donna. - Sarebbe offesa per quel che le ho detto, senza intenzione?...

- Che partire! Faccio una scappata e torno; starò fuori poco più d'un'ora in tutto.

L'ostessa respirò e non rispose altro, racconsolata.

La Teobaldi fece come aveva detto. La mattina seguente, alle otto, montò in carrozza, giunse a Peschiera, spedì il telegramma senza leggerlo, si fece rilasciare una ricevuta, e tornò a Sirmione.

Sulla soglia dell'albergo trovò l'ostessa, che appena la vide, le andò incontro col più schietto dei suoi sorrisi, e le disse:

- Veda, signora Clarice. Io ho chiuso l'appartamento del conte Vagli. Queste sono le chiavi, e vorrei pregarla di tenerle lei.

Clarice le prese, le mise in tasca, e rispose:

- La ringrazio; penserò io a tutto. La ringrazio molto.

L'ostessa aveva parecchie domande da fare, ma non osò.

- Anche la signora contessa, - osservò rientrando, - sarà contenta che le tenga lei, perché le voleva bene.

- Ah sì, che sia benedetta! - esclamò la Teobaldi. - Mi voleva bene, mi stimava, mi considerava. Giovane come l'acqua, ma testa fina!..

E a vincer la tentazione di spiattellare ogni cosa, s'arrampicò bofonchiando per le scale, e riparò nella sua camera.

Vi sarebbe restata, tutto il giorno, contentandosi di mangiare il prosciutto e l'uva che s'era comprato a Peschiera, se verso le quattro non fosse accorsa l'ostessa trafelata a chiamarla.

- Venga, signora Clarice, - ella disse alla Teobaldi. - È arrivato il signor conte, e desidera parlarle.

La Teobaldi arrossì per l'emozione.

- Il signor conte? – ripeté . - È già arrivato? Desidera parlarmi?...

Si diede un'occhiata, per incosciente civetteria, in uno specchio che la faceva verde; si aggiustò i cernecchi grigi, si diede un colpo di mano alla veste, e finalmente seguì l'altra, che aveva frenato a stento l'impazienza.

Sotto l'atrio trovarono Filippo, che passeggiava nervosamente, a testa bassa, arricciandosi i mustacchi. La Teobaldi si sentì stringere il cuore, vedendo quel viso sbiancato: si sarebbe detto che in così poco tempo Filippo fosse dimagrito e che una mano invisibile lo curvasse un poco.

 

Fine Capitolo XV

Buona lettura.

 

 
 
 

L'AMORE DI LOREDANA - dello scrittore: Luciano Zuccoli.

Post n°213 pubblicato il 14 Febbraio 2013 da ciapessoni.sandro
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L’AMORE DI LOREDANA – Romanzo dello scrittore: Luciano Zuccoli.

 

 

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Venezia – Procuratie.

 

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… seguito PRIMA PARTE

***

… seguito capitolo XIII (seguito del post 212)

Esitò un istante, poi aggiunse con qualche incertezza:

- Ma per Filippo è un'altra cosa; non lo amo di più, lo amo diversamente. E non posso, credimi, abbandonarlo in questo modo... Tu mi hai perdonato, mamma; e sono così felice! Ma non posso abbandonare Filippo senza dirgli una parola... Ah tu non sai come voglio bene a te, come voglio bene a lui! Ho tanto sofferto, pensando a te, che eri sola; non ho mai avuto un giorno di requie; non dirmi che io ti ho dimenticata...

Cautamente, mentre Loredana parlava, Emma le tolse il lungo spillo e le liberò la testa dal cappello, posandolo sulla tavola vicina; poi con la mano leggera le accarezzò i bei capelli dai riflessi dorati.

- Lo so, - disse, - che mi vuoi bene. E per ciò ti ho perdonato. Ma il mio perdono, vedi, non servirà a nulla, se non potrò aiutarti...

- Aiutarmi, come? - interrogò Loredana stupita.

- Nessuno sa che tu sei fuggita col conte. A tutti io ho narrato che sei fuori, in campagna, presso una famiglia amica. La cosa è parsa vera, e non si parla più della tua assenza; ma i giorni passano, e se tu non torni, verrà il momento ch'io dovrò confessare la tua fuga... Hai capito, Lori?

Io dovrò confessare la tua fuga, e tu non potrai più tornare a Venezia, se non vorrai che tutti ti segnino a dito, e ridano di me e di te. Hai capito, Lori? Ecco perché son venuta a prenderti; siamo ancora in tempo; il tuo ritorno sembrerà naturale, e con l'aiuto di Dio, se nulla di peggio avverrà, questa brutta pagina della tua giovinezza sarà un mistero per tutti. Hai capito, Lori?

Loredana tentennò il capo, e si alzò, asciugandosi gli occhi.

- Non me ne importa niente, - disse poi. – Perché devo occuparmi di ciò che si dirà un giorno?... Tu agisci, mamma, come se io un giorno dovessi sposare Adolfo Gianella o qualche altro. Io appartengo a Filippo, e apparterrò sempre a lui. Non si tratta d'una pagina della mia giovinezza; si tratta della mia vita intera, che ho donata a Filippo... Gli altri non esistono più per me.

La madre sospirò, mulinando di pronunziar qualche parola decisiva, e temendo di pronunziarla; fece sedere la fanciulla sulle ginocchia, le fece appoggiar la testa alla sua spalla, e osservò cautamente:

- Dici bene, Lori. Hai dato la tua vita intera al conte. Ma se il conte si stancasse di te, e se tu comprendessi un giorno che gli sei di peso?

Loredana balzò in piedi, guardando sua madre con gli occhi spalancati.

- Non dirlo, mamma! Non lo pensare nemmeno! - esclamò. - Sai qualche cosa tu? Ti hanno raccontato qualche cosa di lui?

Emma allungò le braccia, fece sedere di nuovo la figlia in una poltroncina ch'ella aveva avvicinato; e di nuovo con voce dolce e piana, disse:

- Non so nulla, cara, non mi hanno raccontato nulla. Ma gli uomini sono facili a stancarsi e a mutare....

- Filippo è diverso, sentenziò Loredana prontamente.

- Il conte, - osservò Emma, - gode una posizione privilegiata, ha abitudini signorili; può stancarsi non di te, ma della vita che per te sarà costretto a condurre; forse i parenti gli daranno dei dispiaceri, e, non conoscendoti, giudicheranno che tu sia una donna cattiva. Il conte è ricco, e si fa presto a supporre che una ragazza viva con lui non per amore, ma per calcolo.

Loredana ascoltava inorridita, con le mani strette, fremendo come l'avessero obbligato a piegarsi e a guardare in un gorgo minaccioso, dal quale presto ella doveva essere ingoiata.

- Che cose ripugnanti mi dici, mamma! - esclamò, torcendo istintivamente la bocca.

Ma Emma, sorrise con tristezza, e accarezzò le mani della figlia, bianche, dalle lunghe dita.

- Sono cose vere, di tutti i giorni, - ella disse poi. - Ed è per questo ch'io son venuta a prenderti. Ah, immagina, Lori, che sarebbe di me, se dovessero accusarti non solo di aver gettato il tuo onore, ma di esserti venduta a un ricco! E non pensi che potrebbero sospettare anche di me, come se io avessi visto, compreso e permesso? Io sola conosco la verità; io sola ho udito le tue parole e le parole del conte...

Si morse le labbra, volle aggiustar la frase, ma già Loredana l'aveva afferrata e già di nuovo, con un balzo, era dritta innanzi a sua madre.

- Di Filippo? - gridò. - Hai udito le parole di Filippo? L' hai visto, dunque? È stato da te? Che cosa ti ha detto?... Anch'egli mi ama, non è vero? Me l'aveva promesso, che ti avrebbe fatto giungere mie notizie; ma egli è venuto a trovarti... Vedi come è leale? Se volesse abbandonarmi, se pensasse di potere stancarsi di me, non verrebbe a parlarti... Dimmi quando l' hai veduto; che cosa ti ha detto?

Emma dovette raccontare, e raccontò della visita e del colloquio avuto con Filippo; la fanciulla stava attenta, quasi senza respirare, accompagnando la narrazione di sua madre con brevi cenni del capo; e quando Emma ebbe finito, Loredana tornò a sedersi e restò a lungo muta e cogitabonda.

- Infine, - ella osservò a un tratto, - egli ha acconsentito alla tua idea, e ti ha permesso di venire a prendermi. È molto strano il suo amore...

- Io l' ho persuaso, - disse Emma.

- Oh aveva paura, dunque? - domandò Loredana. - Di che cosa aveva paura? Io non ho avuto paura di nulla, quel giorno...

Tacque nuovamente; a poco a poco l'espressione del suo viso mutava, diventando chiusa e dura, come se uno spasimo contraesse i muscoli del bel volto giovanile; la fronte bianca e fresca fu solcata da una ruga, e le labbra si strinsero, mostrando agli angoli una piega di disgusto. Ella s'alzò.

- Aspettami, - disse. - Mi svesto, indosso il mio vestitino nero, e poi partiamo!

Emma, che aveva colto con l'occhio intento la mutazione rapidissima di quel viso, che aveva notato la inflessione recisa della voce, che vedeva la figlia impallidire, volle seguirla. Loredana entrò nella sua camera da letto, si guardò intorno come avesse sentito tremare il pavimento sotto i piedi; s'avvicinò a un baule per aprirlo; poi si fermò ancora, passandosi una mano sul volto e sulla fronte.

- Ora partiamo, - ella ripeteva. - Ora partiamo. Aspettami.

Ma, d'un tratto, mentre s'inchinava per sollevare il coperchio del baule nel quale conservava il suo povero abito nero, mandò un grido e cadde a terra di schianto.

XIV.

L'albergo fu sossopra; accorsero alle grida della signora De Carolis l'albergatrice e la signora Teobaldi; poi uscirono ambedue, soffiando e galoppando, e tornarono l'una con una bacinella d'acqua fresca, l'altra con una boccetta di sali.

In ginocchio presso la figlia sempre immobile a terra, Emma le aveva slacciato il busto; ma non riusciva a sollevarla. La Teobaldi si provò a darle mano, e mentre s'affannava all'opera pietosa, udì il laceramento del corpetto alla Pompadour, che non aveva potuto resistere agli sforzi inusitati della cantatrice. Allora ella uscì, ancora galoppando, con la faccia color paonazzo, e tornò seguita dall'albergatore; il quale sollevò Loredana come un fuscello, l'adagiò sul letto, e si ritirò subito.

- Lori, - sussurrava la madre, - -Lori, tesoro mio, amore mio...

- -Le faccia fiutar questa boccetta, - consigliò la Teobaldi, - è miracolosa! Povera fantolina; le sarà rimasta la colazione sullo stomaco...

- Ma no, - risposo Emma. - Mi dia dell'acqua fresca.

La Teobaldi recò la bacinella, e con la mano Emma spruzzò il viso della figlia, due, tre volte.

Loredana sospirò infine, profondamente, e il seno bianco si sollevò come per un singulto.

- Lori, - sussurrò Emma, - amore mio, sono qui.

- Ecco, ecco! - esclamò la Teobaldi. - Rinviene; apre gli occhi...

Apriva gli occhi, infatti, Loredana, e li volgeva intorno senza raccapezzarsi; ma incontrò lo sguardo di sua madre e sorrise, allungando una mano per prender la mano di lei. Emma le coprì il viso di baci, piangendo e balbettando parole di tenerezza.

- Che bella scena! - osservò la Teobaldi, colpita nel suo sentimento estetico. - Che bella scena d'amor materno!

Loredana riconobbe la voce, e mormorò a sua madre:

- Mandala via!

Emma si volse.

- Io la ringrazio, signora, - disse alla Teobaldi. - Lei è stata molto gentile....

- Non lo dica, non lo dica, - interruppe Clarice, - io voglio molto bene a sua figlia. Come si fa a non volerle bene?

Si avvicinò al letto e si rivolse a Loredana:

- Sta meglio, signora? Ah, ma com'è bella, così!... È vero che sta meglio? Un po' d'imbarazzo, forse. E poi, nella sua condizione di giovane sposa, un malessere momentaneo può avere tanti significati...

Emma fremette da capo a piedi, quasi fosse stata punta. Quell'udir chiamare sua figlia «giovane sposa», quell'allusione a una maternità possibile, la richiamarono d'improvviso alla realtà senza illusioni.

- Lasciamola, lasciamola, - disse alla Teobaldi, - ha bisogno di riposare, adesso. La ringrazio di nuovo, signora.

La Teobaldi salutò ancora Loredana, salutò Emma, ed uscì tra il fruscìo dell'abito alla Pompadour e della sottana inamidata.

- Non ti spaventare, - disse la fanciulla a sua madre, non appena l'uscio fu chiuso alle spalle della cantatrice. - Sto bene, ora; possiamo partire...

E fece l'atto di scendere, ma Emma la rattenne.

- No, - disse. - Puoi aspettare; partiremo stasera.

Ella avvicinò una poltrona e sedette; Loredana chiuse gli occhi, e per lungo tempo le due donne non pronunziarono verbo, seguendo ciascuna i propri pensieri. Il silenzio era pesante; non risonava nell'albergo alcun rumore, e appena dal basso veniva il mormorio del lago, che lambiva la casa; di tanto in tanto, s'udiva l'ultimo frinire delle cicale, salutanti il sole ch'era presso al tramonto.

A un tratto Loredana volse il capo, e domandò:

- Ti ha detto lui, che io era qui? Ne sei ben sicura, mamma?

- Come potrei ingannarti, amore mio? - rispose Emma.

- E ti ha permesso di venire a prendermi?

- Ha dovuto cedere; ha pianto, ha pregato, ma ha dovuto cedere...

La fanciulla sorrise con amarezza.

- Io, - disse poi, - io non ti avrei detto nulla, se fossi stata Filippo; o se per disgrazia mi fosse avvenuto di dirtelo, sarei partita subito, subito, avrei preso con me colei che amavo, e mi sarei nascosta ben bene. Io avrei fatto così.

Emma non rispose, e vi fu un'altra pausa lunga.

- Ma che cosa fa, a Venezia? - riprese Loredana. - Te lo ha detto?

- No.

- È tornato nella società elegante, - mormorò la fanciulla, quasi parlando con se stessa. - Dice che non può muoversi, perché deve rispondere alle cortesie e agli inviti che gli fanno; e io ero qui, sola, di giorno e di notte, in un paese che non conosco, dove tutti mi guardano in così strana maniera!

Tacque; poi, d'improvviso, domandò:

- Che cosa voleva dire quella sciocca?

- Chi, Lori? - chiese Emma.

- La Teobaldi.

- Non ho udito nulla.

- Ma sì: ha detto che il mio malessere può avere tanti significati...

Emma alzò le spalle con disdegno.

- E una sciocca, lo hai detto, - mormorò.

Verso le otto, pranzarono in silenzio, rapidamente. L'albergatrice, che le serviva ella stessa a tavola, indovinò qualche avvenimento grande, e, chieste notizie della «signora contessa», non domandò altro; poi dispose per avere una carrozza che le conducesse a Desenzano, dove avrebbero preso il treno; e fu stupita, apprendendo che lasciavano i bauli e le valigie.

Era un'idea di Emma, la quale non voleva portarsi a casa i regali e il corredo fatti dal conte a sua figlia.

- Vuol dire che tornano? - osservò l'albergatrice.

- Senza dubbio, - rispose Emma. - In ogni modo, il conte s'incaricherà lui di dare ordini pel bagaglio.

 

Fine prima parte Capitolo XIV

Buona lettura.

 

 

 
 
 

L'AMORE DI LOREDANA - dello scrittore: Luciano Zuccoli.

Post n°212 pubblicato il 08 Febbraio 2013 da ciapessoni.sandro
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L’AMORE DI LOREDANA – Romanzo dello scrittore: Luciano Zuccoli


 

Immagine: Il “Landò”

… che riporterà … per l’infelice Loredana.

 

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… seguito PRIMA PARTE

***

Capitolo XII (seguito del post 211)

Loredana, accasciata per la lettera nella quale Filippo le annunziava che la sua lontananza si sarebbe ancora prolungata di alcuni giorni, stava sul divano, a occhi chiusi, non udendo, non pensando, nella disperazione di far passare quel tempo che doveva essere eterno.

Le fiamme della gelosia cominciavano a divorarle il cuore. La società alla quale apparteneva Filippo e nella quale era momentaneamente rientrato, pareva alla fanciulla singolarmente pericolosa. Egli vi avrebbe ritrovato Fausta e mille altre donne come quella, aiutate dal lusso e dall'eleganza. E che cosa poteva far lei, povera ragazza ancora ingenua, contro le malie di quelle femmine sapienti, cariche di gioielli prodigiosi, ornate di tutte le grazie? Per la sua fantasia inesperta i convegni mondani erano come convegni d'amore nei quali Filippo avrebbe dimenticata presto la piccola amica che soffriva.

E il pensiero venne a colpirla con tanta durezza, che la fanciulla balzò in piedi, corse nella camera da letto, ne uscì con un largo cappello bianco che piantò risolutamente in testa, e s'avviò, tenendo un ombrellino scarlatto fra le mani.

Nel vestibolo trovò la signora Teobaldi, la quale s'avviava appunto dalla ragazza per strimpellare il piano. Clarice era vestita alla Pompadour, con amplissimi disegni sul corsetto e sulla gonna: questa, troppo corta, lasciava scoperti i piedi calzati di scarpe bianche; e così abbigliata, coi fianchi prominenti, la figura tozza, la Teobaldi pareva una trottola accuratamente pitturata di fresco.

- Esce? - ella domandò con voce triste.

- Sì, vado a passeggiare, - risposo Loredana. - Vuol tenermi compagnia?

Erano le quattro; il sole abbruciava, la luce era accecante, sugli alberi strillavano le cicale.

Clarice, fattasi sulla soglia, gettò un'occhiata intorno, aggrottò le terribili sopracciglia, e disse:

- Non so se mi convenga arrischiare...

- E perché no? - chiese Loredana stupita.

- Sa, per la voce; potrei prendere un riscaldo...

La fanciulla crollò le spalle e uscì.

Voleva andare a quelle Grotte di Catullo che avevano visto la sua felicità, quando vi passava con Filippo quasi l'intera giornata, immaginando d'esser con lui in un'isola perduta dell'Oceano. Ma per la certezza che quei ricordi, uniti all'amaritudine presente, l'avrebbero fatta soffrire di soverchio, Loredana s'avviò sulla strada di Sirmione, verso la strada provinciale.

Camminava adagio, riparata dall'ampio ombrellino scarlatto, e guardava gli alberi, l'erba, l'acqua, le barche dei pescatori, per distrarre la mente, perdendosi in osservazioni oziose. Si fermò a rintracciar fra l'erba una cavalletta, stette a vedere una lucertola che, immobile, la fissava coi piccoli occhi neri e acuti. A un punto della strada, alcuni monelli uscirono a giocare coi noccioli delle pesche, e Loredana assistette a una partita, come un monello essa pure.

Così s'era già dilungata verso la strada provinciale, quando da un nugolo di polvere che si scorgeva lontano, comprese che una carrozza s'avvicinava; e perché la cosa non era troppo frequente, Loredana sedette sopra un muricciolo, aspettando l'arrivo insolito. La vettura correva rapidissima e si udiva il tintinnìo dei campanelli. Un pensiero balenò nel cervello di Loredana:

- Fosse Filippo?

Ma non volle fermarsi a quell'idea, assurda, e che pur le faceva battere il cuore con tanta ansietà.

Del resto la carrozza era ormai a pochi passi. Loredana si alzo in piedi, gettò un'occhiata, e vide...

Era possibile? Aveva visto bene? Non si trattava, d'un'allucinazione?

La carrozza procedette ancora per alcuni metri, poi si fermò, e una donna ne discese, tornò indietro a corsa, gridò:

- Lori, Lori, Lori!

Loredana le andò incontro, smarrita, felice, non riuscendo a comprendere; e sulla strada, innanzi al vetturale attonito, madre e figlia s'abbracciarono e si baciarono piangendo.

- Vieni con me, - disse la signora De Carolis alla figlia. - Andiamo all'albergo. Devo parlarti...

Le due donne salirono di nuovo nella vettura, che riprese la sua corsa.

- Oh mamma, come sono felice! - esclamò Loredana, tornando ad avvinghiarsi al collo della madre, e baciandola con forza. - Chi ti ha detto che ero qui? Sei venuta a farmi compagnia? Sono sola, tutta sola. Starai con me. C'è una bella camerina all'albergo, e te la farò preparare subito, subito, perché devi essere stanca, con questo caldo. Ah, come sono felice, mamma! Mi pareva che qualche cosa mi chiamasse per questa strada!

Mentre ascoltava le parole e rendeva i baci, Emma andava considerando la sua figliuola, così elegante nell'abito leggero di seta cruda color d'oro, con la vita stretta in un'alta cintura rossa, con quell'ombrellino scarlatto dalla impugnatura d'avorio bruciato.

Era molto bella, e molto diversa da un giorno. Il soffio misterioso dell'amore le aveva dato un'espressione nuova, inconsciamente più ardita; se prima era ammirata, adesso poteva svegliare la concupiscenza e accendere la passione degli uomini. Ma Loredana pareva ignorare e il mutamento compiuto e la significazione pericolosa della sua bellezza. Tutto pareva ella ignorare; anche l'abisso in cui era precipitata, dal fondo del quale sorrideva a sua madre.

Emma evitò di rispondere, il cuore stretto da uno struggimento oscuro; per fortuna il supplizio durò poco; la carrozza giunse innanzi all'albergo, e Loredana, svelta e leggera, balzò a terra, e stese la mano ad Emma.

Una donna assisteva a quell'arrivo impensato: Clarice Teobaldi, la quale, pavoneggiandosi nell'abito troppo corto alla Pompadour, passeggiava avanti all'albergo, per farsi ammirare da alcuni pescatori, che la guardavano con ironia mal celata. Loredana si volse, vide la Teobaldi e sorrise.

- È tornata in carrozza? - disse l'altra, sorridendo a sua volta. - Credevo fosse arrivato il signor conte.

- No, è la mamma, la mia mamma! - esclamò gioiosamente Loredana.

La Teobaldi fece un inchino alla signora De Carolis, che la squadrò con un'occhiata, non rispose al saluto, ed entrò nell'albergo, seguita dalla fanciulla. Quando giunsero alla camera di Loredana, Emma, appena varcata la soglia, si volse e chiuse l'uscio a chiave.

XIII.

Quella era la camera che aveva visto e tutelato gli amori di Loredana con Filippo; tra quelle pareti s'era svolto il dramma eterno della fanciulla che si tramuta in donna; e forse ogni oggetto, ogni mobile, ogni ninnolo conservava un ricordo, aveva un significato pei due amanti.

Emma De Carolis gettò uno sguardo a sua figlia, e disse bruscamente con voce secca:

- Sono venuta a prenderti.

Loredana, la quale era in piedi, ancora col cappello in testa, non poté frenare un sussulto, e ripeté :

- A prendermi?

- A prenderti, - annunziò Emma di nuovo. - A prenderti e a condurti a casa. Credi che sia venuta qui per assistere a questo scandalo, a questa vergogna? Su; levati codesto abito, metti il tuo vestitino nero; fa presto, perché non abbiamo tempo da buttar via.

Loredana, udendo quella rampogna espressa con voce fredda, decisa, che non avrebbe attesa mai da sua madre, diventò pallidissima e si appoggiò allo schienale d'una sedia. Non comprendeva ancora bene, ma intuiva oscuramente che il suo amore era finito, spezzato, cancellato per sempre.

- Véstiti, - ripeté Emma. - Fa presto.

La fanciulla le si avvicinò, ma non osò stendere le braccia, per attirarla a sé .

- Mamma, - disse, - che cosa avviene?

Si passò una mano sul viso, come per fugare una nube che le avesse ottenebrato la vista; e seguitò:

- Mamma, non comprendo...

- Lo so; lo so, che non comprendi, - rispose Emma. - Obbediscimi; va a vestirti; ti spiegherò tutto, dopo.

- Ma dove andiamo, mamma? - esclamò Loredana, stendendo le mani quasi ad implorare.

- Dove andiamo? A casa; torniamo a casa nostra, a Venezia.

La fanciulla fece ancora un gesto, smarrita, guardandosi intorno.

- E Filippo? - domandò. - Lo sa, Filippo, che sei venuta, a prendermi?

Emma si sentì avvampare la faccia ed ebbe un lampo nello sguardo.

- Filippo? – ripeté . - Io, tua madre, ho da chiedere il permesso al conte Vagli per riprendere la mia figliuola? E tu obbedisci a lui, piuttosto che a me?... Lori, non farmi parlare, non tormentarmi...

Le due donne erano di fronte e si guardavano, ambedue timorose di far male e tuttavia nell'impossibilità di capirsi. Loredana tremava da capo a piedi, come già Filippo aveva tremato innanzi ad Emma; ma la fanciulla, invece di piangere e di smarrirsi, sentiva tumultuare nell'animo una ribellione sorda, imperiosa, veemente, che a pena era frenata dalla presenza della madre.

- Filippo, - essa mormorò, - Filippo non sa nulla, e io non posso partire così, senz'avvertirlo. Mi ha scritto che tornerà fra qualche giorno; ebbene, mamma, aspetta; glielo dirai tu, che io devo tornare a casa...

Emma non poté trattenersi, avanzò qualche passo, afferrò un braccio della figliuola, e la scosse con forza.

- Ma che cosa dici? - esclamò. - Chi è Filippo? Che diritti ha su di te, perché tu non possa muoverti senza il suo beneplacito? Io non so chi sia, colui... È un libertino che ti ha sedotta; e io devo aspettarlo qui, per chiedergli il permesso di riprendere mia figlia? Che cosa dici, pazza?

Per la durezza di quelle parole, per la stretta nella quale sentiva preso il braccio, per le offese lanciate a lei e al suo amante, Loredana proruppe. Si liberò dalle mani di sua madre, fece un passo indietro, e con gli occhi scintillanti, colla persona eretta come se tutti i nervi si fossero tesi rudemente nel suo corpo fragile, ella rispose:

- Ma è inutile, sai? È inutile che tu insista! Io non parto: io non mi muovo.

- Lori, - mormorò Emma, - pensa a quel che fai...

- Non parto, non mi muovo, se prima non è tornato Filippo, - rincalzò Loredana con voce che le usciva tronca dalle labbra. - Filippo ha dei diritti, su di me; tu puoi ignorarli; io non posso, se non sono una ragazza spregevole. I suoi diritti non li ha inventati lui; glieli ho dati io, perché l'amo, e ho abbandonato ogni cosa per seguirlo. Egli non mi ha sedotta; gli volevo bene, gli voglio bene oggi più che mai; vivo qui sola, in questo paese, per lui. Che colpa ha Filippo in tutto questo? Se anche avessi sposato Adolfo, oggi vorrei bene a Filippo, perché non ho mai amato che lui; e perciò Filippo è un libertino? Se anche fosse? Io lo amo, gli ho dato tutti i diritti su di me, e tanto peggio per me, dunque! Del resto, mamma, non è questione di diritti. Io dovrei partire senza avvertirlo?

Egli torna, felice di stare con me, e non mi trova più? Che cosa mi ha fatto, per trattarlo a questo modo? Non parto, non mi muovo, fin che io non lo abbia rivisto...

Emma ascoltò in silenzio; il suo sdegno, a mano a mano che la figlia parlava, andava cadendo. Ella raffrontava mentalmente le parole di Filippo con le parole di Loredana, e sentiva di trovarsi alle prese con una passione senz'argini, fatta d'impeto, contro la quale era impossibile agire con la forza.

Sedette in una poltrona, e quando Loredana tacque, ella disse, addolcendo la voce:

- Capisco che lo ami. Lo ami più di me. Io sono una povera mamma, Ero venuta per perdonarti.... Quante mamme avrebbero perdonato?

Udendo quella voce, la solita voce buona di sua madre, Loredana s'avvicinò, si mise in ginocchio presso la poltrona, ricinse con le braccia il busto di Emma; e mentre le scendevano le lagrime silenziose per le gote, sussurrò:

- Sì, mamma. Io ti voglio tanto e tanto bene...

 

 

Fine prima parte capitolo XIII

Buona lettura

 

 
 
 

L'AMORE DI LOREDANA - dello scrittore: Luciano Zuccoli.

Post n°211 pubblicato il 30 Gennaio 2013 da ciapessoni.sandro
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L’AMORE DI LOREDANA – Romanzo dello scrittore: Luciano Zuccoli.

 

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Gondola veneziana

 

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… seguito PRIMA PARTE.

***

… seguito cap. X (dal post 210)

Tacque, guardò Filippo, che pareva in quell'istante un fanciullo domato, un mendico febbricitante, così scosso dal tremito implacabile. La signora si ritrasse, perché non voleva mostrar gli occhi che le si velavano di pianto, e uscì in fretta. Filippo rimasto solo, si guardò intorno come trasognato... Era dunque la realtà, quella? Non doveva più vedere Loredana, la sua bella, la sua cara amica, e non più baciarne i capelli bruni dai riflessi dorati, e non più udirne la parola, e non più farla fremere di piacere e di gioia? Quale demonio l'aveva così scioccamente condotto in quella casa, a chiedere un più sciocco perdono, a dire stupidamente dove Loredana era nascosta?

Tutto crollato, tutto finito in un lampo! E Loredana, la fiduciosa amica, abituata a considerar lui come il più forte, il più libero, il più saggio degli uomini? Che avrebbe pensato?...

La porta della saletta si aperse ed entrò la signora Emma, recando ella stessa un vassoio col caffè e una bottiglia di liquori.

- Prenda qualche cosa, - ella, disse. - Le ho preparato un caffè; beva una goccia di cognac.

Essa versò, mise innanzi il vassoio a Filippo, riempì di cognac un bicchierino, glielo porse: egli lasciava fare, macchinalmente, e sorbiva il caffè, senza sentirne il gusto.

- Non capisco, - disse a un tratto, rimettendo sul vassoio la chicchera. - Non capisco. Loredana torna qui? Lei va a riprenderla?... E io...

La signora Emma non rispose, ma Filippo incalzò:

- Mi dica: non la vedrò più?

E poiché la signora rimaneva sempre silenziosa, anch'egli non domandò più nulla, e restò immobile, con gli occhi fissi nel vuoto, come a seguire qualche fantasma spaventevole. Finalmente si alzò, prese il cappello, stese la mano alla signora De Carolis, e uscì senza far parola. In anticamera, la domestica lo aspettava per dirgli qualche complimento, ma vedendolo così pallido e sfatto, corse in cucina e vi si richiuse, perché egli non avesse a soffrire incontrandola in anticamera.

XI.

Il sole che arroventava il campiello e illuminava le case con una luce quasi insopportabile, ebbe potere di scuotere Filippo da quell'accasciamento che pareva sonnambulismo. Si drizzò, sentendo che le spalle gli si erano incurvate, e si guardò intorno con occhio sicuro. Perdere Loredana? Obbedire a sua madre? Tutto finito, tutto crollato?

- Parto col primo treno, - promise a se stesso. - Arrivo a Sirmione, prendo Loredana e questa sera saremo lontani e sicuri. Qualunque cosa, piuttosto di perderla. Ho commesso una fanciullaggine con sua madre; bisogna riparare subito, subito, subito...

Non aveva ancor finito il suo pensiero, che una voce nota gli risonò alle spalle.

- Guardalo qui! Dove vai, così meditabondo?

Era Berto Candriani, che, fattoglisi al fianco, lo squadrò e rimase stupefatto.

- Accidenti! Che cosa t'è successo? Ti hanno bastonato?

Filippo gli disse con voce secca:

- Non ho voglia di scherzare, Berto!

- E non scherzo. Mi dispiace sinceramente di vederti così, come ti fosse avvenuto qualche cosa di molto grave. Eri tanto allegro iersera...

Il conte non rispose, e i due uomini procedettero qualche tempo senza far parola urtati dalla gente che passava per le calli; ma quel giorno doveva essere singolarmente disgraziato per Filippo, perché allo svolto d'una viuzza s'imbatté col conte e con la contessa Lombardi.

- Ah, bene, bene, bene! - esclamò il conte Lombardi, aprendo le braccia, come per impedire il passaggio ai due amici. - Venite a proposito!

La contessa ebbe un sorriso di compiacenza alla vista di Filippo, che le stava innanzi a capo scoperto e la salutava.

- Abbiamo la gondola a due passi di qui, - ella annunziò, - e si parlava, proprio di voi, Flopi. Noi facciamo un giro, e vi conduciamo con noi. Anche Berto Candriani ci farà compagnia...

- Un giro? – ripeté subito Berto con circospezione. - Che cosa deve intendersi per un giro, contessa?

- Muoviamoci, - ella rispose. - Noi impediamo il passaggio alla gente. Ora entriamo in gondola, e vi spiegheremo.

La contessa Lombardi era ancora piacevole, benché avesse valicato la quarantina. Il suo corpo era svelto, i capelli erano chiari, gli occhi vivi; solo la carnagione aveva perduto la sua freschezza; ma poiché la contessa dichiarava ella per prima di esser vecchia e finita, tutti la guardavano con simpatia e la trovavano assai più giovane di quanto non dicesse. Arrivati al traghetto dove aspettava la gondola a due remi, la contessa vi montò, Berto vi balzò dentro, dicendo:

- Spiegateci il giro!

Ma Filippo disse:

- Contessa, io devo scusarmi...

- Ah bah! - esclamò la contessa. - Flopi, voi mi fate pensare che la nostra compagnia vi dispiaccia. Quando noi vi facciamo un invito, voi avete subito pronta una scusa.

- Cara contessa, siete crudele! - mormorò Filippo.

- Oh, a proposito, - aggiunse il conte Lombardi. - Ricordati che sei a pranzo da noi, stasera.

- Dunque, vi decidete? - domandò la contessa, guardandolo.

Filippo comprese che bisognava decidersi, si appoggiò al braccio del gondoliere, e salì...

Il giro della contessa durò per più ore; la gondola, spinta con agile vigoria, uscì dal bacino di San Marco in un batter d'occhio, e prese il largo verso il Lido, poi, per le Vignole, arrivò a San Francesco del Deserto. La contessa Lombardi e Berto Candriani erano allegri.

- Non è vero che almeno così godiamo un po' di fresco? Sentite che bel fresco, Flopi? - diceva la contessa.

Filippo aveva perduto ogni velleità di ribellarsi. Le ore passavano e gli cadevano sul cuore come gocce di piombo, con un presentimento funesto; ma egli era troppo abituato alle commedie del mondo perché il suo volto lasciasse trasparir l'angoscia febbrile alla quale tutta l'anima sua era in preda. Sarebbe partito l'indomani: ormai bisognava adattarsi e non far pesare i propri dolori sugli amici che volevano godere la sua compagnia.

Con un rude sforzo riuscì a dominarsi e parve felicissimo di quella gita, di quello sciupio di tempo, infinitamente prezioso per lui; scherzò con Berto Candriani, il quale non sapeva comprendere una mutazione così rapida, ed era stupefatto; Filippo fece anche un po' di corte alla contessa, col consenso del marito, che sorrideva.

- Io non so dove tu sia stato, - -osservò a un tratto il conte Lombardi. - Se ne raccontano di belle, a questo proposito...

- Di bellissime, - rincalzò Berto.

- Non so dove tu sia stato, Flopi, ma la campagna ti ha fatto bene. Sei allegro...

- Allegro, - ripeté Filippo, sentendo l'ironia di quella affermazione.

Tornavano verso Venezia, e la città si scorgeva tutta bianca, come tutelata dall'angelo d'oro del campanile vetusto: i palazzi marmorei parevano da lungi portentosi ricami, fragili merletti diuturnamente lavorati dall'uomo e dal tempo; le acque ai loro piedi si stendevano placide, con un trasparente color di smeraldo, che gli ultimi raggi di sole facevano scintillare.

- Ma io vorrei sapere, - osservò la contessa, - che cosa si dice della compagna di Flopi...

I tre uomini si guardarono.

- Ecco, - disse Berto Candriani, - si dice che...

- È sottinteso, - interruppe Filippo, - che voi, contessa, non crederete parola di quanto sta per raccontarvi Berto. Voi conoscete quest'uomo? Il più fantasioso dei maldicenti...

- Non crederò nulla, - rispose la contessa. - Ma vorrei sapere.

- Si dice, - continuò Berto Candriani, - che Flopi, innamorato d'una bella, d'una bellissima ragazza, sia scappato con lei.

La contessa Lombardi diede in una risata.

- Che pazzo! - esclamò. - È scappato, ed è qui in gondola, al mio fianco?

Berto crollò le spalle.

- Siete ingenua, contessa, mia! È qui per un giorno o due. Domani sarà scomparso di nuovo.... Sa far le cose da maestro, la vecchia volpe...

La contessa stette un momento a pensare, poi osservò:

- Credevo meglio. Queste cose vanno sempre a finir male; e se l'avventura è come si racconta, Flopi ha perduto la testa davvero.

Filippo sorrise con l'indifferenza dell'uomo che ascolta cose senza alcun senso.

- È come ve la racconto io, - -assicurò Berto Candriani. - Fuga romantica con giovinetta.

La contessa alzò le spalle.

- Via, via, - esclamò, - sono maldicenze sciocche: sarebbe nato uno scandalo senza esempio, e invece non c'è che qualche diceria.... Voi non sapete ragionare, povero amico!

- Oh guarda, - protestò il Candriani, - Flopi scappa con una ragazza, e chi non sa ragionare sono io! Voglio mettermi anch'io a far fuggire le fanciulle, per vedere se mi troverete ragionevole...

Gli amici risero, e la conversazione fu mutata.

A Venezia, giunsero sull'imbrunire; Filippo e il Candriani, scendendo dalla gondola presso la piazza San Marco, presero congedo per correre a casa a mutarsi d'abito e per ritrovarsi indi a un paio d'ore nuovamente dai conti Lombardi.

Non appena fu solo, nella sua camera, Filippo sentì calargli sulle spalle il peso di quella giornata nefasta, l'accoramento per la sorte di Loredana. Gli tornò il pensiero d'andarsene subito, di giungere in piena notte a Sirmione, di prendersi la fanciulla e fuggir lontano. Ma di nuovo, le abitudini lo dissuasero. Era impossibile mancare al pranzo, dar quella clamorosa conferma alle voci delle quali il Candriani s'era fatto eco. Bisognava partire all'alba; ormai non si trattava più che di poche ore, dell'ultimo sacrifizio.

Quando Filippo, in marsina, con una gardenia all'occhiello, varcò la soglia del palazzo Lombardi, egli aveva dipinta in viso una tale espressione di pace, che lo si sarebbe giudicato l'uomo più tranquillo del mondo.

Berto Candriani, il quale l'aveva preceduto di poco, rimase, al vederlo, stupefatto per la terza volta.

 

Fine XI Capitolo

Buona lettura.

 

 
 
 

L'AMORE DI LOREDANA - dello scrittore: Luciano Zuccoli.

Post n°210 pubblicato il 17 Gennaio 2013 da ciapessoni.sandro
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L’AMORE DI LOREDANA – Romanzo dello scrittore: Luciano Zuccoli

 

 

Immagine: Venezia

Veduta aerea San Marco

 

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… seguito PARTE PRIMA

***

… seguito del cap. IX (… Seguito del post 209)

Filippo sembrava non accorgersi della presenza di Giselda.

- Mi pare un gatto che vigila, - pensò il Candriani. - Se la porti via anche questa?

Ma la partita finiva; la contessina Fioresi volse le spalle ai giocatori, tornò fra le donne, e subito trovò un appiglio per interloquire.

- Mi direte voi, - chiese Berto al Lombardi e al marchese di Spinea, - che cosa ha questo vecchio satiro per piacere alle ragazze?

- Vecchio satiro! - esclamò il marchese di Spinea. - Ma non ha quarant'anni; e che cosa dovresti dire di me, che ne ho cinquantasette?

- Satiro decrepito! - sentenziò il Candriani. - Filippo, occhio alla Fioresi! Quella sta facendo una passione per te, vorrà scappare anche lei.

Filippo stette ancora muto. Egli rispondeva raramente a Berto Candriani; dacché lo si era classificato per matto, Filippo lo lasciava parlare, e il più delle volte non ascoltava nemmeno le sue parole, col pensiero rivolto altrove. Così, se non fosse stata la necessità incoercibile di dire tutto quanto gli frullava pel capo, Berto Candriani, a sua volta, non avrebbe mai parlato con Filippo; e quando v'incappava, se ne pentiva sempre.

Egli si alzò indispettito e andò a raggiungere il conte Mercatelli, che fumava una sigaretta, sdraiato sopra un divano, beatamente, gli sguardi perduti in alto.

- Ciò! - disse Berto. - Non dormi? Vattene, su; è quasi mezzanotte...

- Hai ragione, - rispose il conte mansueto. - Nel mio letto starei tanto bene!

Si mosse, andò a porgere il saluto alla contessa Bianca, alle signore, agli amici, ed uscì lentamente.Poco dopo, anche gli altri visitatori presero congedo.

X

Quella notte, Filippo Vagli sentì crudelmente la solitudine in cui lo piombava l'assenza di Loredana. Vagò fino ad ora tarda per le calli deserte, immerse in un'ombra che un fanale rompeva a pena, e salito in una gondola si fece condurre alla ventura; i rii, coi muri delle case a picco, parevano chiusi, senz'aria; ora la gondola sfiorava la scalea d'un palazzo, ora scivolava lungo qualche casupola, dalle finestre della quale giungeva il chiacchierio infaticabile delle popolane; e se una gondola passava rasente, era una visione d'ombra, una linea nera e fugace, un uomo ritto a poppa, una figura indistinta sdraiata sui cuscini; poi silenzio, rotto dal remo che grondava acqua.

Allorché tornò a casa, Filippo notò quel che già aveva sentito durante il giorno: la sua camera non gli diceva più nulla, il suo ricco appartamento, al quale era andato per tanti anni recando belle cose d'arte e oggetti di pregio, non gli importava più dell'appartamento d'un albergo. Le ore gli sembrarono eterne; il pensiero di quella ragazza, lasciata sola in un piccolo paese, in un alloggio che differiva poco da una taverna, gli martellò il cervello tutta notte. Prese sonno verso l'alba; e non si svegliò da quel torpore se non quando gli parve che qualcuno camminasse cautamente per la camera. Era un servo, mandato dalla contessa Bianca, la quale, vista l'ora tarda, temeva che Flopi stesse poco bene.

- Che ora è, Piero? - domandò Filippo.

- Sono le undici, signor conte.

Piero stava immobile presso il letto ad aspettare gli ordini.

- Va, va! - gli disse il conte. - Non ho bisogno di nulla. Avverti la contessa che mi alzo subito.

E poco dopo, mentre attendeva alle cure della persona, Filippo sentì la noia plumbea per quelle ore che ancora gli toccava di passare a Venezia, per il pranzo dei conti Lombardi, per le chiacchiere insulse alle quali avrebbe dovuto prestare orecchio. Egli era irritato e malcontento. Dopo una colazione quasi sempre silenziosa, perché sua madre cercava ella pure di schivare allusioni ed argomenti spiacevoli, egli uscì, gironzolò qualche tempo in Piazza e sotto le Procuratie, fece parecchi acquisti per Loredana, e quasi senz'accorgersi, camminando lentamente, si trovò nel campiello, innanzi alla casetta bianca della piccola amica.

Egli aveva promesso a Loredana di portar notizie di lei alla sua mamma; e quando rivide la casa, con quelle finestre bifore, alle quali la fanciulla s'affacciava un giorno per salutarlo; e quando sentì la familiarità di quel tranquillo angolo di Venezia, dov'egli veniva per salvarsi dalle omelie della contessa Fausta, per vivere la vita modesta degli altri e dimenticar la propria, inutilmente ricca e fastosa; quando mille ricordi semplici e graditi gli tornarono in folla al pensiero, Filippo non si perdette a riflettere oltre: si avvicinò alla porta, dipinta in verde scuro, con un bel battente di bronzo foggiato ad anello che una testa di leone teneva fra le mandibole; e suonò il campanello.

A una delle finestre si affacciò indi a poco la domestica, piccoletta e nera in viso, che voleva bene alla fanciulla.

Essa fu così stupita alla vista di Filippo, che mandò un'esclamazione:

- Maria a te provveda! Il conte! Il conte! Il conte!...

E d'un subito si mise a correre per la casa, in cerca della signora, gridando a perdifiato:

- Il conte! Il conte! Il conte!

La signora De Carolis, che ora occupata a stirare, accorse tutta meravigliata e tremante; si affacciò alla finestra ella pure, s'assicurò che il visitatore era il conte Vagli, e infine si decise a tirare il cordone. La porta s'aperse, e Filippo entrò.

In alto della scala, proprio sull'ultimo gradino, vide ritta e pallida la signora Emma; la quale, senza rispondere al saluto di lui, scese qualche scalino per abbreviar la distanza, e domandò con voce rauca:

- E Lori, dov'è?

- Sono venuto a portarle sue notizie, - rispose Filippo, salendo con la signora, tuttavia incerto dell'accoglienza. - Sta bene, mi parla sempre di lei.

Passarono innanzi alla domestica, la quale rimaneva a bocca aperta, guardando Filippo con ammirazione attonita.

- Buon dì, Rosa! - egli le disse.

E l'altra fece una riverenza, non potendo esprimere la voglia d'aver notizie della signorina.

La signora Emma e Filippo entrarono in quella saletta dal pavimento a piastrelle bianche e rosse, dove il conte e la fanciulla avevano concertata la fuga; Filippo notò subito, sopra una mensoletta di legno, una figurina di biscuit, che abitualmente era sulla tavola, e che un giorno la ragazza andava girando e rigirando, mentre l'amico le sussurrava all'orecchio parole ardenti d'amore e speranze di giorni felici.Egli prese le mani della signora De Carolis, e le disse con voce malcerta:

- Io devo chiederle perdono. Le ho portato via Loredana, la sua Lori! Ma essa è oggi felice con me. Ho fatto male, ho agito per impulso, ciecamente. Non oso scolparmi, lo vede! Pure, Loredana è felice, e questo non risponde a tutti i suoi dubbi, a tutte le sue paure? La signora scosse tristemente la testa e ritrasse le mani dalle mani di Filippo.

- No, - ella rispose. - Sarebbe felice se potesse andare a fronte alta: ma così, quale umiliazione! Ora non comprende; comprenderà più tardi... È una fanciulla disonorata; non ha nome; e nessuno crederà all'amore. Il mondo è cattivo; sarà accusata d'essersi venduta per vizio o per bisogno... Filippo fece un movimento con la mano, come per protestare.

- Oh, non neghi! - interruppe la signora, il cui volto bianco, dalle occhiaie scure, diceva quante notti tormentose e quante ore d'angoscia aveva passato la povera donna.

Ella sedette sopra un divano, dimenticando di accennare una sedia a Filippo; e proseguì:

- Nessuno di quelli che la conoscono sa ancora nulla; ma il mistero non può durare più a lungo, e il giorno si avvicina in cui dovrò confessare la sua colpa. Che cosa dirò per farla perdonare, o perché gli altri le siano indulgenti? Non aveva la sua mamma che le voleva bene? Forse le mancava qualche cosa, qui, dove io non pensava che a lei? Non voleva sposare quel Gianella maledetto? E io l'avrei aiutata, e io le avrei permesso di scegliersi persona più degna... Ma fuggire, ma diventar l'amante d'un uomo che non potrà mai sposarla, e abbandonare la mamma sua, la casa, tutto e tutti, come una disperata, e rovinare la sua giovinezza!... Sì, è giovane, era inesperta, io mi fidava ciecamente... Io posso assolverla; il mondo riderà di lei e di me, cadute vittime di un falso amico, d'un egoista senza cuore...

Filippo, tuttavia in piedi, col cappello di paglia tra le mani, udendo l'accusa scudisciargli il viso, fece un passo, sentì il viso avvampargli, ma si rattenne e non disse parola. La signora Emma lo guardò, e aggiunse freddamente:

- Si sieda! Mi parli di Lori. Dov'è adesso?

- A Sirmione, - rispose Filippo.

- Verrò a prenderla, - annunziò la signora con voce decisa.

- A prenderla? - esclamò il conte sbalordito.

- Sì, a prenderla. Forse sono ancora in tempo a riparare uno scandalo. Ho detto a chi mi chiedeva di lei che è in campagna. Ebbene, bisogna che da questa campagna Loredana ritorni. Io non confesserò mai mai, che mi è fuggita di casa, capisce? Il suo ritorno, la sua presenza, la ripresa delle nostre abitudini faranno tacere le cattive lingue. Mia figlia è conosciuta da poca gente modesta, che certo non villeggia a Sirmione. Forse sono ancora in tempo a salvarla se Dio mi aiuta. E lei, conte, non si opporrà. Ha commesso un'azione disonesta, non vorrà commetterne una seconda...

- Ma io l'amo, Loredana! - proruppe Filippo. - Non permetterò che me la portino via; io vivo per lei, cerco di renderla felice, mi allontano io pure dal mondo, per dedicare a lei le cure più affettuose, e ho fatto della sua vita la mia.... Non permetterò che me la ritolgano, a nessun costo; non permetterà ella stessa, Loredana, perché mi ama e non domanda nulla a nessuno!

La voce del conte vibrava di tanta sincerità e di tanto affanno, che la signora De Carolis ne fu scossa e lo guardò un istante, presa da esitazione.

- Sono venuto da lei a chiederle perdono, - proseguì Filippo, - a chiederle perdono con una umiltà che non è nelle mie abitudini. E lealmente le ho detto dove viviamo, perché non volevo continuare con lei una finzione antipatica; se l'avessi ingannata, se le avessi detto che viviamo a Roma o a Parigi, ora potrei ridermi delle sue minacce.

S'interruppe e camminò pel lungo e pel largo nella saletta.

- Non me la porterà via! - soggiunse. - A qualunque costo, non me la porterà via!

Appartiene a me, ora, e a nessun'altro al mondo! Non me la porterà via!

La signora De Carolis comprese che non poteva ragionare con un uomo in tale stato d'animo. Filippo aveva le labbra bianche e il suo corpo tremava come scosso da febbre violenta; egli si abbandonò in una poltrona, nascose il volto tra le mani, e stette così, per lungo tempo, in silenzio, agitato sempre da un tremito invincibile.

Emma tacque ella pure, a lungo, guardando l'uomo superbo, ridotto da una parola come uno schiavo o come un mendico, accasciato sotto il peso della sua passione.

- Veda, - cominciò infine la signora. - È necessario! Appunto perché vuol bene a Loredana, la lasci tornare con la sua mamma... Lei si pentirà un giorno di questo rifiuto.

- Non mi pentirò mai! - esclamò Filippo, staccando le mani dal volto.

La signora De Carolis vide che le lagrime solcavano il viso del conte, ebbe un lampo forse di riconoscenza, certo di pietà, ma seppe frenarsi, e continuò, quasi non avesse notato nulla:

- Per parlare come lei parla, bisognerebbe dirmi quale avvenire attende mia figlia. E lei non lo sa, perché l'avvenire di Loredana dipende dal capriccio, dalla volontà, dall'interesse del conte Filippo Vagli, il quale oggi l'ama sinceramente e domani può considerarla un impaccio.... Filippo crollò le spalle, ma la signora aggiunse, senza badargli:

- È possibile che io accetti una situazione simile per mia figlia? Ripeto che forse sono ancora in tempo a impedire uno scandalo enorme; se non mi ingegnassi di riuscirvi, sarei non una madre, ma la più vile, la più spregevole delle donne... Nel turbamento di tutto il suo spirito, Filippo sentiva che la disgrazia aveva dato una lucidità di comprensione, un'energia e una volontà, a quella donnina fragile e dimessa, quali egli non avrebbe mai potuto sospettare. La signora De Carolis aveva il viso pallido tutto rischiarato dalla luce d'una decisione, dalla speranza di salvare la figliuola; Filippo intuì che era impossibile lottare con un sentimento così forte, il quale aveva l'aureola di qualche cosa di sacro. Egli non poteva opporre che le ragioni del suo amore, cioè di un sentimento comune, fatto di egoismo, di concupiscenza, di orgoglio.

Disse lentamente:

- Loredana penserà che io l' ho tradita, che son venuto apposta a Venezia perché lei andasse a ripigliarsela, dopo quindici giorni...

- Oh no, - interruppe la signora Emma, - io saprò parlarle, e le spiegherò come sono avvenute le cose....

Seguì un breve silenzio. Filippo era sempre seduto, con le labbra bianche, gli occhi annebbiati dal pianto: la signora Emma gli si avvicinò, gli mise una mano sulla spalla, e disse: - Lei non deve opporsi. Dio aiuta le madri. Se lei non mi facesse trovar più la mia Lori a Sirmione, ebbene, scandalo per scandalo: agirei con la forza, come non ho osato fino ad oggi....

Il conte sollevò il viso a fissare la donna, e rispose brevemente:

- Non minacci!

- No, non minaccio, - disse la signora più calma. - È stato Dio che l' ha mandato, per quest'atto di pentimento e di sincerità....

 

Fine Prima parte Capitolo X

Buona lettura.

 
 
 

L'AMORE DI LOREDANA - dello scrittore: Luciano Zuccoli.

Post n°209 pubblicato il 10 Gennaio 2013 da ciapessoni.sandro
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L’AMORE DI LOREDANA – Romanzo dello scrittore: Luciano Zuccoli.

 

 

Immagine: Venezia

Canal Grande

 

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… seguito PARTE PRIMA

***

… seguito seconda parte capitolo VIII – (seguito del post 208)

La contessa lanciò un'occhiata interrogativa a suo figlio, che finse di non vedere e di non comprendere.

Ma quando le dame e il conte Lombardi si congedarono, verso le sette, Filippo si avvicinò a sua madre, le baciò di nuovo la mano sorridendo, e disse:

- Ebbene, mamma, so che tu sei inquieta....

- Sono sdegnata, Flopi, - rispose la contessa Bianca, severamente, pur non potendo abbandonare il diminutivo col quale sempre aveva chiamato il figliuolo. - Sono sdegnata per quello che so e per quello che si dice...

- Quanto a quello che si dice, - osservò Filippo, - non è il caso di curarsene; a Venezia si dice sempre qualche cosa di qualcuno, per ozio e per abitudine. Quanto a quello che sai...

- È questo! - interruppe la contessa, con gli occhi vivi di luce, fissando il figlio. - Tu hai fatto fuggire di casa una onesta ragazza e te la sei portata via; con quale coscienza, con quale diritto? Che ne farai, quando il vergognoso capriccio sarà sazio e non potrai più mentire? Mi spaventa l'idea che tu sia di quelli i quali, per un istante di concupiscenza, osano spezzar la vita d'una donna e abbandonarla a un destino orrendo; e mi sembra anche ridicolo che tu, a trentasei anni, non sappia calcolar l'importanza delle tue azioni e non veda dove tu vai...

Filippo, ch'era seduto in una poltroncina assai bassa, quasi alle ginocchia di sua madre, la guardò più inquieto per la verità semplice e logica delle sue parole, che non per lo sdegno onde s'era imporporato il bel viso pallido di lei.

- Bisogna conoscere gli ambienti, - egli osservò.

- Gli ambienti? – ripeté la contessa. - C'è dunque un ambiente nel quale tu abbia il diritto di non essere onesto? Se questo ambiente esiste, un gentiluomo non deve mettervi piede.

- E dalli! - esclamò Filippo, allungando la mano fino a togliere da un tavolino un astuccio, e accendendo una sigaretta. - Tu sei rigida come la matematica! Non ti dico che io abbia il diritto di essere disonesto; ti dico che ogni colpa ha le sue attenuanti.

La contessa si alzò, passeggiò lentamente pel salotto, a capo chino, meditando; e dopo un istante di silenzio, disse:

- Forse noi non ci comprendiamo. Tu credi che io voglia ascoltare le attenuanti della tua colpa per giudicarti. No, di questo non mi occupo, perché le tue attenuanti non mi commoverebbero, e la colpa è, in ogni caso, alla tua età, nella tua posizione, imperdonabile ed enorme.

Fece una pausa; sedette di nuovo, sopra un divano, all'altro angolo del salotto. La luce morente che entrava dai poggiuoli aperti illuminò i bei capelli candidi della signora e il viso un po' roseo per l'interna agitazione; c'era in quella donna forte ancor qualche cosa di giovane e di fresco, una purezza di linea e d'espressione, che pareva riflettere la purezza del sentimento e del pensiero. Nei suoi occhi non era mai passata un'ombra.

Soggiunse:

- Ma è di lei, capisci? che io mi preoccupo! Di quella, giovinetta, di quella illusa, di quella tua vittima, io voglio sapere. Che ne farai? È spaventevole pensare che tu non abbia il concetto giusto della vita...

Filippo, che stava scuotendo la cenere della sigaretta in un piattino d'argento, alzò la testa.

- No, tu non sai, ancora oggi, che cosa sia la vita, perché non sai che valga una creatura di Dio. Credi che quella fanciulla sia nata pel tuo piacere, che il suo corpo, la sua anima, la sua intelligenza, i suoi sentimenti, la sua speranze, i suoi sogni giovanili, tutto quanto è più misterioso, più delicato, più nobile ed alto in una creatura umana, credi sia stato creato per te, perché tu ne goda e ne abusi, perché tu ne decida come un padrone e un giudice. E di una fanciulla, ti fai una concubina; e di una concubina farai una donna perduta! Mi parli di attenuanti, per questo delitto di prepotenza e di superbia, per questo scandalo, per questa ribellione alla volontà di Dio? Non ce ne sono, non potresti essere scusato che quando tu mi dicessi d'esser diventato pazzo. Soltanto a un pazzo non si chiede conto di ciò che fa; soltanto un pazzo può essere perdonato se reca ingiuria a Dio nelle sue creature...

Sotto quell'irruenza, stretto in quella inesorabilità di logica, toccato nei sentimenti intorpiditi ma sempre vivi coi quali era stato allevato, Filippo non osò replicare. Mormorò soltanto:

- Se non mi lasci dire una parola, mamma...

La contessa si rischiarò in volto e aggiunse con voce subitamente più calma:

- Hai ragione.

- Io non ti posso rispondere, per ora, intorno alla sorte della ragazza, - seguitò Filippo. – Fui travolto da un impeto di passione, ed è giusto che tu mi rimproveri la mia debolezza; ma appunto perché la passione era ed è sincera, non posso risponderti circa l'avvenire che è serbato a me e a quella ragazza.

- Tu mi spaventi! - interruppe la contessa, levandosi in piedi. - Non ho mai udite parole così gravi dalla tua bocca.

- Gravi e leali, mamma, perché non voglio ingannarti, - rispose Filippo, guardando sua madre con occhio tranquillo. - Ma devo aggiungere subito che comunque gli avvenimenti si svolgano, io non dimenticherò né il nome che porto, nè i doveri che ho verso una fanciulla onesta e buona...

- E vai così, alla ventura, senza, un'idea, senza la stessa percezione di ciò che fai? È deplorevole, è veramente deplorevole...

La contessa tacque; aveva, udito, lontano, fin dalle ultime camere, un passo cauto e lento; indi a poco, sulla soglia comparve un valletto in livrea verde scura, e s'inchinò.

- Pranzi in casa, Flopi? - disse con voce mutata la contessa. - Dammi il braccio. Stasera siamo soli.

IX.

Col pretesto di mutarsi finalmente d'abito e d'indossare lo smoking, Filippo salì nel suo appartamento dopo pranzo, e scrisse una lunga lettera a Loredana, che le avversità gli rendevano più cara. Dovette confessarle che il soggiorno a Venezia si sarebbe prolungato oltre le previsioni, perché non gli riusciva di sottrarsi a qualche invito e fors'anche a una gita nelle campagne di suo cognato de Idris.

S'affacciò a una finestra e vide il Canal Grande immerso quasi totalmente nell'oscurità, con qualche linea più nera, una gondola, che passava silenziosa, distinta appena dal fanale piccolo e rossastro. I palazzi, in fila, come spettri bianchi che si dessero la mano, erano muti e chiusi; ai pali innanzi alla gradinata scorse giù alcune gondole ferme, che avevano recato i visitatori, i pochi amici non ancora partiti per la campagna. Le note d'un valzer gli giunsero all'orecchio, e nel Canal Grande, da una gondola lontana, arrivò la strimpellata vivace e improvvisa d'un mandolino. Poi passò una barca, zeppa d'uomini e di donne, illuminata a palloncini, silenziosa; era una serenata, che s'avviava nel bacino di San Marco, presso i grandi alberghi; e di nuovo l'oscurità e la quiete pesante si stesero sul Canale. Filippo discese e passò qualche ora in salotto, a fianco di sua madre. Gli ospiti ridevano ascoltando le chiacchiere del conte Mercatelli, piccolo, pelato, rosso in volto, che magnificava il sonno.

- «Le sommeil», - diceva, rivolto a una francese, madame de la Chaux. - «Le sommeil»; io non conosco che questa voluttà: dormire, dormire, dormire quanto mi è possibile. Se non avessi dormito tanto, avrei fatto certo qualche cosa di straordinario.... Ma dormire mi piace, mi piace troppo! Sembra che l'anima si volatilizzi, che il corpo si riduca in una materia imponderabile.

«Qu'en dit madame de la Chaux»?

E senza aspettare che madama, vestita di violetto scuro, con un merletto prezioso sui capelli grigi, enunziasse una risposta, il conte Mercatelli seguitò:

- «Moi, je vous assure» che l'imprevisto non si trova, se non nel sonno. Dove potreste incontrare qualche cosa che somigli a un sogno, nella realtà d'ogni giorno? Uomini che volano, bestie che parlano, mostri non mai veduti, gioie, terrori, fughe, combattimenti, scene che si dissolvono e si sovrappongono.... «Moi, je vous assure que votre Dumas n'est qu'un imbécile en comparaison de ce romancier inépuisable qui s'appelle rêve....»

Madame de la Chaux ebbe un debole sorriso.

Filippo disse qualche parola, a un domestico, fece preparare il tavolino da gioco, e mentre le dame e le fanciulle ascoltavano quella specie di conferenza sul sonno, egli sedette al tavolino col conte Lombardi, col marchese di Spinea e con Berto Candriani.Berto Candriani era temutissimo per la sincerità pazzesca delle sue parole. Egli diceva ad alta voce tutto quel che pensava e tutto quel che sapeva, a costo di parere insolente o mal educato.

Qualcuno in società aveva espresso il dubbio ch'egli fosse un po' matto, e poiché questa induzione accomodava molte cose, risparmiava la noia di indignarsi e toglieva ogni valore a quanto raccontava, tutti convennero ch'egli era un po' matto e che bisognava lasciarlo fare. Del resto, bel giovane non ancora trentenne, snello, con capigliatura nera foltissima e occhi castagni dallo sguardo pungente, piaceva alle signore, che ne ambivano la lode, perché rara. Egli, quella sera, aveva tentato più volte di dire a Filippo ciò che gli stava fitto in testa dal momento che l'aveva visto; ma il tema della conversazione, la presenza della contessina Fioresi e di qualche altra fanciulla, glielo avevano impedito.

Appena i quattro uomini furono appartati pel giuoco, presso la finestra d'angolo, Berto Candriani disse a Filippo:

- Dunque, come va?

Filippo s'aspettava qualche razzo di quei famosi, ma ormai, dopo le spiegazioni con sua madre, poco gli importava ciò che si poteva dire.

- È vero, - domandò Berto quietamente, - che hai fatto scappar di casa una ragazza?

Il conte Lombardi e il marchese di Spinea, che disponevano le carte nella sinistra, alzarono sbalorditi il capo, e videro Filippo che sorrideva.

- Ti sembra, - egli rispose, - che se avessi una ragazza per le mani, starei qui a giocare?

- Evvia, Flopi! Polvere negli occhi! Non sei mica vecchio per niente, e fai le tue cose benino, pian pianino, in punta di piedi... Insomma, questo è l'ultimo pettegolezzo e dovevo pur dirtelo!

Filippo fece un cenno con la testa, come per ringraziare il Candriani della sua premura; e nell'intervallo seguente, Berto riprese:

- M' hanno detto che è un tesoro, quella ragazza! Una delle nostre più belle e più caratteristiche borghesi...

- Sai che ho buon gusto! - rispose Filippo, sempre sorridendo.

- Già; ma mi dispiace che il cattivo gusto sia dall'altra parte! - mormorò Berto con rammarico sincero.

I giocatori diedero in una risata. Risuonò la voce del conte Mercatelli, che diceva:

- Dormendo circa dodici ore al giorno, io mi trovo benissimo...

- O perché non va a dormire anche adesso? - osservò Berto, senza curarsi di abbassar la voce.

E seguitò la partita; mentre la contessina Giselda Fioresi, che non si divertiva a parlar con le altre fanciulle, dopo aver gironzato qua e là a occhieggiare i vecchi quadri che conosceva da tempo, andò a mettersi alle spalle di Filippo, guardando il giuoco.

- Non so, - disse Berto Candriani, - perché voglia portar fortuna a Flopi, contessina. È già tanto fortunato! Venga dalla mia parte.

Giselda non rispose, e con l'indice sottile indicò a Filippo una carta che doveva giocare. Filippo obbedì.

- Andiamo, andiamo! - esclamò il Candriani. - È proibito immischiarsi nei giochi degli altri. Il giuoco di Flopi è poi così pericoloso! La fanciulla non batté palpebra, e indicò a Filippo un'altra carta. Ma le parole di Berto Candriani le parvero oscure, e trovò conveniente non allontanarsi, per udir qualche cosa di più significante. Alla fine di quel giro, Filippo s'era avvantaggiato molto sugli avversari, e Berto Candriani, mentre il conte Lombardi mischiava le carte, protestò:

- Io la sequestro, tesoro mio! Lei fa vincere Flopi per ridere di noi. Le assicuro che il nostro amico non ha bisogno di lei, proprio non ha nessun bisogno!

- Com'è noioso! - esclamò Giselda. - Stia zitto e tiri avanti!

- Bisognerebbe fargli la cura di Mercatelli, - osservò Filippo. - Se dormisse dodici ore al giorno, sarebbero tante chiacchiere di meno.

Berto diede un'occhiata a Giselda, sempre ritta, alle spalle di Filippo; era giovane e magra; l'abito leggero lasciava trasparir gli omeri scarni e delicati; il corpo esile faceva pensare alla donna futura, non più magra ma snella, non più scarna ma sottile e flessibile. I capelli fulvi, illuminati dalla luce elettrica, davano al volto bianco qualche ombra viva e tagliente.

Fine prima parte capitolo IX

Buona lettura

 

 

 
 
 

L'AMORE DI LOREDANA - Romanzo dello scrittore: Luciano Zuccoli

Post n°208 pubblicato il 03 Gennaio 2013 da ciapessoni.sandro
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L’AMORE DI LOREDANA – Romanzo dello scrittore: Luciano Zuccoli

 

 

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***

… seguito PARTE PRIMA

 

Seguito cap. VII (da post 207)

La Teobaldi fece un mezzo giro sullo sgabello, si ritrovò innanzi al piano e cominciò un galopp.

- «Folletto!» - disse, enunziandone il titolo. - Le piace ballare?

La risposta di Loredana si perdette tra una tempesta di note senza tempo e senza misura, che la vecchia accumulava con frenesia, come se il ballabile le avesse fatto perdere ogni nozione musicale. Ma quel fracasso e la vista della donna che nell'ebbrezza di una danza immaginaria dimenticava anche la presenza di lei, crebbero la tristezza di Loredana; ella si alzò, fece cadere a bella posta il coltellino delle frutta, smosse le sedie e riuscì ad interrompere la musica del «Folletto», che già le pareva, interminabile.

- Ho un po' di emicrania e desidero riposare, - disse alla Teobaldi, che s'era rigirata sullo sgabello. - Spero che scuserà...

- L'emicrania! Ha l'emicrania e non me lo dice! - esclamò l'altra, drizzandosi in piedi. - Vada, vada a riposare; io le porterò una boccetta di sali, un rimedio infallibile... Esco e torno subito...

- No! - disse Loredana bruscamente, atterrita dal nuovo supplizio che la vecchia le minacciava. - Ho bisogno di stare sola. La ringrazio!

La Teobaldi guardò la fanciulla e capì che avrebbe insistito vanamente; la voce l'aveva scossa, aveva sentito un fremito di sdegno e di antipatia in quella che pareva la più docile e la più timida delle ragazze.

- Va bene, va bene, - mormorò. - Buon riposo, dunque; sarà cosa da nulla. Arrivederla, signora...

I suoi occhi cercarono istintivamente di nuovo la mano sinistra di Loredana; e la vecchia, non aggiunse «contessa».

Ma il supplizio della sua presenza, evitato pel momento, si rinnovò più tardi, si rinnovò nei giorni successivi. La Teobaldi, non avendo assolutamente nulla da fare, s'appiccicava alla giovane, l'accompagnava alle Grotte, la seguiva sulla strada di Sirmione, veniva a coglierla quando stava sola in giardino, si presentava in salotto chiedendo di rievocare al piano qualche ballabile antico o qualche canzone della sua giovinezza.

E parlava, parlava, parlava, in dialetto veronese, infaticabilmente; parlava di sé , degli amici suoi, di Loredana, del conte, dei pescatori, di gente del paese che la ragazza non conosceva affatto, dell'orario dei piroscafi, dei trionfi del defunto Teobaldi tenore, dei vini e dei cibi dell'albergo, dei dissapori tra l'oste e l'ostessa, della moda e della cucina, della vita di Venezia, dell'amore antico e dell'amore moderno; e di tutto a rifascio, senza nesso, passando dall'uno all'altro argomento e non mutando mai voce... Una volta domandò:

- Lei, quando si è sposata?

Loredana fremette e sentì che impallidiva; ebbe la tentazione di rispondere seccamente, brutalmente: «Non sono sposata; non voglio commedie!» Ma gliene mancò l'ardire, e balbettò, guardando in un angolo:

- Il mese scorso....

- A Venezia non è vero? - incalzò la Teobaldi.

Loredana non rispose.

Le due donne erano in giardino; la fanciulla sedeva sul parapetto, fissando l'acqua verdastra del lago e i piccoli e i grossi pesci che passavano aspettando qualche manciata di briciole; la vecchia, adagiata in una poltroncina di vimini, lavorava all'uncinetto.

- Già, - disse, tanto per concludere qualche suo pensiero. Poi aggiunse: - Io mi sono sposata a sedici anni, nel... nel...

Ma non trovò subito una data decente, s'imbrogliò e corresse:

- Bei tempi! Si figuri ch'io era bionda come il grano, avevo un busto così, un piedino così...

Loredana, senza badarle, raccolse un pugno di ghiaia e lo gettò nel lago, scompigliando il corteo dei pesci.

VIII.

Arrivato a Venezia, Filippo si recò a palazzo Vagli. Erano le cinque; sua madre riceveva.

Egli, indugiatosi un istante nella grande sala, nella quale non era alcuno, udì le voci che provenivano dal salotto attiguo. Parlavano, a volta a volta, sua sorella contessa Ada de Idris, la contessa Osvaldi, la contessina Fioresi, e dall'acciottolio di chicchere e di piattini si comprendeva che le gentildonne stavano bevendo il tè.

Filippo era per ritirarsi e salire nel suo appartamento, allorché la contessina Fioresi, tutta vestita d'azzurro, uscì correndo dal salotto, vide Filippo che s'era messo innanzi a uno specchio il quale occupava intera una parete, e si mise a ridere.

- Colto in flagrante! - esclamò. - Si fa bello, qui, solo? Ma la contessa Bianca ci annunciava poco fa che lei era in campagna...

- Dalla campagna non si può tornare? - disse Filippo, sorridendo e stringendo la mano alla fanciulla dai capelli fulvi.

- Chi c'è? Chi c'è, Giselda? - chiesero più voci dal salotto.

- C'è Flopi che si arriccia i baffi! - rispose Giselda Fioresi; e ridendo uscì per andare a prendere una cartella di musica.

- Davvero, Flopi? - esclamò la contessa Bianca, apparsa subito sul limitare.

Ella era alta e magra, vestita di scuro; dal volto pallido spirava un'aria di maestà e di dolcezza insieme; gli occhi castani avevano sguardi placidi e dritti; la bocca ben disegnata, col labbro inferiore un po' sporgente, sorrideva volentieri. Tutti i capelli della contessa Bianca erano candidi come neve e un poco ondulati.

Filippo si chinò a baciarle la mano; ella lo baciò in fronte e gli disse, presto, sottovoce:

- Che hai fatto? Che hai fatto?

Ma anche le altre signore apparvero sulla soglia, e Filippo si avanzò per salutarle.

- Dove sei stato fino a oggi? - domandò la contessa Ada de Idris, ch'era bionda e aveva una carnagione rosea delicatissima.

- In giro, sono stato, - rispose Filippo. - Avevo qualche cosa da sbrigare a Milano e a Torino.

La contessa Osvaldi, piccoletta, irrequieta, bruna, diede in una risata; ma Filippo non se ne curò, perché quella rideva sempre.

Tornarono nel salotto, tappezzato di stoffa antica, giallina ad arabeschi tenuemente rosei, che un raggio di sole, penetrando dal balcone prospiciente il Canalazzo, sembrava cospargere d'una imponderabile polvere d'oro.

Ada de Idris, ripreso un discorso interrotto dall'arrivo di Filippo, parlò della campagna. Il conte de Idris era in campagna, e Ada doveva raggiungerlo; poi sarebbero andati a Lucerna, dove l'anno prima s'erano molto affaticati e punto divertiti.

- O perché vi ritorni? - domandò Filippo, prendendo una tazza di tè dalle mani di sua madre.

- -Sai che Leopoldo non vuol campagne romantiche; odia le chaumières...

- E anche ton coeur? - chiese sbadatamente la contessa Osvaldi.

Ma le chiacchiere furono interrotte di nuovo.

Entrò il conte Lombardi, alto e calvo, che, vedendo Filippo, fece un gesto di piacevole meraviglia, andò a baciar la mano alle signore, e disse:

- Tornato?... Io ti faceva così lontano!

- E perché ? - rispose Filippo. - L'ultima volta che ci siamo visti...

- Ma sì, alla stazione, - seguitò il conte Lombardi. - Mi sembravi nervoso, allegro, inquieto...

Filippo, che stava in piedi presso un alto stipo di mogano a fregi d'oro sbiadito, sentì gli sguardi di sua madre.

- Anzi, - continuò il Lombardi, - ti avevo invitato a pranzo, tu avevi accettato, noi ti abbiamo atteso... e ti rivedo ora, da quel giorno!

- Questa è grossa, Flopi! - disse Ada.

- Hai ragione; non so come scusarmi, - convenne Filippo, sorridendo, ma annoiato per quel ricordo.

- Ti dirò io come puoi essere scusato, - rispose il conte Lombardi. - Vieni a pranzo da noi, domani. È detta?

- È detta! – ripeté Filippo, pensando che aveva sperato di ripartire subito, ma che a quel secondo invito bisognava arrendersi.

- Ecco, benissimo, - osservò Ada de Idris. - Domani vai a pranzo da Lombardi, e domani l'altro mi accompagni a Vittorio, da Leopoldo, e ti fermi da noi.

- No, cara, - disse Filippo recisamente. - Ho da fare qui.

- Ha da fare a Venezia, in luglio! - esclamò la contessa Osvaldi, ridendo. - Voi avete da fare a Milano, a Torino, a Venezia! Mi sembrate un ministro...

- Anzi, la negazione d'un ministro, - corresse il conte Lombardi. - Un ministro non ha mai da far nulla, in nessun paese del mondo!

Filippo non seguì oltre la conversazione; s'avvicinò a uno dei poggiuoli, gettò un'occhiata distratta in Canalazzo, dove non passava che una gondola lenta. Quei discorsi, quegli accenni a persone e ad abitudini familiari, quelle amiche, tutto lo annoiava. All'infuori di sua madre, nessuno pareva conoscere l'ultima scappata di lui; ma le poche parole scambiate in quei brevi istanti, gli facevano comprendere che si sarebbe saputo tutto da tutti, poco più tardi.

La sua vita, la vita a Venezia, tra quella società aristocratica tanto esigua di numero, era troppo nota, confidenziale, metodica. Si svolgeva sempre tra le medesime persone, che ripetevano, senz'accorgersi forse, le medesime occupazioni, ogni anno, ogni giorno. Le donne erano strette in gruppi; gli uomini erano stretti in gruppi; nulla poteva sfuggire in quel circolo nel quale egli pure era chiuso da anni. Giselda Fioresi gli passò daccanto col suo fascicolo di musica.

- Dunque, - ella disse. - È stato in campagna? Ora si ferma?

- Le pare? - rispose Filippo. - Fermarmi a Venezia? Credo che la mamma parta a giorni; e io rimarrei qui solo?

- Allora accompagna la mamma, come sempre?...

Come sempre! Egli guardò la fanciulla, che gli stava innanzi, col suo fascicolo sotto l'ascella, il busto eretto, i capelli fulvi arruffati sulla fronte. Era graziosa; gli occhi avevano qualche lampo di malizia, e la bocca, schiudendosi, mostrava bei denti. Filippo si mise a ridere.

- Come sempre? – ripeté . - Io vorrei invece quest'anno far qualche cosa di diverso.

- Ah, bene! - esclamò Giselda. - Allora al Polo Nord, in cerca d'avventure.

- Già, in cerca d'avventure! - mormorò Filippo.

- Mi dispiace. Speravo vederla in campagna!

Filippo s'inchinò leggermente.

- Lei è molto gentile. Ma, le avventure? Le avventure a San Donà?

La fanciulla scosse la testa, lo guardò un attimo, rise con gli occhi:

- Eh, siamo d'accordo! - disse. - Se ha intenzione di fare il matto, San Donà non le conviene. Mi dispiace, ripeto!

Veramente non sapeva nemmeno lei, Giselda, perché la partenza di Filippo le spiacesse, e non sapeva perché andasse ripetendoglielo; ma la vita di quell'uomo aveva il curioso potere di irritarla, a quando a quando. avrebbe voluto mettersi a cavalcioni d'una sedia, accendere una sigaretta e udirlo raccontare ciò che faceva e ciò che pensava. L'ignoranza alla quale era costretta, la pungeva continuamente.

- Bene, - concluse. - Buone avventure, dunque!

- Ma no; non vorrei che desse alle mie parole un significato che non hanno. Intendo fare un piccolo viaggio, ecco tutto! - spiegò Filippo.

- E a me lo racconta? - esclamò Giselda, allontanandosi.

- Che originale! - pensò Filippo con un sorriso, mentre la seguiva con gli occhi.

Ella andò a parlare con la contessa Bianca.

- La ringrazio, - disse, mostrando il fascicolo di musica. - Fra un paio di giorni glielo rendo!

- Ma non importa, bambina! - esclamò la contessa Bianca ridendo. - Fra un paio di giorni io sarò già forse in campagna.

- Sola; perché Filippo va a fare un viaggio. Al Polo Nord, mi ha detto...

 

Fine prima parte capitolo VIII

Buona lettura.

 

 
 
 

L'AMORE DI LOREDANA - Romanzo dello scrittore: Luciano Zuccoli.

Post n°207 pubblicato il 28 Dicembre 2012 da ciapessoni.sandro
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L’AMORE DI LOREDANA – romanzo dello scrittore Luciano Zuccoli.

 

 

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Peschiera del Garda

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… seguito PRIMA PARTE

***

VI puntata del romanzo (… seguito del post 206)

A Venezia, la scomparsa di Loredana De Carolis non aveva sollevato rumore. La fanciulla e sua madre Emma vivevano una vita modesta, fra poche conoscenze e pochi parenti, senza attinenze con la grande società. I vicini di casa, che dopo qualche giorno non videro Loredana al balcone come di solito, credettero fosse partita per la campagna. La madre, atterrita dalle conseguenze dei pettegolezzi, dovette farsi sua complice, e a quelle amiche le quali chiedevano di lei, rispondeva ch'era andata a San Donà, ove ella stessa l'avrebbe fra poco raggiunta.

In fondo, la povera donna non sapeva che fare: solo innanzi all'avvenimento inaspettato aveva compreso ch'ella era stata colpevole, che l'amicizia di Filippo alla quale aveva creduto così stupidamente non poteva non mutar forma, e ch'ella avrebbe dovuto, per la salvezza di sua figlia, mettere alla porta Filippo con una mano e Adolfo con l'altra.

Per acquietare Adolfo, la signora Emma inventò dapprima delle bugie: Loredana era uscita, poi stava poco bene, poi era a letto con un male a un piede. Ma la faccia pallida della signora, e qualche cosa strana in tutta la casa e il contegno misterioso della donna di servizio, che voleva bene alla signorina, odiava Adolfo il quale non le aveva mai dato un soldo, amava il conte Vagli ch'era stato sempre con lei generoso, e infine approvava pienamente la fuga e la trovava proprio stupenda: - qualche cosa strana, inusata, - avvertì Adolfo Gianella che lo si voleva ingannare.

E quando la signora De Carolis dovette finalmente dire che Loredana non era a Venezia, ma, rifugiatasi presso alcuni parenti, dichiarava di non voler più a nessun patto sposare Adolfo, quest'ultimo s'accasciò d'un colpo; la superbia, l'albagia, la cieca sicurezza in se stesso, la esperienza del cuore femminile onde egli andava tanto orgoglioso, tutto precipitò in un attimo.

Pianse e poi diventò violento. Voleva vedere la fanciulla, persuaderla, prometterle di cambiar carattere.

Per più giorni la signora De Carolis ebbe la casa assediata dai parenti di Adolfo; chi la rimproverava, chi la chiamava pazza, chi gridava al tradimento, e tutti chiedevano l'indirizzo della fanciulla per farle mutar pensiero. La signora Emma dovette tener testa a quei furiosi e seguitare a ripetere che rispettava la volontà di sua figlia e non voleva influire sulla sua decisione. Adolfo minacciò di girare l'intera provincia alla ricerca della scomparsa; poi minacciò di uccidersi; ma non fece né una cosa né l'altra, e la signora De Carolis notò ch'egli non era meno roseo o meno grasso del consueto.

- Vedremo, - egli diceva, - vedremo chi sarà il fortunato che sposerà sua figlia! Sono proprio curioso di conoscerlo!

Egli era certissimo che un miglior marito di lui Loredana non avrebbe mai potuto trovare; e cercava intanto nell'amor proprio offeso un principio di consolazione.

- Non era degna di te! - dichiarava la signora Gianella ad Adolfo. - Forse è una fortuna che questo matrimonio vada in fumo!

- Non era degna! - pensò finalmente anche Adolfo, rinunziando al suicidio. - Dopo tutto, era senza un soldo e non aveva che superbia!

I parenti di lui lasciarono in pace la signora De Carolis, che per quelle emozioni s'era fatta palliduccia e magra in una settimana; ma non trascurarono le occasioni di parlar male di lei e di sua figlia, la quale aveva respinto un così bel «partito». I più allegri furono i colleghi di Adolfo, che non potevano soffrirlo; essi risero quando seppero che la sua fidanzata lo aveva messo alla porta; uno rammentò l'aria d'importanza ch'egli si dava quando spiegava loro la psicologia del cuore femminile; un altro ne imitò i gesti quando, nei giorni di molto lavoro, mangiava in ufficio e la sua testa spariva dietro il fumo di una «minestrina» che sarebbe bastata per quattro; un terzo ricordò ch'egli andava superbo della intelligenza della sua fidanzata.

- Perdio! - esclamò quest'ultimo. - Bisogna dire ch'egli avesse ragione, perché il calcio che la ragazza gli ha dato, prova ch'era intelligente davvero!

Gli altri risero, e la fanciulla ignota diventò simpatica a tutti gli impiegati della Banca.

VII.

Loredana e Filippo vissero a Sirmione alcuni giorni di felicità senza pari; lungi dagli sguardi indiscreti, non conosciuti, sicuri l'un dell'altra, s'immaginavano d'essere in qualche isola perduta nell'Oceano. Tutto era bello.

Le grotte di Catullo, i ruderi maestosi e robusti, che l'erba circonda, che il vento accarezza, che il sole riscalda, parvero loro una cosa divina. Di là essi ammiravano la grandiosità del lago, ora illuminato con cruda forza, ora soffuso di nebbia, leggera come un pulviscolo; e seduti, verso il tramonto, ai piedi del promontorio, dove le rocce levigate sorgono dall'acqua limpidissima, i due amanti stavano spesso in silenzio a guardare, raccolti e commossi, ciascuno sentendo d'essere troppo felice e temendo che l'incanto si svagasse presto.

Qualche volta uscivano con la barca, una barca tozza a guisa di canotto, che danzava bene sulle onde; remava Filippo e l'amica sua stava a poppa, dapprincipio un po' timorosa e poi contenta come una bambina. Ella era ormai tranquilla; aveva ricevuto due lettere dalla mamma, respinte da Napoli a Roma, da Roma a Firenze, da Firenze a Brescia e a Sirmione per mezzo di amici fidati di Filippo; e in quelle lettere non un'imprecazione, non un rimprovero; solo una ineffabile tristezza, che la fanciulla sapeva di poter calmare con buone parole. La mamma dava le notizie della famiglia Gianella e di Adolfo, che seguitava a mangiare e a parlar di suicidio. La mamma non malediceva, non rimproverava, non faceva minacce; era sola, e tra le righe delle lunghe lettere si poteva leggere l'espressione dell'unico desiderio di lei, che la figlia tornasse, che la solitudine finisse.

Al principio della terza settimana, Filippo si decise finalmente a recarsi per poco a Venezia; Loredana volle accompagnarlo fino a Peschiera, in carrozza, e là, quando lo vide salire in treno e salutare mentre il treno si rimetteva in moto, la giovane ebbe una fitta in cuore. Tornò a Sirmione in carrozza, con gli sguardi perduti, colla mente presa dai pensieri più strambi, immaginando che Filippo non dovesse più rivederla, che sua madre lo facesse arrestare, che qualcuno potesse ucciderlo. Le era parso molto preoccupato al momento di abbracciarla, come egli pure temesse qualche cosa nuova e imprevedibile.

Ella non vide la strada; sentì che la carrozza si fermava, si guardò intorno, riconobbe il piccolo albergo, discese.

Al momento di pagare, non trovò moneta. Filippo le aveva lasciato cento lire in un biglietto; ma mentre ella si volgeva per incaricare la padrona di pagare il vetturale, la signora Clarice Teobaldi, dalle sopracciglia al nerofumo, comparve improvvisamente e si offerse.

- Lasci, lasci, signora contessa, - ella pregò con la voce forte e melata. - Mi permetta che le presti io...

Trasse dal borsellino alcune monete d'argento, le diede al vetturale, gli disse che bastavano per una corsa a Peschiera, che la signora contessa non era un'inglese da svaligiare, ebbe un breve alterco, e finì per vincerla.

- Con questa gente bisogna andar cauti, - osservò poi, mentre si metteva a fianco di Loredana ed entrava con lei nell'albergo. - Sono abituati coi forestieri; ma noi siamo italiani...

Lanciò alla fanciulla un'occhiata ammirativa, e aggiunse:

- E che bel sangue italiano!... Il signor conte è partito?

- Sì, - disse Loredana, fermandosi ai piedi della scala, mentre il volto esprimeva ingenuamente una noia senza pari.

- Tornerà presto, si capisce, - seguito la signora Clarice per conto proprio. - Non vuol mica lasciare a lungo un fiore così bello, abbandonato in questo selvaggio paese.

- Oh il paese è magnifico! - rimbeccò la ragazza, offesa che si criticasse ciò che piaceva a Filippo.

- Sì, ma in due lo si ammira meglio! - disse argutamente la signora Clarice.

- Mi perdoni, - interruppe Loredana, salendo le scale. - Le manderò subito ciò che mi ha prestato. La ringrazio...

- Di che? Lei deve disporre di me, signora contessa, come d'una vecchia amica, come d'una mamma...

Dall'alto delle scale, Loredana lanciò alla donna un'occhiata furibonda. Voleva farle da mamma, quella vecchia stopposa? Non l'aveva lei, la madre sua, tanto buona?

Quando fu in camera si gettò sul letto a piangere.

Quella settimana doveva essere un inferno, a giudicar dalle prime ore. Senza Filippo, senza la mamma, col titolo di «signora contessa» che le facevano tuonare all'orecchio ogni istante e che aveva per lei un significato d'ironia, Loredana si sentiva perduta. Fissò la tappezzeria della camerina da letto, una tappezzeria cilestre a fiori mavì, che parevano piccoli cavoli o piccole teste rincorrentisi in lunghe file verticali e orizzontali; si mise a contar quei segni, a guardar gli spazi cilestri tra fiore e fiore; e restò così, con gli occhi rossi e velati, fin che l'albergatrice non le recò la colazione, disponendola sulla tavola del salotto. La fanciulla voleva restare sola tutto quel giorno, tutto il tempo che Filippo fosse rimasto assente; ma aveva appena bevuto l'ultimo sorso di caffè, che udì battere all'uscio.

- Avanti! - disse.

E invece dell'albergatrice, essa vide comparire la Teobaldi, sorridente e incerta.

- Mi perdoni, signora contessa, - cominciò questa, ferma sul limitare. - Ho pensato che lei era sola e che forse avrebbe gradito di scambiar qualche parola con una persona più intelligente che quella povera donna... Io sono vecchia, ho visto molte cose a questo mondo, ho sofferto, e valgo di più, modestia a parte, dell'albergatrice... Mi permette?

- Prego.... - mormorò Loredana, stupefatta d'un'audacia della quale non aveva ancora idea.

La Teobaldi s'avanzò guardandosi intorno.

- Ah, molto ben messo, molto carino! - disse. - Come si sente la mano della donna, d'una signora! Ma s'io fossi una signora come lei, indiscrezione a parte, non verrei in un paese bizzarro come questo. Ci sono tanti bei siti, in Cadore, nella Svizzera, nella Scozia, nel Caucaso...

Ella sedette presso la tavola, di fronte a Loredana, la quale non sapeva che cosa dire e che cosa fare.

- Oh ecco il pianoforte! - esclamò la Teobaldi. - Lei suona il pianoforte?

- No, - rispose la fanciulla.

- Peccato! Io suono e canto. Ah sono stata una cantante, modestia a parte, coi fiocchi; e compongo anche; ho delle romanze scritte da me. Tamagno ne ha cantata una l'anno scorso.

Loredana s'accorse che la Teobaldi le cercava con gli occhi la mano sinistra, che la fanciulla teneva sul grembo, mentre aveva l'altra distesa sulla tavola. E capì; l'intrusa voleva vedere se portava l'anello nuziale.

La giovane se ne sentì così turbata, che la fronte le s'imperlò di sudore. Non aveva pensato a quel particolare; veramente non aveva pensato di dover trovarsi mai a conversare con una persona che non fosse Filippo; e ora, se la Teobaldi avesse scoperto ch'ella non aveva l'anello nuziale, avrebbe capito tutto.

- Ah, lei canta! - disse.

Si decise. Levò la sinistra dal grembo e si mise a giocherellare col laccio argenteo del tovagliolo; gli occhi della Teobaldi le si fissarono sulla mano e il suo volto carico di biacca non disse nulla.

- Canto per diletto, da povera vecchia, - seguitò malinconicamente.

S'alzò, traversò il salottino e andò a sedere innanzi al pianoforte, sullo sgabello di reps rosso; le mani corsero agilmente sulla tastiera, mentre la testa accompagnava il ritmo con voluttuoso abbandono.

- «Mon rêve», - annunziò d'un tratto. - Il mio sogno!

Era una romanza, per soprano. La Teobaldi lanciò alcuni trilli preliminari, così acuti che

parvero lacerar l'aria, poi iniziò una nenia lagrimosa con un ritornello singhiozzante; la cantatrice tremolava da capo a piedi, e le si agitavano i riccioli grigi sulla fronte; essa aveva gli occhi levati in alto, quasi a cercare il suo sogno tra gli arabeschi stampati del soffitto.

A Loredana parve che stonasse due o tre volte; del resto la fanciulla non sapeva se ridere o piangere, se gridar di rabbia per quella visita sfacciata o cercar di svagarsi al grottesco spettacolo.Pensava a Filippo, che le note tristi del piano e la cantilena funebre le facevano desiderare ancor meglio, con un impeto disperato e selvaggio. Dov'era? Che faceva? Egli pure la desiderava, così, la cercava con la mente e col cuore? E aveva visto la mamma sua?

Un grido straziante interruppe il suo pensiero; la, vecchia aveva finito e restava con la bocca spalancata, con gli occhi fissi al soffitto e i riccioli definitivamente sciolti sulla fronte, come fulminata, dalla passione traboccante. Ma non udendo parola di elogio, si girò sullo sgabello, guardò la ragazza, e disse:

- Eh?...

- Canta molto bene, - rispose Loredana.

- No; non voglio complimenti. Ma che bella romanza, eh?

- Bellissima.

- C'è tutta un'anima qua dentro! Già, io mi commuovo troppo!

Loredana vide infatti che la vecchia aveva gli occhi lucidi per le lagrime, e si dolse di non poter piangere a sua volta per quel «Mon rêve» ch'era così diverso da quello che la fanciulla aveva in cuore.

Fine prima parte VI Puntata

Buona lettura.

 
 
 

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