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Il prigioniero coreano

Post n°15647 pubblicato il 20 Marzo 2020 da Ladridicinema
 

Nam Chul-woo è un povero pescatore nordcoreano che nella sua barca ha l'unica proprietà e l'unico mezzo per dare da mangiare a sua moglie e alla loro bambina. Un giorno gli si blocca il motore mentre sta occupandosi delle reti in prossimità del confine tra le due Coree e la corrente del fiume lo trascina verso la Corea del Sud. Qui viene preso sotto controllo delle forze di sicurezza e trattato come una spia. C'è però chi non rinuncia all'idea di poterlo convertire al capitalismo lasciandogli l'opportunità di girare, controllato a distanza, per le strade di Seoul.

Kim Ki-Duk torna al suo cinema delle origini, quello che lo fece conoscere al pubblico di tutto il mondo per l'attenzione che prestava agli emarginati dalla società e per la durezza di alcune situazioni portate sullo schermo.

Lo fa con il suo film forse più esplicitamente politico, destinato a non piacere né al di qua né al di là del 38° parallelo. Si può essere certi che al Nord non lo vedranno mai ma di sicuro anche al Sud non avrà vita facile. Perché il regista ha la consapevolezza di proporre una lettura decisamente scomoda per entrambe le parti in causa.

Il povero pescatore, colpevole solo di non aver voluto perdere, salvandosi a nuoto, la propria barca raggiunge quello che per la propaganda del duro regime di Kim Jong il è l'inferno capitalistico dinanzi al quale bisogna chiudere gli occhi per non correre il rischio di esserne tentati. Nam Chul-woo crede nel regime e i funzionari sudcoreani, seppur divisi sul da farsi, non fanno molto per confutare le sue credenze. C'è chi è dotato di un'arroganza di segno uguale e contrario a quella dei potenti del Nord e non mancano anche segni deteriori della società (ad esempio la prostituzione) che inducono quest'uomo semplice a chiedersi in cosa consista la democrazia. Gli verrà risposto con una frase emblematica: "Dove c'è una forte luce c'è sempre anche una grande ombra".

 
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