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Messaggi di Gennaio 2015

 

Il Neorealismo - Intervista a Francesco Rosi

Post n°12075 pubblicato il 10 Gennaio 2015 da Ladridicinema
 
Tag: news, STORIA

 
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Il caso Mattei

Post n°12074 pubblicato il 10 Gennaio 2015 da Ladridicinema
 
Tag: trailer

 
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Salvatore Giuliano

Post n°12073 pubblicato il 10 Gennaio 2015 da Ladridicinema
 
Tag: trailer

 
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Post n°12072 pubblicato il 10 Gennaio 2015 da Ladridicinema

 
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Morto Francesco Rosi, addio al grande regista di «Mani sulla città». Aveva 92 anni da il mattino

Post n°12071 pubblicato il 10 Gennaio 2015 da Ladridicinema
 
Tag: news, STORIA

Si è spento a Roma a 92 anni. Lunedì cerimonia civile alla casa del cinema

Dopo Pino Daniele, Napoli perde un altro immenso protagonista della cultura. E' morto infatti Francesco Rosi, regista di capolavori indelebili come "Mani sulla città", "Cadaveri eccellenti", "Lucky Luciano", "Diario Napoletano". Aveva 92 anni. Il maestro del cinema italiano sarà celebrato in una cerimonia civile lunedì mattina, 12 gennaio, a partire dalle 9, alla Casa del cinema di Roma. Alle 12 lo ricorderanno i suoi amici più cari.

Rosi è morto a Roma, dove si era trasferito parecchi anni fa dopo una gioventù fervente a Napoli. Nella città partenopea frequentò il liceo Umberto nello stesso periodo in cui studiavano Giorgio Napolitano, Raffaele La Capria, Antonio Ghirelli.

Nel 1946 iniziò la sua carriera nel mondo dello spettacolo come assistente di Ettore Giannini per l'allestimento teatrale di «'O voto» di Salvatore Di Giacomo. Fu regista di Luchino Visconti per i film «La terra trema» (1948) e «Senso» (1953), e dopo varie sceneggiature (Bellissima, 1951, Processo alla città, 1952) gira alcune scene del film «Camicie rosse» (1952) di Goffredo Alessandrini. Nel 1956 co-dirige con Vittorio Gassman il film «Kean - Genio e sregolatezza».

Nel 1958 diresse il suo primo lungometraggio, «La sfida», che ottenne il consenso di critica e pubblico. L'anno successivo diresse Alberto Sordi in «I magliari» (1959), nel quale l'attore romano è un immigrato, che fa la spola tra Amburgo e Hannover e che si scontra con un boss napoletano per il controllo del mercato delle stoffe.

Inaugurò il florido filone dei film-inchiesta, ripercorrendo la vita di un malavitoso siciliano attraverso una serie di lunghi flashback in «Salvatore Giuliano» (1962), e l'anno successivo diresse «Rod Steiger» nel suo capolavoro «Le mani sulla città» (1963), nel quale denunciò le collusioni esistenti tra i diversi organi dello Stato e lo sfruttamento edilizio a Napoli. La pellicola fu premiata con il Leone d'Oro al Festival di Venezia.

Dopo «Il momento della verità» (1965), Rosi si concesse una migrazione in un film favolistico «C'era una volta...» (1967), con Sophia Loren e Omar Sharif, anche se Rosi aveva inizialmente richiesto per la parte Marcello Mastroianni.

Negli anni settanta tornò ai temi di sempre rappresentando l'assurdità della guerra con «Uomini contro» (1970), parlando della scottante morte di Enrico Mattei in «Il caso Mattei» (1972) e «Lucky Luciano» (1973), tutti con grandi prove di Gian Maria Volontè.

Notevole successo ebbe il capolavoro «Cadaveri eccellenti» (1976, tratto dal romanzo Il contesto di Sciascia), con Lino Ventura. In seguito realizzò la versione cinematografica di «Cristo si è fermato a Eboli» (1979), tratto dall'omonimo romanzo di Carlo Levi e sempre con Volonté protagonista.

Dopo un altro successo come «Tre fratelli» (1981), con Philippe Noiret, Michele Placido e Vittorio Mezzogiorno, diresse un adattamento cinematografico della «Carmen» (1984) con Plácido Domingo. Successivamente lavorò a «Cronaca di una morte annunciata» (1987), tratto dal romanzo di Gabriel García Márquez, che riunì un grande cast: Gian Maria Volontè, Ornella Muti, Rupert Everett, Anthony Delon e Lucia Bosè; il film fu girato in Venezuela ed in Colombia (Mompox).

Girò poi «Dimenticare Palermo» (1990), con James Belushi, Mimi Rogers, Vittorio Gassman, Philippe Noiret e Giancarlo Giannini. Tornò alla regia teatrale con le commedie di Eduardo De Filippo: «Napoli milionaria», «Le voci di dentro» e «Filumena Marturano», tutte interpretate da Luca De Filippo. Nel 2005, per il film «Le mani sulla città», gli verrà conferita la laurea ad honorem in «Pianificazione territoriale urbanistica ed ambientale» presso l'università Mediterranea di Reggio Calabria.

Nel 2008 - come riporta Wikipedia - gli è stato assegnato l'Orso d'Oro alla carriera al Festival di Berlino, nel 2009 la Legione d'Onore, nel 2010 l'Alabarda d'oro alla carriera e il 10 maggio 2012, il Cda della Biennale di Venezia approva all'unanimità la proposta del suo direttore, Alberto Barbera, di conferire il Leone d'oro alla carriera al regista in occasione della 69ª edizione della mostra. Nel 2013 alla presenza del Ministro dei beni culturali Massimo Bray, gli viene consegnata la cittadinanza onoraria della città di Matera.

Ultimamaente, al suo «discepolo» Tornatore che nel libro a quattro mani «Io lo chiamo Cinematografo»(Mondadori, 2012) lo incitava a tornare sul set non rispondeva «sono stanco» ma «il mestiere del regista richiede grande energia fisica e non so se l'avrei più. So invece che in quest'Italia è difficile fare cinema e che la realtà si degrada così in fretta che il suo passo è troppo più frettoloso di quello del cinema. Rischierei di raccontare un paese che già non c'è più». E riguardandosi indietro aggiungeva: «Il cinema, allora, era una grande famiglia, è vero. C'era un rapporto di comprensione, anche di affetto. Poi ci sentivamo tutti parte di una grande avventura, far rivivere sullo schermo la vita.» In quello stesso 2012 Francesco Rosi era sul palcoscenico della Mostra di Venezia per ricevere il Leone d'oro alla carriera. Un premio in più in una carriera che già gli aveva regalato il Leone d'oro per Le mani sulla città, la Palma di Cannes per Il caso Mattei, la Legion d'onore, i tributi alla carriera di Locarno e Berlino, per non parlare di Grolle, David, Nastri, caduti a pioggia su ogni titolo della sua formidabile filmografia. Anche in occasione dell'ultimo premio veneziano la sua lezione è venuta forte e decisa: «Fare cinema - ha detto - significa contrarre un impegno morale con la propria coscienza e con lo spettatore. Gli si deve l'onestà di una ricerca della verità senza compromessi.

 
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E' morto Francesco Rosi, regista che sfidava la verità da ansa

Post n°12070 pubblicato il 10 Gennaio 2015 da Ladridicinema
 
Tag: news, STORIA

Uno dei grandi del cinema italiano, aveva 92 anni LA SCHEDA SU ANSA CINEMA

E' morto stamattina a Roma il regista Francesco Rosi, aveva era nato a Napoli il 15 novembre del 1922. Uno dei grandi del cinema italiano, Leone d'oro alla carriera nel 2012, già Leone d'oro (Le mani sulla città), Palma a Cannes (Il caso Mattei), Legion d'onore, e tributi alla carriera a Locarno e Berlino, per non parlare di Grolle, David, Nastri. 

 

Francesco Rosi sarà celebrato in una cerimonia civile lunedì mattina, 12 gennaio, a partire dalle 9, alla Casa del cinema di Roma. Alle 12 lo ricorderanno i suoi amici più cari.

Il regista che sfidava la verità 
(di Giorgio Gosetti)

Si guardava indietro, come in un cannocchiale rovesciato, e vedeva un'altra Italia, un altro mondo, un'altra società, ma non ha mai smesso di sentirsi dentro il suo tempo. Francesco Rosi era nato a Napoli il 15 novembre del 1922, una manciata di mesi dopo Carlo Lizzani, appena più vecchio di Franco Zeffirelli che divise con lui gli esordi sul set di Visconti, poco dopo che Lizzani imparava invece l'alfabeto del cinema da Rossellini.

 

A raccontarla oggi sembra la vita di artisti mitici, appena ammantati dalla gloria del loro tempo e del loro talento, ma Rosi era invece combattivo, vitale, rabbioso e generoso come i suoi film, fino all'ultimo. Appena pochi mesi fa era al Cinema America di Roma, occupato da un pugno di ragazzi appassionati di cinema, per parlare con loro di film, di vita, di politica. Al ''discepolo'' Tornatore che ancora nel bellissimo libro a quattro mani Io lo chiamo Cinematografo (Mondadori 2012) lo incitava a tornare sul set non rispondeva ''sono stanco'' ma ''il mestiere del regista richiede grande energia fisica e non so se l'avrei più. So invece che in quest'Italia è difficile fare cinema e che la realtà si degrada così in fretta che il suo passo è troppo più frettoloso di quello del cinema. Rischierei di raccontare un paese che già non c'è più''. E riguardandosi indietro aggiungeva: "Il cinema, allora, era una grande famiglia, è vero. C'era un rapporto di comprensione, anche di affetto. Poi ci sentivamo tutti parte di una grande avventura, far rivivere sullo schermo la vita." In quello stesso 2012 Francesco Rosi era sul palcoscenico della Mostra di Venezia per ricevere il Leone d'oro alla carriera. Un premio in più in una carriera che già gli aveva regalato il Leone d'oro per Le mani sulla città, la Palma di Cannes per Il caso Mattei, la Legion d'onore, i tributi alla carriera di Locarno e Berlino, per non parlare di Grolle, David, Nastri, caduti a pioggia su ogni titolo della sua formidabile filmografia. Anche in occasione dell'ultimo premio veneziano la sua lezione è venuta forte e decisa: ''fare cinema - ha detto - significa contrarre un impegno morale con la propria coscienza e con lo spettatore. Gli si deve l'onestà di una ricerca della verità senza compromessi. Più ci si addentra nel reale e più si ha coscienza che la certezza del vero e del giusto non esiste. Ma quel che conta è la nitidezza della ricerca''.

Difficile negare che in film come Le mani sulla città, Salvatore Giuliano, Il caso Mattei, Uomini contro, Lucky Luciano, fino ai profetici Cadaveri eccellenti e Dimenticare Palermo, l'aspirazione etica sia andata di pari passo con un'arte cristallina. Figlio di borghesi napoletani (il padre gestiva una compagnia marittima), laureato in legge, attratto da una carriera di illustratore per bambini che gli rimarrà in fondo all'anima, il giovane Francesco ha per amici intellettuali e politici come Raffaele La Capria, Giuseppe Patroni Griffi, Giorgio Napolitano, Luchino Visconti. E' il grande regista, incontrato a Roma subito dopo la guerra, a scovare la sua piena vocazione al cinema. Rosi sarà assistente di Visconti per La terra trema (1948), sceneggiatore di Bellissima (1951), collaboratore in Senso (1953). Tre anni dopo dirige il suo primo film, La sfida. Se l'esordio è debitore del taglio neorealista del primo Visconti e il successivo I magliari fa i conti con la trasformazione di quel movimento verso diversi territori del realismo, con Salvatore Giuliano (1962) nasce uno stile che è originale e molto imitato. Si è detto film-inchiesta perchè la dittatura della verità porta il regista a muovere sempre da indagini scrupolose, ma con gli occhi di oggi quei film segnano lo spartiacque tra il cinema-documento e il cinema della finzione. Non era stato così ai tempi di Paisà e Ladri di biciclette in cui il tema della distanza tra verità e ricostruzione non si poneva. Rosi lo pone facendosi forte della tenacia del giornalista, del rivendicato soggettivismo dello storico e della libertà dell'artista. Nasce con lui una nuova nozione di realismo che si confronta anche con lo stile del miglior cinema americano: una scuola che Rosi non ha mai negato, tanto da non farsi scrupolo di averne i grandi interpreti come Rod Steiger, quando altrove ricorreva a non professionisti o al suo attore-feticcio Gian Maria Volontè. E non a caso chi parla di una scuola italiana del noir, accosta il nome di Rosi (e di Sciascia) al percorso del noir americano d'impronta sociale. Sui film di Francesco Rosi, in una carriera che non può essere certo limitata alle grandi inchieste (basta pensare al filone storico da Uomini contro a La tregua, da Cadaveri eccellenti a Cristo si e' fermato a Eboli), si e' scritto moltissimo. Tra tutti il bellissimo saggio-intervista di Michel Ciment e la biografia, quasi il romanzo di una vita "catturato" da Giuseppe Tornatore in un dialogo che rivaleggia con quelli tra Bogdanovich e Ford, fra Truffaut e Hitchcock. Ma nessuna parola può restituire la sensazione tattile di quelle grandi mani, quasi da artigiano, la fierezza dello sguardo che sembra scrutare la verità nascosta delle cose, la testa da generale romano e il passo da napoletano illuminista. Quando entrava in una stanza sembrava occuparla tutta e intorno a lui si faceva subito silenzio. Il vecchio leone, rimasto solo con la figlia Carolina dopo la tragica scomparsa della moglie Giancarla due anni fa, non ha mai smesso di ruggire. Se n'è andato in silenzio, nella sua bella casa-studio a Via Gregoriana, circondato dall'affetto di amici e discepoli che di lui hanno amato la schiettezza, il rigore, la passione e l'umanità. Ma Rosi amava ridere, la sua prima folgorazione cinematografica era stata Charlot, suonava e ballava la musica di Count Basie, ascoltava i Jethro Tull, Chet Baker, la grande opera. E per lui la scena - si trattasse della piana di Portella della Ginestra rievocata per Salvatore Giuliano o la Spagna reinventata in una memorabile Carmen - aveva i colori di Napoli. Una città mai dimenticata, sempre narrata con spietata verità e affetto.

 

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Francesco Rosi e Giuseppe Tornatore: Io lo chiamo cinematografo da Panorama

Post n°12069 pubblicato il 10 Gennaio 2015 da Ladridicinema
 

Nel libro, il grande regista de Le mani sulla città si racconta al più giovane collega, in un percorso che unisce professione e vita personale, attraverso la storia del cinema italiano del Novecento
Getty Images

Francesco Rosi e Giuseppe Tornatore – Credits: Getty Images

Duecento lunghe ore di conversazione, seduti l'uno di fronte all'altro con il registratore tra di loro a immortalare frasi, aneddoti, episodi, ricordi personali che coinvolgono l'epoca più prestigiosa della cinematografia italiana del Novecento. Il primo dei due personaggi è Francesco Rosi, tra i più grandi registi italiani di tutti i tempi, il Maestro. L'altro, che raccoglie le inedite testimonianze e contemporaneamente le elabora, è il collega più giovane, Francesco Tornatore. Il risultato di tale lavoro certosino, durato due anni, è il volume Io lo chiamo cinematografo, autori Francesco Rosi e Giuseppe Tornatore, edizioni Mondadori.

La particolarità della lunga intervista raccolta nel libro è la capacità di Tornatore di essere in sintonia professionale con il collega più anziano: caratteristica essenziale per interpretare ogni dettaglio dei ricordi con la sensibilità di chi fa lo stesso mestiere. Il lettore intuisce, fin dalle prime pagine, come quell'alchimia artistica tra i due si traduce in un racconto dai risvolti umani che un giornalista comune,senza la giusta cultura cinematografica, non sarebbe mai riuscito a scrivere. Sceneggiatore, produttore cinematografico e montatore, oltre che regista, Tornatore, nel libro, sottolinea come Rosi, oggi novantenne, sia stato tra i primi ad affrontare, sul grande schermo, tematiche legate alla mafia e alla criminalità organizzata in un'epoca in cui non si poteva pronunciare neppure la parola "mafia".

Come in ogni biografia che si rispetti, il protagonista inizia dai primissimi ricordi personali. E' stato il padre a fargli scoppiare dentro l'amore per il cinema. Un giorno lo condusse a vedere Il monello con Charlie Chaplin.Dinanzi a quelle immagini il piccolo Francesco ebbe una sorta di premonizione: capì di non poter fare altro nella vita che dedicarsi al grande schermo, ma soprattutto intuì quale contributo avrebbe potuto dare al racconto cinematografico interpretandolo alla sua maniera."La mia educazione" svela Rosi, "avvenne sui testi e sulle idee di Giustino Fortunato e Gaetano Salvemini. Da allora pulizia morale e regole etiche sono state al centro della mia vita".

Ma c'è di più: il padre di Francesco Rosi, che di mestiere era responsabile di un'agenzia marittima privata, oltre la passione per il cinematografo, amava anche la fotografia ed era un ottimo disegnatore e caricaturista. Lavorava per una serie di giornali napoletani che lo inviavano sui campi di calcio a ritrarre "umoristicamente" i giocatori dell'allora gloriosa squadra napoletana. Quando, invece, era a casa, amava ritrarre il piccolo Francesco in diferenti situazioni, persino quando si addormentava sul seggiolone, dopo aver mangiato. Anzi, alcune di quelle immagini gli servirono in seguito come manifesti pubblicitari.Nel tentativo di inculcare al figlio l'amore per il cinema, Francesco Rosi intravede, oggi, l'intenzione nascosta del genitore di avviarlo sulla strada che lui non aveva mai avuto il coraggio di percorrere: quella dell'arte cinematografica. E bisogna riconoscere che il fine fu presto raggiunto. "Anni dopo" dice Rosi nel libro, "ero talmente cine-.dipendente, che trascorrevo i pomeriggi nelle sale. Una volta vidi per ben quattro volte consecutiveLa tragedia del Bounty, senza avere la forza di muovermi dalla sedia, in costante attesa che le immagini tornassero sulla schermo. Per me era sempre come se le vedessi per la prima volta. Tentavo di imprimere nella mente ogni dettaglio, ogni frase pronunciata dagli attori, ogni particolare dell'ambientazione e dei paesaggi.

Gli incontri con i grandi maestri del Novecento cinematografico italiano rappresentano le pagine salienti del libro. Luchino Visconti viene ricordato da Francesco Rosi, che lo ammirava incodizionatamente, per il rigore e la precisione con cui svolgeva il suo lavoro. Caratteristiche che spesso facevano apparire il regista una sorta di dittatore sul set. "Ma io" svela Rosi, "ero disposto a perdonargli tutto, pur di stargli accanto e imparare da lui".Rosi fu aiuto regista di Visconti per i film La terra trema e Senso. Ed ebbe anche una grande stima per Vittorio De Sica e Alessandro Blasetti, le cui pellicole furono determinanti per incamminarlo sulla strada del cinema.

E poi il Maestro si abbandona ai ricordi sugli attori che ha diretto nei suoi film. Qualche nome: Sophia Loren, Omar Sharif,  Marcello Mastroianni, Vittorio Gassman, Albero Sordi. Sul film-inchiestaSalvatore Giuliano del 1962 e sul successivo Le mani sulla città, gli episodi inediti e le curiosità svelati per la prima volta, sono davvero imperdibili.

Titolo: Io lo chiamo cinematografo

autori: Francesco Rosi e Giuseppe Tornatore

edizioni Mondadori

pagine 470, 18 euro.

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© Riproduzione Riservata

 
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"Io sono il cinematografo": faccia a faccia Francesco Rosi e Giuseppe Tornatore

Post n°12068 pubblicato il 10 Gennaio 2015 da Ladridicinema
 

Pubblicato: 28/11/2012 13:40 CET Aggiornato: 04/06/2013 19:09 CEST
TORNATORE

Giuseppe Tornatore ha passato molti pomeriggi negli ultimi anni nella casa romana di Francesco Rosi, con il grande maestro novantenne. Ore e ore di conversazioni sul cinema e sulla vita, che poi per i due registi sono un po' si sovrappongono, essendo il cinema non solo il loro mestiere, ma la passione che ha dato senso alla vita di entrambi. 
Il faccia a faccia tra il è diventato un libro-intervista: Io lo chiamo cinematografo , pubblicato dalla Mondadori.

"Il cinema, allora, era una grande famiglia, è vero. C'era un rapporto di comprensione, anche di affetto. Poi ci sentivamo tutti parte di una grande avventura, far rivivere sullo schermo la vita. Il nostro è un mestiere particolare. Se lo fai con passione non te ne puoi liberare. Ti rimane dentro, non c'è niente da fare", racconta Rosi, classe 1922.

E' in famiglia, nella Napoli degli anni Trenta, "legata a doppio filo con il suo mare", che tutto comincia: il padre Sebastiano, appassionato di cinematografo, lo riprende con la sua Pathè Baby a passo ridotto e gli scatta magnifici fotoritratti, ispirandosi anche a Jackie Coogan, il celebre protagonista del Monello di Charlie Chaplin.
Poi ci sono zio Pasqualino, "capoclaque " nei teatri di rivista, e zia Margherita, che oltre a somigliare a Ginger Rogers, lo accompagna ogni giovedì al cinema, dove il piccolo Francesco scopre la magia dei primi film muti.

Nel dopoguerra Rosi si trasferisce a Roma. Allievo e aiuto regista di Luchino Visconti, esordisce dietro la macchina da presa nel 1958 con La sfida, ma è con capolavori come Salvatore GiulianoLe mani sulla città, Il caso Mattei e Lucky Luciano che conquista un posto di assoluto rilievo nel panorama del cinema internazionale.

Rosi ha lavorato accanto ai migliori talenti espressi dalla cultura italiana dell'ultimo mezzo secolo: intellettuali, critici, giornalisti come Ennio Flaiano, Sergio Amidei, Raffaele La Capria, registi come Rossellini e Fellini, attori del calibro di Gian Maria Volontè e Sophia Loren.

Il libro svela anche informazioni e aneddoti che riguardano i film di Rosi, la sua straordinaria carriera di regista, e anche la vita intima e privata, trascorsa accanto alla moglie Giancarla (da poco scomparsa) e alla figlia Carolina, oggi attrice soprattutto teatrale.

 
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ROSI, Francesco

Post n°12067 pubblicato il 10 Gennaio 2015 da Ladridicinema
 
Tag: STORIA

    Enciclopedia del Cinema (2004)

di Francesco Bolzoni

Rosi, Francesco

Regista cinematografico, nato a Napoli il 15 novembre 1922. Facendo propria la lezione di Luchino Visconti, di cui era stato aiuto regista nella realizzazione di un'opera fondamentale del cinema italiano come La terra trema (1948), R. ha sempre saputo evitare la tendenza al bozzetto e la suggestione del dialetto che, negli anni del suo esordio, spingevano il Neorealismo ad acquisire altre connotazioni sino ad arrivare agli esiti del cosiddetto Neorealismo rosa, ma al tempo stesso non si è mai lasciato affascinare da giochi narrativi troppo sofisticati. È prevalsa in lui l'attenzione al contesto e al valore del documento storico che, nel suo cinema (Salvatore Giuliano, 1962; Le mani sulla città, 1963; Il caso Mattei, 1972; Cadaveri eccellenti, 1976), ha assunto valenze drammaturgiche insolite. Il metodo di R. ‒ consistente nel proporre una sorta di documentario ricostruito secondo l'ottica del giornalismo di denuncia senza tuttavia rinunciare a personaggi di forte rilievo narrativo ‒ ha influito sul lavoro di un regista come Oliver Stone, in particolare nella costruzione di JFK (1991; JFK ‒ Un caso ancora aperto), secondo quanto dallo stesso autore statunitense riconosciuto. Numerosi i riconoscimenti ricevuti dal regista. Oltre a due Nastri d'argento per la regia (nel 1963 per Salvatore Giuliano e nel 1981 per Tre fratelli), ha vinto tre David di Donatello per la miglior regia nel 1976 con Cadaveri eccellenti, nel 1979 con Cristo si è fermato a Eboli r nel 1981 con Tre fratelli; due per il miglior film nel 1985 con Carmen (1984) e nel 1997 con La tregua, cui si è aggiunto nel 1988 un David speciale alla carriera. Nel 1958 con La sfida aveva conquistato il Premio speciale della giuria alla Mostra del cinema di Venezia e nel 1963 il Leone d'oro per Le mani sulla città. A livello internazionale aveva ottenuto nel 1962 a Berlino l'Orso d'argento per la regia con Salvatore Giuliano e nel 1972 al Festival di Cannes la Palma d'oro con Il caso Mattei mentre nel 1979 Cristo si è fermato a Eboli era stato premiato al Festival di Mosca.

Cresciuto in una famiglia della buona borghesia partenopea, R. interruppe gli studi di giurisprudenza quando fu richiamato alle armi, ma dopo l'8 settembre 1943 abbandonò l'esercito, conobbe Carlo Ludovico Ragghianti, impegnato nell'organizzazione del Comitato di liberazione nazionale in Toscana, e raggiunse Napoli liberata. Qui scrisse e interpretò testi per l'emittente radiofonica controllata dall'esercito americano; collaborò al settimanale "Sud" e progettò per l'editore Vallecchi un periodico a fumetti per ragazzi. Nel 1946, come altri giovani intellettuali napoletani, si trasferì a Milano e poi a Roma dove lavorò come figurante nel cinema e come attore di rivista. Una sua analisi di I Malavoglia di G. Verga convinse Visconti a inserirlo nella troupe di La terra trema. Nei primi anni Cinquanta fu aiuto regista di Raffaello Matarazzo, Luciano Emmer, Ettore Giannini (per Carosello napoletano, 1954) e di nuovo di Visconti; partecipò inoltre alla sceneggiatura di Bellissima (1951) di Visconti e di Processo alla città (1952) di Luigi Zampa. Direttore di doppiaggio, fu assistente di Goffredo Alessandrini per Camicie rosse ‒ Anita Garibaldi (1952) e poi di Vittorio Gassman in Kean genio e sregolatezza (1957); esordì quindi nel lungometraggio a soggetto nel 1958 con La sfida, resoconto delle fortune e delle disgrazie di un giovane guappo napoletano, nel quale adattò alle esigenze di una cronaca di vita italiana le scansioni e i ritmi del gangster film. Nell'opera successiva, I magliari (1959), R. seppe tenere a bada l'esuberanza di Alberto Sordi proponendo un quadro convincente del fenomeno dell'emigrazione italiana in Germania, Paese rappresentato nel personaggio di Paula Mayer (Belinda Lee). Ma fu con Salvatore Giuliano, bandito ma anche leggenda popolare, che R. sconvolse le convenzioni del film di finzione. L'eroe protagonista, che compare per la prima volta già cadavere nel cortile di casa De Maria e all'obitorio, viene visto da lontano (si scorge un impermeabile bianco e un binocolo), oppure risulta evocato come sgradito ospite al processo di Viterbo. Cuore del film è un'analisi del potere, in particolare il potere mafioso collegato a quello politico, nella Sicilia del secondo dopoguerra; in tal modo una vicenda appartenente al passato viene sospinta verso il presente, diventando momento di dibattito e storia attuale. In Le mani sulla città, mentre viene posto in scena un agitato andirivieni di uomini di potere, con inserti filmati sul degrado metropolitano di Napoli ‒ l'aspetto più evidente del film ‒, R. disegna tre figure di grande risalto psicologico: il costruttore edile Edoardo Nottola (Rod Steiger), il mellifluo Maglione (Guido Alberti) e il grande tessitore De Angeli (Salvo Randone). Questa tipologia di caratteri viene arricchendosi di personaggi di prepotente personalità, intenti a tessere una rete di intrighi in Cadaveri eccellenti. Con Il caso Mattei si passa a un personaggio storico, il presidente dell'ENI Enrico Mattei che, chiamato ad alienare un 'ente inutile', ne fece un'azienda destinata a una società che guardava verso il futuro e capace di aprirsi al Terzo Mondo. Per raccontare le battaglie, le sfide e la drammatica fine di un personaggio scomodo, R., in un'inchiesta che anticipa stilemi poi tipici del reportage televisivo nei suoi esiti più riusciti e maturi, adotta modi espressivi che rimandano alla frantumazione di un'ordinata cronologia già sperimentata in Salvatore Giuliano. La stessa tecnica viene ripresa nella prima parte di Lucky Luciano (1973), mentre la seconda parte del film rispetta l'ordine cronologico e traccia il ritratto, reso intenso dall'interpretazione di un attore come Gian Maria Volonté, capace di aderire perfettamente al ruolo, di un uomo tranquillo dallo sguardo freddo che vive da pensionato, ma che in realtà è un capomafia destinato a essere ammazzato. Cadaveri eccellenti comincia là dove Lucky Luciano finisce: con l'eliminazione del vertice di una comunità mafiosa, delle cui lotte per il potere il film tratteggia un quadro impietoso su uno sfondo barocco.Il cinema di R. appare dominato da personaggi di forte temperamento e aggressività, che sembrano togliere qualunque spazio alla gente semplice e mite, alla quale però il regista rivolge la propria attenzione in particolari occasioni: per es., ripercorrendo il percorso avventuroso e individualista di un ragazzo spagnolo che diventa torero e idolo di un ambiente dove tutto si risolve nello spettacolo (Il momento della verità, 1965), oppure riprendendo gli stilemi della favola (C'era una volta…, 1967), o ridisegnando in chiave realistica un celebre melodramma (Carmen), o ancora prestando ascolto al coro dei vinti in una revisione critica del mito della Grande guerra (Uomini contro, 1970), oppure infine immergendosi, sulla traccia del libro di C. Levi, nella civiltà contadina (Cristo si è fermato a Eboli) oggetto di un'affascinante interpretazione anche in un film come Tre fratelli, analisi di tre generazioni indissolubilmente legate alla terra degli avi.Il tema della responsabilità collettiva torna in Cronaca di una morte annunciata (1987) dal romanzo di G. García Márquez, traspare in Dimenticare Palermo (1990) e, infine, si impone nettamente nell'invito a non dimenticare che percorre La tregua, film ispirato al libro di P. Levi per il quale R. trova un'articolazione narrativa di estremo rigore sintattico. Affidandosi al doppio registro del ricordo e della riflessione sulla tragica esperienza dei lager nazisti, R. infatti salda insieme elementi appartenenti a codici diversi: la nota scherzosa e la commozione, la dilatazione di carattere epico (l'arrivo al lager dei quattro soldati russi, quasi cavalieri dell'Apocalisse che infrangono la cortina di nebbia) e la registrazione degli stati d'animo che precedono e accompagnano il ritorno a casa dei sopravvissuti, segnati per sempre dalla consapevolezza dello sterminio.BIBLIOGRAFIA

Salvatore Giuliano, a cura di T. Kezich, Roma 1961.

G. Ferrara, Francesco Rosi, Roma 1965.

S. Zambetti, Francesco Rosi, Firenze 1974.

J. A. Gili, Francesco Rosi: cinéma et pouvoir, Paris 1977.

F. Bolzoni, I film di Francesco Rosi, Roma 1986.

M. Ciment, Le dossier Rosi: cinéma et politique, Paris 1987².

 
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CIAO FRANCESCO!!!

Post n°12066 pubblicato il 10 Gennaio 2015 da Ladridicinema
 

Oggi che triste notizia. Se ne è andato un assoluto maestro del cinema italiano e mondiale. Prima di Oliver Stone e di qualsiasi altro grande autore del cinema d'inchiesta e "impegnato" c'è stato lui, colui che da tutti viene riconosciuto come l'inventore di questo genere: Francesco Rosi. I suoi film rimarranno nella storia del cinema: La sfida, I magliari, Salvatore Giuliano, Le mani sulla città, Uomini Contro, Il caso Mattei, Lucky Luciano, Cadaveri eccellenti, Cristo si è fermato a Eboli, Tre fratelli, Cronaca di una morte annunciata, Dimenticare Palermo, La tregua. Tutti capolavori. Facendo propria la lezione di Luchino Visconti, di cui era stato aiuto regista nella realizzazione di un'opera fondamentale del cinema italiano come La terra trema, Rosi ha sempre saputo evitare la tendenza al bozzetto e la suggestione del dialetto che, negli anni del suo esordio, spingevano il Neorealismo ad acquisire altre connotazioni sino ad arrivare agli esiti del cosiddetto Neorealismo rosa, ma al tempo stesso non si è mai lasciato affascinare da giochi narrativi troppo sofisticati.  Il silenzio per anni è stato posto su di lui, perchè come naturale dava fastidio, come Elio Petri e come Gian Maria Volontè, suo attore preferito. Un grande autore come Giuseppe Tornatore permise di togliere questo velo vergognoso, con un libro intervista che invito tutti gli amanti del cinema a leggere: Io lo chiamo cinematografo. Per capire la grandezza di Rosi basterebbe citare Le mani sulla città, dove denunciò le collusioni esistenti tra i diversi organi dello Stato e lo sfruttamento edilizio a Napoli; o ancora Salvatore Giuliano, dove anticipa le risposte ai misteri della morte del bandito Giuliano e alla strage di Portella della Ginestra. Basti pensare che non c'è nessuna immagine di quella strage, ma solamente le immagini del film di Rosi. Infine Il caso Mattei, che inaugura il filone con Volontè. Film in cui Rosi 30 anni prima da una risposta al mistero della morte dell'ingegnere. Tornatore lo incitava a tornare sul set e Rosi non rispondeva «sono stanco» ma «il mestiere del regista richiede grande energia fisica e non so se l'avrei più. So invece che in quest'Italia è difficile fare cinema e che la realtà si degrada così in fretta che il suo passo è troppo più frettoloso di quello del cinema. Rischierei di raccontare un paese che già non c'è più». E riguardandosi indietro aggiungeva: «Il cinema, allora, era una grande famiglia, è vero. C'era un rapporto di comprensione, anche di affetto. Poi ci sentivamo tutti parte di una grande avventura, far rivivere sullo schermo la vita.» In quello stesso 2012 Francesco Rosi era sul palcoscenico della Mostra di Venezia per ricevere il Leone d'oro alla carriera. Un premio in più in una carriera che già gli aveva regalato il Leone d'oro per Le mani sulla città, la Palma di Cannes per Il caso Mattei, la Legion d'onore, i tributi alla carriera di Locarno e Berlino, per non parlare di Grolle, David, Nastri, caduti a pioggia su ogni titolo della sua formidabile filmografia. Anche in occasione dell'ultimo premio veneziano la sua lezione è venuta forte e decisa: «Fare cinema - ha detto - significa contrarre un impegno morale con la propria coscienza e con lo spettatore. Gli si deve l'onestà di una ricerca della verità senza compromessi. Un assoluto maestro che ci mancherà, ma che lascerà a memoria e ricordo di sè i suoi capolavori. Sta a noi non dimenticarlo, facendolo conoscere, perchè autori come Rosi o come Petri non possono essere dimenticati

 
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Il ricco, il povero e il maggiordomo

Post n°12065 pubblicato il 09 Gennaio 2015 da Ladridicinema
 

Aldo, Giovanni e Giacomo tornano al cinema; affiancati alla regia da Morgan Bertecca, con "Il ricco, il povero e il maggiordomo", film che ha come tema principale il fallimento sia economico che personale.

Giacomo è un broker convinto che ama rischiare troppo, perchè andare in buca è l'unica cosa che conta. Giovanni è il suo maggiordomo tuttofare, aspirante guerriero ninja e innamorato della domestica venezuelana Dolores. Aldo è il venditore ambulante che Giovanni, nel ruolo di autista di Giacomo, investe. Invece di rimborsargli il danno, Giacomo trasforma Aldo in un servo tuttofare, fino a quando il principale investimento del broker, nel Burgundy, cade vittima di un colpo di Stato. Da quel momento i tre devono unire le forze per tirarsi fuori dai guai.

Il soggetto è tutt'altro che originale, ma le risate restano inalterate pur con una sceneggiatura sicuramente inferiore ai film precedenti del trio.

C'è stato un tempo in cui Aldo Baglio, Giovanni Storti e Giacomo Poretti hanno rappresentato il nuovo che avanza della commedia italiana, ma da "Tu la conosci Claudia", tranne che in qualche film hanno perso molto della loro innovazione a livello narrativo.

Il film come sempre è ricco di sketch, e il trio ha il merito, come sempre hanno fatto; di far ridere (riflettendo) senza volgarità e soprattutto hanno il buon gusto di non mostrare quell’ "umorismo" imbarazzante tipico di alcune commedie del periodo. Tutto il repertorio del trio, dalla Milano dei quartieri, alla goffaggine di Aldo, fino alla petulanza di Giacomo e al buon senso meneghino di Giovanni sono presenti nel film.

La vera marcia in più sono gli attori di contorno, da Giuliana Lojodice nel ruolo della mamma di Aldo a Massimo Popolizio nei panni di un burbero prete da oratorio.

Ben impostata la colonna sonora che spazia tra Emis Killa, Julio Iglesias e Tonino Carotone.

Voto finale: 3--/5
Il ricco, il povero e il maggiordomo
Poster

Il ricco, il povero e il maggiordomo, rispettivamente interpretati da Giacomo, Aldo e Giovanni, racconta la storia dell'incontro fortuito di un industriale e del suo autista con un venditore abusivo. Quest'ultimo porta scompiglio in villa, ma complice un tracollo finanziario, si rivela una risorsa quando il ricco perde il suo patrimonio. I tre si ritrovano a casa della madre del poveraccio e tra un problema di convivenza e l'altro, devono trovare un garante per poter ottenere un prestito da una banca e rimettere le cose al loro posto.

 

 
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Saverio Costanzo, quando il cibo diventa horror da cinecittà news

Post n°12064 pubblicato il 09 Gennaio 2015 da Ladridicinema
 

Cristiana Paternò31/08/2014
In concorso a Venezia 'Hungry Hearts' con Alba Rohrwacher e Adam Driver, storia di una giovane coppia di genitori e dell'ossessione per il cibo
VENEZIA – Il quarto film di Saverio Costanzo è un’immersione verticale nei fantasmi e nelle ossessioni di una giovane coppia di fronte alla nascita di un figlio. Un bambino speciale, come pensa la mamma Mina (Alba Rohrwacher), convinta di doverlo proteggere dalla contaminazione del mondo, tenendolo lontano dai raggi del sole e nutrendolo solo con semi e verdure. Ma il padre Jude (Adam Driver), pur molto innamorato, inizia a dubitare di queste scelte e quando un medico, da cui è andato di nascosto, gli spiega che il neonato rischia gravi conseguenze per la malnutrizione, esplode una battaglia all’interno della coppia in cui viene coinvolta anche la madre di lui (Roberta Maxwell), pronta a tutto per "difendere" il nipote. Girato in gran parte ambienti claustrofobici con forti accenti da horror, Hungry Hearts trasporta la vicenda narrata nel romanzo di Marco Franzoso, Il bambino indaco (Einaudi), a cui il film si ispira, dall’Italia a New York, esasperandone la rarefazione e l’atmosfera da incubo. Applaudito dai giornalisti al Lido, dove è in concorso, il film uscirà in sala con 01 il 15 gennaio 2015. 

Costanzo, cosa l’ha avvicinata a questa storia dopo "La solitudine dei numeri primi"? 
Ho letto il libro, che inizialmente mi ha respinto pur attraendomi. Un anno e mezzo dopo mi sono riavvicinato e ho iniziato a scrivere, cosciente del rischio di morbosità e della necessità di una drammaturgia forte. Ho provato a scrivere senza giudicare questi tre personaggi, la madre, il padre e la nonna, guardandoli con dolcezza. Attraverso di loro ho potuto osservare anche il mio ruolo di padre con minor senso critico e con maggior passione. È stato un film catartico anche per la mia storia personale. Ma tutto questo senza alcun ragionamento, in modo istintivo. 

Ha incontrato Marco Franzoso? 
Mai incontrato, ci siamo scritti solo dopo che ha visto il film. 

Perché ha spostato la vicenda a New York raccontando l’amore tra un’impiegata dell’ambasciata italiana e un ingegnere americano dal loro primo incontro casuale fino al matrimonio e alla maternità? 
Non è che volessi fare l'americano... Volevo mostrare l’isolamento totale del personaggio di Mina in una città violenta. Ho abitato io stesso a New York e provavo sentimenti molto simili, a volte era come combattere una battaglia. È una città che non si fa dimenticare, dove se hai i soldi tutto è facile, ma se hai meno mezzi tutto è complicato. 

Mentre le due figure femminili, materne, appaiono come fortemente disturbate, il padre sembra avere un maggiore equilibrio nel rapporto col piccolo. 
È un padre come oggi ce ne sono tanti, che collabora alla vita familiare e si occupa del bambino. Ed è un uomo innamorato – vorrei sottolineare che il film è una storia d'amore. Anche Mina ama, ma il suo è un amore che non riesce a contenere, anche la nonna è così… Il film racconta i due personaggi nello spazio in cui diventano genitori, cosa non facile. 

Non vede in Mina una persona disturbata, ai limiti della follia? 
Non ho mai pensato che Mina fosse pazza né che potesse fare del male al bambino, lei era il nostro eroe e dovevamo raccontarla fino in fondo. Verso la fine del film porta il bambino sulla spiaggia, per lei è un mettere i piedi per terra, l’inizio di un cambiamento, poi la vita interviene. 

Come ha scelto Adam Driver, che vedremo protagonista di "Star Wars Episode VII" accanto a Harrison Ford e nel nuovo film di Scorsese "Silence"? 
L’avevo visto in Girls e il nostro è stato un grande incontro. Lui ha un’idea della recitazione molto autentica. 

L’ossessione per il cibo è molto contemporanea  e condivisa da tante persone in varie forme, senza arrivare a quelle più estreme. 
Tutti noi non facciamo altro che domandarci che cosa mangiare. Forse sentiamo che il mondo fuori è tossico, ma questa è sociologia ed essendo sociologo di formazione vorrei evitare discorsi troppo generici. Quanto a me, mangio tutto e amo molto anche il Big Mac, devo dire che porto i miei figli una volta al mese da McDonald’s. 

Pensa che i vegani si sentiranno colpiti nel vivo? Che ci sarà qualche polemica? 
Uno psicologo recentemente invitava le mamme vegane ad essere compassionevoli verso le nonne che qualche volta danno un omogeneizzato di carne al bambino. Questo perché spesso chi fa scelte radicali diventa come sordo, si irrigidisce. La radicalità senza senso dell'umorismo, l’ideologia ferrea ha ucciso milioni di persone, bisogna anche avere cuore e amare se stessi. Ma questo film non è contro niente e nessuno. 

Ha rielaborato il personaggio della nonna, interpretata da Roberta Maxwell, vero?
 
Nel libro il personaggio della nonna era molto italiano, io l’ho un po’ indurito e reso più americano nella sceneggiatura, ma poi l’ho adattato a Roberta e l’ho di nuovo addolcito. Questa donna, che ha avuto un marito cacciatore, è scaltra, intelligente, e convinta di essere nel giusto. Forse è stata una madre poco sollecita e adesso si prende una rivincita sul nipote. 

Aveva qualche film di riferimento girando? 
No, se non un approccio spregiudicato alla Cassavetes: i suoi film erano azioni di ribellione a quel sistema che lo nutriva. Il film procede come se le scene fossero strappate, come se dicessi allo spettatore: hai visto abbastanza, ora andiamo avanti. 

Il film ha un budget relativamente ridotto e uno stile che lo può accomunare al cinema indipendente americano. 
È coprodotto da Wildside con Rai Cinema, ma essendo a basso budget, girato in quattro settimane, c’è stata maggiore elasticità da parte della Rai. Ho girato in 16 mm e continuerò il più possibile a usare la pellicola, è una linea seguita da alcuni registi, tra cui ad esempio Alice Rohrwacher. Sono stato l’operatore del film, non è il mio mestiere, ma questo mi ha permesso di trovare una maggiore autenticità e anche gli errori sono funzionali. 

Cosa pensa del cinema d’autore italiano? 
Amo le cose forti e devo dire sinceramente che tanta roba non mi piace, ma ci sono una decina di autori che seguo. La crisi, per quanto nefasta, ha aiutato a fare una selezione. Anche Hungry Hearts è frutto della crisi. Rimbocchiamoci le maniche. Fare un cinema libero è un privilegio ma ci si deve prendere la responsabilità e il cinema italiano spesso non lo fa. 

 
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'Barry Lyndon' restaurato torna in sala

Post n°12063 pubblicato il 09 Gennaio 2015 da Ladridicinema
 

ssr08/01/2015
Barry Lyndon festeggia i suoi 40 anni con il ritorno nei cinema italiani in versione restaurata: il capolavoro storico che Stanley Kubrick trasse nel 1975 dal romanzo di William M. Thackeray sarà in sala da lunedì 12 gennaio, distribuito dalla Cineteca di Bologna e Gruppo Unipol, nell’ambito del progetto Il Cinema Ritrovato. Al cinema.

“Mi ha sempre attirato - queste le parole di Kubrick - un film in cui il destino del protagonista è già inciso sul primo fotogramma”: un duello alla pistola che sembra già tramandare di padre in figlio una vita di vicissitudini rocambolesche. E dalla vicenda di Barry Lyndon Kubrick è stato attirato al punto da scriverne egli stesso la sceneggiatura, avvicinandosi a Thackeray, grande scrittore inglese poco ricordato e poco tradotto, con semplicità e trasparenza: “Amavo la vicenda e i personaggi di Barry Lyndon, e mi parve possibile farne una trasposizione senza distruggerlo”, raccontò lo stesso Kubrick a Michel Ciment. “Ed esso offriva inoltre l’opportunità di fare una delle cose che il cinema può fare meglio di qualunque altra forma d’arte, presentare cioè una vicenda a sfondo storico. La descrizione non è una delle cose in cui i romanzi riescano meglio, però è qualcosa in cui i film riescono senza sforzo, almeno rispetto allo sforzo che viene richiesto al pubblico”.

Partendo dalle avventure di Redmond Barry (interpretato da Ryan O’Neal) e di Lady Lyndon (Marisa Berenson), il film ripercorre il Settecento come fosse un museo di cera (l’incarnato dei volti, il lume delle candele), come uno viaggio nella pittura dell’epoca: siamo in un salotto di Gainsborough, in un giardino di Watteau, seduti a una tavola di Hogarth. Vivono, questi tableaux, vivono ansiosamente di ambizioni fallaci, rovine annunciate, sentimenti corrotti, disillusioni, soprusi, umiliazioni: e l’impossibile ascesa dell’avventuriero Redmond Barry, che sposa l’aristocratica Lady Lyndon, “traccia una parabola che conduce al nulla” (Michel Ciment).
Milena Canonero vinse per i costumi di Barry Lyndon il suo primo Premio Oscar.

 
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Musei: oltre 40,2 milioni visitatori nel 2014,+6,2% da ansa

Post n°12062 pubblicato il 09 Gennaio 2015 da Ladridicinema
 

+7% introiti; cresce il Sud. Franceschini, è boom dei 'minori'

La crisi risparmia i musei statali italiani, che nel 2014 vedono crescere sia i visitatori (+6,2% rispetto al 2013) sia gli introiti (+7%), con punte di eccellenza al Sud e in tanti musei cosiddetti "minori" o fino ad oggi poco frequentati, dalla Rocca di Gradara a Capodimonte. Lo annuncia il ministro di Beni culturali e Turismo Dario Franceschini presentando alla stampa estera il nuovo bando internazionale per la selezione dei direttori dei primi 20 musei dello Stato. "Per i musei italiani un anno davvero positivo", dice il ministro, che sottolinea soddisfatto anche "il valore educativo" della riforma di orari e tariffe introdotta con il suo arrivo al Collegio Romano. "Il costante aumento di visitatori anche nelle domeniche gratuite e pure nei mesi di bassa stagione turistica - dice - dimostra che al museo sono tornate anche tante famiglie italiane".

In particolare, nel 2014 i visitatori dei circa 420 musei statali italiani sono stati 40.287.939, con un incremento di 2.355.687 rispetto al 2013. Crescono, grazie all'introduzione di nuovi orari e tariffe, anche i visitatori gratuiti, che nell'anno appena trascorso sono stati 21.346.214 (+5% rispetto al 2013) con un aumento di 987.067 persone. Gli introiti totali per il 2014 sono 134.860.105 euro, ovvero 8.784.486 euro in più rispetto all'anno precedente.

Importante anche l'aumento al Sud, con un +108,2% in Calabria (+ 947.45% introiti), in gran parte dovuto alla riapertura del museo nazionale di Reggio Calabria con i Bronzi di Riace, a cui si affianca una crescita comunque significativa in Sardegna (+28,5% visitatori, +31,14% introiti), in Basilicata (14,3% visitatori, +31,68% introiti) e Puglia (+6,37% visitatori, +12,74% introiti) o Campania (+8,39% visitatori, +8,97% introiti). Ma va bene anche al Centro, con l'Emilia Romagna (+8,64% visitatori, +13,03% introiti) e al Nord con la Liguria (+23,68% visitatori, +22,11% introiti), la Lombardia (+4,19% visitatori, +9,72% introiti) e il Friuli Venezia Giulia (+ 1,21% visitatori, +31,05% introiti).

I maggiori incrementi in assoluto si sono avuti nel circuito museale di Arezzo (+201,3% visitatori), al museo lapidario estense di Modena (+1032%), a Palazzo Altieri di Oriolo romano (+111%) al Museo Nazionale delle residenze napoleoniche di Portoferraio (+186,2%), così come all'Abbazia di Casamari nel frusinate (+33%), alla Rocca di Gradara nelle Marche (quella dove sbocciò "l'amor che a nullo amato amar perdona" di Paolo e Francesca) che ha registrato un +18%, la Villa Pisani di Stra (+22%), il Castello di Torrechiara a Laghirano (+25%), la Galleria Spada di Roma (+26,7%), la tomba di Virgilio a Napoli (+26%) il Palazzo Ducale di Sassuolo (+34,3%), il Museo Archeologico cerite di Cerveteri (+70,5%).

Ma i numeri sono in positivo anche per quasi tutti i musei della Top 30 dei più frequentati, dominata come sempre da Colosseo (che ha superato il muro dei 6 milioni di visitatori l'anno, con un incremento del 9,8% rispetto al 2013), Pompei e Uffizi. Aumentano i visitatori un po' ovunque, dalla Pinacoteca di Brera (+8,1%) al circuito museale di Firenze (+15,8%), da Villa d'Este (+9,6%) a Villa Adriana (+11,9%), dagli Scavi di Ostia antica (+13%) al circuito archeologico di Paestum (+7,4%) fino all'exploit del Museo di Palazzo Ducale di Mantova (+26,3%). In controtendenza la Grotta Azzurra a Capri (-8,8%), il Castello scaligero di Sirmione (-7,5%), la Venaria Reale di Torino (-4,9%). (ANSA).

 
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“Je suis Charlie”. Una piazza Farnese gremita per la libertà di espressione da articolo21

Post n°12061 pubblicato il 09 Gennaio 2015 da Ladridicinema
 

 

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Hanno partecipato in tanti alla fiaccolata organizzata da Fnsi e Articolo 21 e numerose altre organizzazioni a Piazza Farnese in solidarietà col popolo francese e con i giornalisti di Charlie Hebdo. “Tutti i francesi sono estremamente toccati dalle manifestazioni di simpatia di amicizia e di solidarietà’ del popolo italiano”. Sono le parole dell’ambasciatrice francese a Roma, Catherine Colonna. “Noi siamo tristi – ha detto Colonna – ma siamo calmi perché i nostri valori sono democratici, sono valori di dignità, valori positivi, non valori di distruzione. E siamo determinati. Perché le nostre armi migliori sono l’umanità e la libertà di espressione che è il segno più forte della democrazia. Un valore che noi difenderemo”, ha assicurato. “Grazie di essere qui”, ha concluso con il saluto “viva la libertà!”.

 

Soprattutto giornalisti e politici per testimoniare solidarietà alle vittime dell’attentato terroristico di ieri, a Parigi.

Fra i presenti il presidente del Partito democratico, Matteo Orfini, e i senatori Vannino ChitiLuigi Zanda, Rosy Bindi, Khalid Chaouki (Pd),


Lucio Malan, Giovanni Toti, Mara Carfagna, Stefania Prestigiacomo (FI),

Nicola Fratoianni e Arturo Scotto di Sel, Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia, Andrea Olivero del Gruppo per le Autonomie. Ma anche il segretario della Cgil Susanna Camusso, quello della Fiom Maurizio Landini e il leader radicale Marco Pannella.

Decine di fiaccole hanno illuminato la piazza. In alto i cartelli con la scritta “Je suis Charlie”, con le foto delle vittime della carneficina che ha sconvolto l’Europa.

 

Un gruppo di persone ha intonato la Marsigliese. “Siamo qui per portare la solidarieta’ e la partecipazione del mondo sindacale”: ha detto il segretario nazionale della Uil, presente alla manifestazione con il segretario nazionale della Cgil Susanna Camusso. “Questo barbaro attentato – ha aggiunto Carmelo Barbagallo – è un attacco alla libertà e rischia di inquinare la civilta'”. 
“Sono con Charlie”, ha detto Susanna Camusso contro chi attenta alla liberta’ e alla democrazia. “Ma attenzione – ha aggiunto il segretario della Cgil – bisogna evitare le strumentalizzazioni e andare avanti con i processi di integrazione”.

Il segretario della Fnsi, Franco Siddi, ha definito l’attacco terroristico alla redazione di Charlie Hebdo una “spietata esecuzione” e “un atto contro la liberta’ di stampa e la democrazia contro il quale bisogna reagire”.

Per il leader della Fiom, Maurizio Landini, “la risposta a questo atto terroristico deve essere quella di allargare ancora di più la democrazia, la partecipazione, i diritti”.

A esprimere la solidarietà del sindacato ai giornalisti, alle famiglie delle vittime e a tutto il popolo francese è anche il segretario confederale della Cisl Maurizio Bernava: “la democrazia e la libertà di stampa sono un patrimonio comune e non possono essere messe in discussione da nessuno. Il mondo del lavoro e unito nel respingere violenza e terrorismo”.

8 gennaio 2015
 
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Charlie Hebdo, Art.21 alla manifestazione “repubblicana” di Parigi per testimoniare la difesa della libertà di espressione

Post n°12060 pubblicato il 09 Gennaio 2015 da Ladridicinema
 

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da Parigi. Anche noi di Articolo 21 saremo presenti alla marcia “repubblicana”, indetta dal Presidente della Repubblica francese, François Hollande, per testimoniare la solidarietà ai familiari delle 12 vittime della strage al settimanale Charlie Hebdo, straziate da un commando integralista islamico mercoledì scorso.
Una manifestazione contro la barbarie, contro lo stravolgimento degli insegnamenti religiosi. Perché il fanatismo fondamentalista uccide per primo gli stessi credenti ed umilia il principio di convivenza pacifica tra le diverse culture, storie e scelte politiche. Una manifestazione per dire con voce forte e chiara che le libertà di stampa, di satira, di critica sono beni primordiali, che non possono essere barattati né censurati in nessun modo, sempre, anche nei momenti più difficili e duri come quelli che stiamo vivendo.

Domenica si fermerà tutta la Francia, quella stessa che in queste ore sta dimostrando con compostezza e determinazione nelle piazze storiche, per far sentire la propria voce in difesa delle libertà di espressione, dei principi fondamentali della fraternità e uguaglianza, che hanno sempre contraddistinto intellettuali, artisti e giornalisti francesi e che sono alla base anche della nostra Costituzione e della Carta fondamentale dell’Unione Europea.

Articolo 21 si stringe attorno a tutti i giornalisti, i vignettisti, i lavoratori della comunicazione di Francia, che in queste ore drammatiche e insanguinate stanno dando prova di un’alta professionalità e obiettività, coprendo tutto lo svolgersi dei fatti.
Facciamo nostre le parole scritte dal Direttore di “Le Monde”, Gilles Van Kote nell’editoriale “Liberi, In piedi, Insieme”, in memoria dei caduti di Charlie Hebdo: “Alcuni non nascondevano la loro paura, ma tutti la superavano. Soldati della libertà, della nostra libertà, e sono morti. Morti per delle vignette. Attraverso loro, è proprio la libertà d’espressione – quella della stampa, come quella di tutti i cittadini – che era l’obiettivo degli assassini. E’ questa libertà d’informare e di essere informati, di dibattere, di criticare, di comprendere e di convincere, questa indipendenza dello spirito, questa necessaria e vitale audacia della libertà, che i terroristi hanno voluto schiacciare sotto i loro proiettili”.

Mercoledì prossimo Charlie Hebdo uscirà lo stesso, in un milione di copie, anche grazie all’aiuto di “Liberation”, che già anni addietro aveva ospitato i giornalisti del settimanale quando altri fanatici islamici avevano bruciato i loro locali. Perché, come ha scritto nell’editoriale il direttore di “Libé”, Laurent Joffrin: “Charlie vivrà…Charlie era il ridere intelligente, il ridere impietoso, la presa in giro, l’ironia piena di speranza, Voltaire in vignette, un calcio in culo ai fanatismi. Contro le matite, i pennarelli e i cartoncini hanno fatto risuonare i kalachnikov. Quando non ci sono più argomenti, si spara! Sappiamo che questa professione è pericolosa. Ogni anno nelle zone di guerra muoiono giornalisti a dozzine. Ora vogliono portare la guerra dentro le nostre redazioni. Ma noi non faremo la guerra. Non siamo soldati. Ma difenderemo il nostro comportamento e la nostra vocazione: aiutare i lettori a sentirsi cittadini. Non è una gran cosa, ma è già qualcosa. Con una certezza ancor più radicata: ora sappiamo perché facciamo questo mestiere”.

9 gennaio 2015

 
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#CharlieHebdo - Il falò e le scintille da megachip

Post n°12059 pubblicato il 09 Gennaio 2015 da Ladridicinema
 

Come previsto è l'isteria che prende il sopravvento. Eppure basterebbe accorgersi della tremenda puzza di bruciato che si alza da questo mostruoso attentato. [Giulietto Chiesa]

venerdì 9 gennaio 2015 00:28

 

di Giulietto Chiesa.

Come previsto è l'isteria che sta prendendo il sopravvento. 


Eppure basterebbe accorgersi della tremenda puzza di bruciato che si alza da questo mostruoso attentato. A cominciare dalle carte d'identità ritrovate a bordo dell'auto. 

Possibile che quasi nessuno dei grandi media mainstream sia incapace di porsi qualche domanda? Dove invece c'è il fuoco ancora acceso è attorno alla questione cruciale. Chi c'è dietro e dentro il cosiddetto "stato islamico"? 

Eppure la puzza che viene dal quel fuoco nero è così forte che è impossibile non sentirla. 

L'Isis è una fonte di inquinamento globale, perché è stata creata da giocatori globali. 

Non è detto che chi ha acceso il falò sia in grado di gestire tutte le scintille. Ma la prima cosa da fare sarebbe chiedersi chi ha acceso il falò, non vi pare?

Invece tutti parlano delle scintille.
 

 
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#CharlieHebdo - Il falò e le scintille da megachip

Post n°12058 pubblicato il 09 Gennaio 2015 da Ladridicinema
 

Come previsto è l'isteria che prende il sopravvento. Eppure basterebbe accorgersi della tremenda puzza di bruciato che si alza da questo mostruoso attentato. [Giulietto Chiesa]

venerdì 9 gennaio 2015 00:28

 

di Giulietto Chiesa.

Come previsto è l'isteria che sta prendendo il sopravvento. 


Eppure basterebbe accorgersi della tremenda puzza di bruciato che si alza da questo mostruoso attentato. A cominciare dalle carte d'identità ritrovate a bordo dell'auto. 

Possibile che quasi nessuno dei grandi media mainstream sia incapace di porsi qualche domanda? Dove invece c'è il fuoco ancora acceso è attorno alla questione cruciale. Chi c'è dietro e dentro il cosiddetto "stato islamico"? 

Eppure la puzza che viene dal quel fuoco nero è così forte che è impossibile non sentirla. 

L'Isis è una fonte di inquinamento globale, perché è stata creata da giocatori globali. 

Non è detto che chi ha acceso il falò sia in grado di gestire tutte le scintille. Ma la prima cosa da fare sarebbe chiedersi chi ha acceso il falò, non vi pare?

Invece tutti parlano delle scintille.
 

 
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CRONACA DI UNO SCIACALLAGGIO: MATTEO SALVINI E L’ATTENTATO A CHARLIE HEBDO

Post n°12057 pubblicato il 09 Gennaio 2015 da Ladridicinema
 

da glistatigenerali.com

7 gennaio 2015

Se non avete mai visto come opera uno sciacallo, vuol dire che non tenete d’occhio abbastanza i profili social di Matteo Salvini. In attesa che iniziate a farlo, proviamo a raccontarvelo noi.

La giornata di oggi è di quelle propizie. Poco prima di mezzogiorno un commando armato di tre persone fa irruzione nella redazione di  Charlie Hebdo, giornale satirico parigino, e al grido di “Allah Akbar” fa una strage: muoiono in 12 tra giornalisti e poliziotti accorsi nel frattempo. Per Salvini ci sono tutte le condizioni ideali per agire. E infatti il leader della Lega non si lascia pregare.

Sono passate solo un paio di ore dall’attacco a Parigi, quand’ecco che Salvini lancia il suo primo tweet:

 

Schermata 2015-01-07 a 16.23.06

Se MASSACRO di #Parigi sarà confermato di matrice ISLAMICA, è chiaro che ormai abbiamo il nemico IN CASA. #StopInvasione, subito! #Salvini C’è quel “se” che fa tanto garantista (chissà di che “matrice” può mai essere l’attentato di oggi…) ma anche l’hashtag finale che suona come una condanna senza appello: #StopInvasione

Passa solo un minuto, e arriva il secondo tweet:

Schermata 2015-01-07 a 16.29.34

Verificare chi, come e perché finanzia le MOSCHEE. Chi non rispetta la Vita e la Libertà non merita niente. #Salvini #Lega Il condizionale non c’è più, e si passa già alla fase 2, quella della reazione. Anche l’obiettivo è oramai chiaro: le moschee, fonte del male.  

Per mezz’ora Salvini tace, poi arriva il terzo tweet:

  Schermata 2015-01-07 a 16.29.56

Aveva ragione Oriana #Fallaci. http://youtu.be/n2hLsquo4eA  #Salvini #Lega Salvini fa appello alla madre nobile dell’anti-islamismo. Che gli vuoi dire?  

Nel frattempo, curiosamente, si sono fatte le 16 e  non ha ancora twittato la mentore europea, e francese, di Salvini, Marine Le Pen, che pure dovrebbe essere più direttamente interessata alla strage di Parigi. La leader del Front National annuncia che per parlare attenderà fino alle 16.30:

Schermata 2015-01-07 a 16.24.08

Je ferai une déclaration solennelle aux alentours de 16h30 sur le site du @FN_officiel concernant l’attentat commis contre #CharlieHebdo.MLP   Forse, ci si augura, anche per non parlare a sproposito. A Salvini, invece, questo interessa poco. A lui interessa solo vincere facile.

@carlomariamiele

 
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A chi serve questa guerra? da comune-info.net

Post n°12056 pubblicato il 09 Gennaio 2015 da Ladridicinema
 

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di Ascanio Celestini

I terroristi entrano nel telefono di Jean Louise mentre mangiamo in un Bar del Marais a Parigi. Le notizie ormai ci raggiungono ovunque. Non è indispensabile comprare un giornale di carta o accendere la televisione. “Hanno ammazzato dodici persone” dice Jean Louise leggendo sullo smartphone. “Giornalisti di un settimanale satirico sono stati ammazzati a colpi di kalashikov” dice “ma sembra che gli assassini siano scappati e non li hanno presi”.

Allora ci facciamo i calcoli sulla strada che faremo per tornare a casa. Jean Louise ePatrick devono prendere il treno per tornare a Liege e a Bruxelles, Paolo va a Belville e io all’aeroporto di Orly. Gli sparatori sono ancora in giro, chi li incontrerà?All’aeroporto mi sequestrano lo sciampo. Niente di tragico, era una bottiglietta presa in albergo tanto per non buttare nel water un goccio di sapone, ma in un giorno come questo i controlli sono più severi. I terroristi (si chiamano così) non riusciamo a capirli, sparecchiano la nostra tavola rovesciando tutto in un solo colpo.

Ma chi ha inventato questa guerra che dalle trincee di cento anni fa arriva fino alla porta di casa nostra? Penso alle trincee perché da un anno si parla della prima guerra mondiale. Si pubblicano e ripubblicano libri. Escono film e si fanno trasmissioni televisive sulla grande guerra. In molti ricordano l’attentato di Sarajevo. Gavrilo Princip uccise l’erede al trono austro-ungarico in una giornata che ebbe un andamento grottesco. A scuola ci dicevano che la guerra scoppiò dopo quel fatto, ma era solo una semplificazione.

A man holds a placard which reads "I am Charlie" to pay tribute during a gathering at the Place de la Republique in Paris

L’Europa si preparava già da dieci anni e tutti i paesi avevano interesse a spararsi addosso. L’Austria cercava un pretesto per mettere le mani sui Balcani e presentò un ultimatum alla Serbia senza aspettare la risposta, la Russia voleva uno sbocco sui mari caldi, la Germania pensava all’egemonia continentale ma anche all’espansione coloniale, l’Inghilterra non voleva un paese egemone nel continente europeo, la Francia non poteva non intervenire davanti ad Austria e Germania che si muovevano, l’Italia temporeggiò per un anno poi prese al volo l’invasione del Belgio per cambiare schieramento e mettersi in trincea contro gli austriaci.

E poi tutti avevano paura del socialismo. La guerra avrebbe fermato la rivoluzione. In Russia successe il contrario: fu la rivoluzione a scoppiare grazie alla guerra, ma queste due anime furono comunque legate l’una all’altra anche in quel caso. Queste cose le sappiamo dopo anni di studi e pubblicazioni, ma cento anni fa i nostri nonni avevano a disposizione una versione completamente diversa. La storia ci ricorda che gli avvenimenti sono soltanto la punta visibile di un iceberg che si scopre solo col tempo e con lo studio. Dunque: qual è l’iceberg che sta sotto ad un attentato come questo? Cerchiamo di scoprirlo iniziando col porci un’altra domanda: a chi serve questa guerra?

 
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