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Messaggi del 24/01/2014

 

Sartori: più che Italicum è un Pastrocchium da globalist

Post n°11004 pubblicato il 24 Gennaio 2014 da Ladridicinema
 

Il politologo commenta la riforma della legge elettorale proposta da Matteo Renzi e dal Pd: è sbagliata e controproducente.

martedì 21 gennaio 2014 10:07

«La riforma disegnata da Renzi e Berlusocni la chiamerei Pastrocchium. È tutta sbagliata. È una legge elettorale assurda, controproducente e che non rimedia a nessun problema, ma probabilmente aggrava quelli che già ci sono». È quanto ha dichiarato il politologo Giovanni Sartori.

Il nome «Italicum è ridicolo. Le definizioni Mattarellum e Porcellum le ho inventate io ma perché erano i nomi degli autori di quei meccanismi elettorali. Italicum invece ricorda un treno, o giù di lì. Anche perché allora la Germania dovrebbe chiamare il suo sistema elettorale Alemanicum, l'Inghilterra Anglicum, gli Stati Uniti... boh è più difficile. Ma insomma ci siamo capiti», ha aggiunto.

E poi ha sottolineato le sue perplessità sulla riforma: «Ci sono un bel po' di stravaganze. Io ho sempre sottolineato che il doppio turno funziona se i partiti si presentano da soli e non in coalizione. In modo che ogni forza politica deve presentare il suo candidato migliore per accedere al secondo turno: davvero così si offre all'elettore la possibilità al secondo turno la possibilità di scegliere, e di dare un preferenza non manipolabile; e nella mia ipotesi al secondo turno ne passavano quattro. Invece nell'Italicum i partiti che vanno da soli vengono penalizzati con soglie di sbarramento fino all'8 per cento mentre chi si coalizza viene premiato. Una assurdità che va contro ogni logica».

 
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The Wolf of Wall Street

Post n°11003 pubblicato il 24 Gennaio 2014 da Ladridicinema
 
Tag: trailer

 
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Tutta colpa di Freud

Post n°11002 pubblicato il 24 Gennaio 2014 da Ladridicinema
 

 
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Red Krokodil

Post n°11001 pubblicato il 24 Gennaio 2014 da Ladridicinema
 

Red Krokodil

Poster

La storia di un uomo dipendente dal Krokodil (una delle droghe sintetiche più pericolose e distruttive in commercio) che si ritrova improvvisamente solo, in una città post nucleare simile a Chernobyl, il cui disfacimento fisico provocato dalla massiccia assunzione di droga si sviluppa parallelamente a quello interiore, così come la realtà si mescola prepotentemente alle sue allucinazioni.

 
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The Wolf of Wall Street

Post n°11000 pubblicato il 24 Gennaio 2014 da Ladridicinema
 

The Wolf of Wall Street

Poster

The Wolf of Wall Street vede protagonista Jordan Belfort, un broker di Long Island, condannato a 20 mesi di carcere dopo aver rifiutato di collaborare alle indagini su di un massiccio caso di frode atto a svelare la diffusa corruzione vigente negli anni '90 a Wall Street e nel mondo bancario americano.

 
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Tutto sua madre

Post n°10999 pubblicato il 24 Gennaio 2014 da Ladridicinema
 

Les garçons et Guillaume, à table

Poster

Guillaume, fin da bambino viene considerato da tutti diverso da com'è. La sua battaglia contro tutti, e in particolare contro sua madre, dura circa trent'anni, finchè incontra quella che diventerà la seconda donna più importante della sua vita.

 
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Tutta colpa di Freud

Post n°10998 pubblicato il 24 Gennaio 2014 da Ladridicinema
 

Poster

Dopo aver mescolato la realtà con la finzione in Una famiglia perfetta, Paolo Genovese va a scomodare il padre della psicanalisi in Tutta colpa di Freud, storia di un padre alle prese con tre figli decisamente particolari. E' la storia di un analista alle prese con tre casi disperati: una libraia che si innamora di un ladro di libri; una gay che decide di diventare etero; e una diciottenne che perde la testa per un cinquantenne. Ma il vero caso disperato sarà quello del povero analista, se calcolate che le tre pazienti sono le sue tre adorate figlie.

  • FOTOGRAFIAFabrizio Lucci
  • MONTAGGIOIrma Misantoni
  • PRODUZIONE: Una produzione MEDUSA FILM realizzata da LOTUS PRODUCTION
  • DISTRIBUZIONE: Medusa Film
  • PAESE: Italia
  • DURATA: 120 Min

 
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Disneyland è il Bel Paese da cinecittà news

Post n°10997 pubblicato il 24 Gennaio 2014 da Ladridicinema
 

Andrea Guglielmino24/01/2014
Mentre Meryl Streep lancia una polemica su Walt Disney, definendolo antisemita e sessista, e l’Italia si prepara ad accogliere l’uscita di Saving Mr. Banks, che racconta la storia della nascita di Mary Poppins – in sala il 20 febbraio, con Emma Thompson nei panni di Pamela Lyndon Travers e Tom Hanks in quelli di zio Walt – il nostro paese celebra l’eterno affetto del nostro paese per il più grande narratore dei nostri tempi tramite il documentario diMarco Spagnoli Walt Disney e l’Italia – Una storia d’amore, co-prodotto da Walt Disney Company Italia e Kobalt Entertainment (è la prima volta che Disney produce in Europa con un partner italiano). 

Il documentario anticiperà l’uscita di Saving Mr. Banks, contribuendo a scaldare i motori. “Sarà in sala il 10 febbraio con un evento speciale nel circuito The Space – spiega Stefano Bethlen, head of theatrical distribution & marketing della storica compagnia – Poi inizieremo un tour: sono già confermate date a Bologna, Napoli, Torino, Milano e una presenza nella settimana del 20 sia su Sky che sulla Rai. Narrato dalla voce di Vincenzo Mollica (anzi, Paperica, con riferimento alla sua controparte disneyana già apparsa nei fumetti), articolato tra interviste e materiali d'archivio Luce e Rai, il film è, secondo le parole di Spagnoli “la biografia di un’emozione, più che di un personaggio. Ho imparato a leggere su Topolini e il mio primo film al cinema è stato un film Disney. E’ una storia che mi riguarda da vicino, come del resto ci riguarda tutti. Disney è stato accolto nel nostro paese con tanto calore che poi il prodotto è diventato quasi interamente italiano. Le storie Disney a fumetti da un certo momento in poi sono disegnate e scritte da italiani e solo in seguito esportate. La spiegazione la fornisce Giacomo Scarpelli, in una delle interviste del documentario: l’Italia è un paese che ha mantenuto una certa ‘fanciullezza’, ma la grossa differenza nella nostra percezione di Disney sta in questo: in America è visto soprattutto come un grande imprenditore, un ‘Tykoon’, come dicono loro, che ha costruito un enorme impero economico. Per noi conta l’artista Disney, quello che rischiava la bancarotta ogni volta che produceva un film. E litigava costantemente col fratello Roy per via dei soldi. Quando parlava con gli ingegneri dei suoi parchi a tema diceva questo: ‘gli aspetti economici lasciateli a mio fratello, qui parliamo di arte’. E’ stato un grandissimo innovatore. Biancaneve non solo fu il primo lungometraggio animato ma anche la prima volta che il pubblico pensò di potersi commuovere davanti a un cartone animato. Prima li realizzavano solo per far ridere. Mi sono limitato all’Italia ma sarebbe bello approfondire i rapporti di Disney con Htichcock, con Dalì o con Eisenstein, che scrisse su di lui un saggi meravigliosi.   

Tra le molte interviste (appaiono, in ordine sparso e senza pretese di completezza: Fausto Brizzi, Enrico Brignano, Fabio De Luigi, i giornalisti Oscar Cosulich e Fabio Licari, Micaela Ramazzotti, Riccardo Scamarcio, Edoardo Bennato, Greg & Lillo…) è particolarmente significativa quella a Roy De Leonardis, figlio di Roberto che curò l’adattamento e il doppiaggio di moltissimi classici, con coraggio e creatività e distaccandosi spesso dal modello originale. Un esempio su tutti, gli Aristogatti, dove il micione irlandese O’Malley diventa il mitico e romanissimo ‘Romeo, er mejo der colosseo’.

 
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Festival di Roma 2014 dal 16 al 25 ottobre

Post n°10996 pubblicato il 24 Gennaio 2014 da Ladridicinema
 

Stefano Stefanutto Rosa23/01/2014
La nona edizione del Festival di Roma, guidata da Marco Müller in scadenza di contratto, si terrà dal 16 al 25 ottobre, costerà 10 milioni, con l'obiettivo di coinvolgere il MiBACT. Lo ha deciso il CdA di Fondazione Cinema per Roma, tenutosi nel pomeriggio. Qualche ora prima si era svolto alla Casa del Cinema l’incontro promosso dal Snccisul futuro del Festival di Roma e programmato all'origine dopo l'annunciata riunione dei soci di Fondazione Cinema, poi slittata ad oggi pomeriggio. Perciò incontro di carattere interlocutorio, soprattutto per i rappresentanti istituzionali, assente giustificato il dg Cinema-MiBACT Nicola Borrelliconvocato dal ministro Bray.

Sul tappeto i nodi da sciogliere della kermesse romana elencati da Franco Montini, presidente del Sncci: l’identità, festa popolare o festival, con o senza concorso; la collocazione temporale e la sede; le attività permanenti puntando innanzitutto alla formazione del pubblico giovane (vedi Alice nella città), la diffusione sul territorio cittadino e regionale; il rapporto con il Festival della Fiction e con le eccellenze come il CSC-Cineteca, la Casa del Cinema, la Scuola Volontè e Cinecittà.

Cominciamo dai soci fondatori. L’assessore alla Cultura del Comune Flavia Barca, punta a un progetto “nella logica di rilancio della filiera cinematografica, di inclusione della città e di promozione di nuovi talenti”. Di più l’assessore comunale non vuole dire, in attesa della riunione dei soci, tranne sottolineare la necessità di un luogo adatto che ospiti “la Festa”, pensando a un palazzo del cinema che purtroppo non c’è e valorizzando il capitale umano della Fondazione Cinema. 

Su quest’ultimo punto c’è sintonia con l’assessore regionale alla Cultura Lidia Ravera che parla di “un'unica macchina organizzativa per il Festival del cinema e quello della Fiction, comunque eventi separati”. Nel 2014 la Regione Lazio investirà 15 milioni per il cinema dei 55 stanziati per la cultura, e la Ravera ricorda che “Festa e mercato non sono in contraddizione e quest’ultimo va rafforzato attraverso la potenziata Lazio Film Commission”. Infine occorre dare “una residenza alla Festa che deve irradiarsi in tutto il Lazio”. Quanto alle date, “è troppo chiedere un cervello centrale perché i festival cinematografici siano complementari e non concorrenti tra loro, così come vanno coordinati i tanti appuntamenti regionali presenti?”.

Luigi Abete, presidente di BNL-BNP Paribas main sponsor del Festival, conferma per il 2014 il sostegno economico dell’anno passato, cioè 1 milione e 350mila euro, e chiede di “migliorare il Festival che è in pareggio, superando i ritardi rilevanti nella gestione dell’ultimo periodo a causa delle vicende politiche” e conviene sul coinvolgimento diretto del MiBACT, a suo tempo richiesto dal presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti.

Riccardo Tozzi, presidente di Anica, pone l’accento sull’idea originaria della kermesse romana, quando sparito il Mifed di Milano, il sindaco Walter Veltroni pensò a una Festa del cinema come punto di partenza di un mercato dell’audiovisivo. “Quella formula è stata adottata per le prime due edizioni, poi è diventata indeterminata mentre si è rallentata la creazione del mercato”. Occorre rilanciare quell’idea, non sprecare risorse, e trovare date definitive e luogo, “Roma è l’unica capitale europea senza un palazzo del cinema”. E Tozzi, in controtendenza, ritiene possibile la fusione in un unico Festival del cinema e della fiction, cadute le barriere rispetto alla nuova serialità televisiva.

Solo su quest’ultima ipotesi non è d’accordo Giorgio Gosetti, che ha partecipato alla nascita e alle prime edizioni del Festival di Roma. Sì invece a un’unica struttura amministrativa, cioè la Fondazione Cinema che può diventare la struttura a cui fanno capo tutti i festival di cinema del Lazio.
Anche Andrea Occhipinti, presidente della sezione Distributori Anica, è di questo avviso, cinema e fiction sono due mercati del tutto differenti, ed è convinto della necessità di rilanciare l’idea originale della manifestazione.

Assenti Lamberto Mancini e Paolo Ferrari, rispettivamente presidente e direttore generale della Fondazione Cinema, assiste all'incontro il direttore artistico Marco Müller che non interviene. In sala sono presenti: Maurizio Sciarra, Gianluigi Rondi, Francesca Via, Michele Lo Foco, Bruno Torri, Gianluca Giannelli, Fabia Bettini, Vito Zagarrio, Diamara Parodi, Silvio Maselli, Laurentina Guidotti, Francesco Ranieri Martinotti, Steve Della Casa, Fulvio Lucisano e Alessandro Rossetti.

 
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Con "Felice chi è diverso" Gianni Amelio va a Berlino

Post n°10995 pubblicato il 24 Gennaio 2014 da Ladridicinema
 
Tag: news

Cr. P.22/01/2014
C'è anche Gianni Amelio alla 64esima Berlinale con il suo nuovo film documentario, Felice chi è diverso, invitato inPanorama Dokumente. Il film, prodotto da Luce-Cinecittà, con Rai Cinema e Rai Trade, con il contributo del MiBACT – Direzione Generale per il Cinema, e in collaborazione con Cubovision di Telecom Italia, verrà distribuito da Luce-Cinecittà nelle sale cinematografiche ai primi di marzo. Felice chi è diverso è "un viaggio in un’Italia segreta, raramente svelata dalle cineprese: l’Italia del mondo omosessuale così come è stato vissuto nel Novecento, dai primi del secolo agli anni '80. Un viaggio fatto di storie raccolte dal Nord al Sud del Paese, di chi ha vissuto sulla propria pelle il peso di essere un ‘diverso’. Racconti di repressione, censura, dignità, coraggio e felicità", come spiega il regista. 

Istituto Luce-Cinecittà al Festival di Berlino porta anche Il Sud è niente di Fabio Mollo, nella sezione dedicata ai giovani e giovanissimi Generation, e la sua giovane protagonista Miriam Karlkvist ‘Shooting star’ per l’Italia. Il Sud è niente è uno dei casi internazionali dell’anno. Dopo gli inviti ai Festival di Toronto, Roma-Alice nella Città e Torino, l'exploit è confermato anche dalla partecipazione della protagonista del film, la debuttante Miriam Karlkvist, all’edizione 2014 di Shooting Stars, la vetrina organizzata dall’EFP per i giovani talenti della recitazione europei. Il 2014, in cui celebra i 90 anni dalla fondazione, inizia per il Luce con un successo di presenza in uno dei più importanti festival di pubblico del mondo, e un appuntamento chiave del mercato internazionale. E una felice coincidenza - nell’avere a Berlino il nuovo lavoro di un autore come Amelio a fianco del debutto di Fabio Mollo - con due delle principali direttrici dell’impegno di Luce-Cinecittà: la produzione documentaristica affidata anche a grandi registi con la valorizzazione dell’Archivio storico, e la promozione di nuovi talenti per il nostro cinema.

 
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Hunger games da mymovies

Post n°10993 pubblicato il 24 Gennaio 2014 da Ladridicinema
 

Locandina Hunger Games

Finalmente un prodotto cinematografico specificamente pensato per il pubblico giovane che offre ai ragazzi una confezione ben concepita, profondità introspettiva ma soprattutto spunti di riflessione. Che Hunger Games sarebbe stato lontano anni luce dalla saga di Twilight lo si poteva capire già dalla scelta del regista, quel Gary Ross che conPleasantville e Seabiscuit aveva dimostrato di essere un cineasta in grado di padroneggiare lo spettacolo adatto al grande pubblico senza però renderlo piatto, anzi condendolo con delle sottotrame sempre capaci di rivelare il lato inquietante della facciata conciliatoria americana. 
In questo suo ritorno al cinema dopo nove anni di assenza fin dalle primissime inquadrature Ross sembra voler prendere esplicitamente le distanze dalla messa in scena patinata e monotona che ci si poteva aspettare visto il target di destinazione del film. Invece Hunger Games parte come un film nervoso, pieno di inquadrature "sporche", di macchina a mano assemblata con un montaggio estremamente serrato. Questa scelta estetica ben precisa all'inizio si rivela addirittura eccessivamente ostentata, in quanto non permette bene di mettere a fuoco ambienti, situazioni ed anche i personaggi, fattore che per un film di fantascienza è piuttosto importante. 
Dopo un inizio piuttosto faticoso ma comunque coerente nelle direttive sia estetiche che narrative, il lungometraggio comincia a salire di colpi quando inizia la gara mortale tra i giovani partecipanti. La durezza delle situazioni accresce la drammaticità della storia, e questo permette alla protagonista Jennifer Lawrence di esplicitare con maggiore efficacia le sue notevoli doti d'attrice. Ci troviamo veramente di fronte a un'interprete che a soli ventun'anni riesce perfettamente a riempire un personaggio e a svelarne i lati nascosti. C'è anche da sottolineare però che la sua Katniss Everdeeen è un ruolo molto interessante nella sua fragilità celata e nel suo bisogno quasi primitivo di aggrapparsi e di proteggere chi le sta intorno. Risulta poi interessante che l'arco narrativo di Katniss non sia delineato in modo classico ma rimanga piuttosto indefinito, o meglio fascinosamente "aperto" per una presa di coscienza che verosimilmente avverrà nei prossimi episodi dell'annunciato franchise. 
Già, perché Hunger Games semina anche in alcune scene dei momenti che non è illecito supporre "politici", e che riempiono ancor di più una sceneggiatura già densa. Altra sottolineatura la merita il valevole gruppo di caratteristi che compone il cast di supporto del film: su tutti vogliamo spendere una parola d'elogio per l'intramontabile Donald Sutherland, mellifluo e ipnotico come soltanto lui sa essere. Per quanto riguarda invece il lato più specificamente tecnico del film, la fotografia di Tom Stern e le musiche sempre poetiche di James Newton Howard sono le cose più riuscite.
Cinema per giovani capace di scavare in profondità e proporre uno spettacolo non superficiale. Hunger Games riesce dove negli ultimi anni questo tipo di intrattenimento aveva pesantemente fallito. A prescindere dalle sbavature e dalle imperfezioni del prodotto finale, questo è già un enorme merito.

 
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Wolf children

Post n°10992 pubblicato il 24 Gennaio 2014 da Ladridicinema
 

Locandina Wolf Children

Dal momento in cui i genitori si conoscono fino alla maturità, Yuki con la sua voce fuoricampo accompagna il racconto di come sua madre si sia innamorata di un uomo lupo (l'ultimo rimasto) e abbia così partorito lei e suo fratello Ame, bambini lupo capaci di trasformarsi (prima involontariamente, successivamente a comando) da lupi in umani e viceversa. Attraverso una vita prima in città e poi in campagna, prima isolata e poi necessariamente in mezzo agli altri bambini Yuki e Ame sviluppano personalità diverse e modi diversi di venire a patti con la propria doppia natura sotto lo sguardo della madre. 
Quasi 7 anni dopo La ragazza che saltava nel tempo Mamoru Hosoda torna ad un lungometraggio che racconta la realtà inserendovi un elemento fantastico a fare da perturbatore ed enfatizzare i problemi e le idiosincrasie della vita umana. Wolf children è probabilmente la sorpresa di quest'annata cinematografica (e il merito di averlo portato in Italia va al Future Film Festival), un film dalle ambizioni smisurate che si propone di raccontare la vita nel suo svolgersi, con particolare enfasi sui complicatissimi rapporti familiari tra una madre e due figli, riuscendo a toccare tutte le corde possibili con una leggerezza e una delicatezza commoventi. Tocco evidente (tra le molte cose) nella maniera sottile con cui i bambini sono disegnati e animati nel loro crescere ed essere, di scena in scena, sempre un po' più grandi e un po' diversi, fino ad arrivare a scambiarsi ruoli e personalità.
Hosoda non cerca la svolta clamorosa o lo svolgimento inconsueto (tutto anzi è abbastanza prevedibile) ma semmai quell'impossibile trionfo dell'arte del racconto che è riuscire a parlare ad ogni spettatore attingendo, tramite una storia inventata, alla sua vita e alla sua esperienza per smuovere piccoli tasselli interiori. In questo senso l'elemento fantastico della trasformazione in lupo è usato con molteplici finalità, prima per sottolineare il senso d'inadeguatezza di un genitore verso il compito di crescere dei bambini, poi per mostrare le difficoltà degli adolescenti nel conoscere se stessi e infine l'obbligo per ognuno a compiere scelte per il proprio futuro.
Ma non sono solo i bambini lupo l'oggetto delle attenzioni di Hosoda, la mamma è altrettanto importante e proprio a lei sono riservate alcune delle scene più emozionanti, in cui i sentimenti esplodono di colpo, rivelati da gesti di ordinaria fragilità (come la confessione di fronte al lupo in gabbia).
E' così che questa straordinaria opera d'arte, che rifiuta ogni idea di avventura, invece che elevare l'ordinario a straordinario in un banale tentativo di glorificazione della vita di ognuno, riesce a rendere gli spettatori partecipi del proprio sguardo, portandoli cioè non a giudicare, non ad ammirare ma solo a capire e partecipare.
L'ambientazione, la presenza di una natura salvifica, la trasformazione in animale e il rapporto quieto e delicato con il sentimentalismo non possono non far pensare ad Hayao Miyazaki (sebbene il film sia privo della capacità di creare immagini del maestro dell'animazione e anzi da quel punto di vista sia abbastanza ordinario), ma il paragone regge solo fino ad un certo punto, perchè Hosoda ha un modo personale di procedere e insegue un realismo delle relazioni personali molto lontano dai voli del cinema miyazakiano.

 
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The Flowers of War

Post n°10991 pubblicato il 24 Gennaio 2014 da Ladridicinema
 

Locandina The Flowers of War

1937, seconda guerra sino-giapponese, assedio di Nanchino. Un becchino chiamato a seppellire il prete di una chiesa cattolica, scopre una volta arrivato a destinazione che il cadavere non c'è più. In cerca del denaro che avrebbe ricevuto e stimolato dal pericolo della guerra ne assume il ruolo. Nella chiesa, oltre alle 13enni studentesse del collegio irrompono anche altrettante prostitute in cerca di un nascondiglio. Nessuno è intenzionato ad aiutare l'altro ma tutti dovranno darsi una mano.
Dietro The flowers of war c'è un progetto ambizioso fatto da 94 milioni di dollari di budget (il più alto di sempre per la Cina), dal più importante regista del paese e dall'arruolamento dell'arma di distrazione di massa perfetta: un volto di primo piano del cinema hollywoodiano.
Il risultato è un film pensato per catturare i cuori di tutti gli spettatori, non solo quelli cinesi, con gli stessi ingredienti attraverso i quali il cinema hollywoodiano si è imposto a livello mondiale: granitici sentimenti positivi, un nemico chiaro e assoluto, la lenta conquista della dignità in cuori che prima non la prevedevano, l'incrollabile forza di un popolo (stavolta quello cinese) e un arbitrario ancoraggio a "fatti realmente accaduti" (stando al cartello che precede il film). 
Tutto questo nella prima parte funziona pure. Zhang Yimou distilla 60 minuti della sua arte più pura, al servizio di una storia che gli consente le mille invenzioni visive e sottili allusioni che caratterizzano il suo stile. Le protagoniste femminili che dallo scantinato guadagnano il proscenio (ancora una volta forti, indipendenti e prostitute), le individualità che scaturiscono dalla massa e l'indomita forza di volontà di una bambina, vengono uniti ad un linguaggio fatto ritmo serrato, immagini meticolosamente composte e colori che dialogano espressivamente tra loro. Per opposizione il regista imbianca il suo protagonista (di farina) quando è privo di scrupoli e lo veste di nero (l'abito talare) quando è dominato da una morale rigida, per allusione filtra la realtà dei bambini dai coloratissimi vetri del rosone e per contrasto condisce un'esplosione letale con mille carte colorate. Cinema cinese impeccabile fuso con l'arte americana portata dalla recitazione fisica di Christian Bale, capace di essere al servizio del film senza dimenticare il proprio linguaggio. Come in un braccio di ferro creativo il risultato è uno stallo meraviglioso.
Sfortunatamente nella seconda parte The flowers of war è invaso dalla retorica e dalla poesia della peggior specie (quello che passa per canzoni, balletti, primi piani insistiti oltre il decente e ralenti). Così ogni complessità è azzerata a favore di un continuo ripetersi di piccole scene madri, rimestando ad oltranza nella sollecitazione delle medesime emozioni, come accade nelle peggiori produzioni. Ogni inventiva scompare sosituita da piccoli fuochi d'artificio e tanti specchietti per allodole, fino ad un finale che sembra non arrivare mai.
Impossibile non chiedersi come mai proprio Zhang Yimou, che qualche anno fa con Mille miglia...lontano aveva nesso a segno un tentativo importante di revisione della figura dei giapponesi nell'iconografia cinese, abbia ora realizzato un film così spietato e bieco nel ritrarre il nemico di sempre. Una controparte tanto deumanizzata infatti non è un errore storico quanto una leggerezza cinematografica insensata e imperdonabile.

 
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Addio a Carlo Mazzacurati da moveplayer

Post n°10990 pubblicato il 24 Gennaio 2014 da Ladridicinema
 
Tag: news

notizia a cura di scritta il 22 gennaio 2014
L'autore di 'Vesna va veloce' e 'La lingua del Santo' si è spento in un ospedale nei pressi di Padova. Aveva 57 anni ed era malato da tempo.
Addio a Carlo Mazzacurati
Ci lascia Carlo Mazzacurati, autore di pellicole come Il Toro - che fu premiato a Venezia - ma anche sceneggiatore, e occasionalmente anche attore, con piccoli ruoli in pellicole di colleghi come Nanni Moretti
Nato a Padova nel 1956, il regista si laureò al DAMS di Bologna e nel 1979 diresse, in 16mm, Vagabondi. Dopo essersi trasferito a Roma, dove collaborò alla stesura di varie sceneggiature e storie per la televisione, firmò il suo primo film come regista, Notte Italiana, che fu presentato alla Settimana della Critica di Venezia, e vinse il Nastro d'Argento e il Ciak d'oro nel 1987. Due anni dopo girò Il prete bello, tratto dal romanzo omonimo diGoffredo Parise, e vinse il Primo Premio al Festival di Annecy. 

Negli anni successivi presenta a Venezia Un'altra vita e Il toro, che vinse il Leone d'argento e la coppa Volpi al miglior attore non protagonista, Roberto Citran. Nel 1996, sempre alla Mostra, presenta in concorso Vesna va veloce e due anni dopo realizza L'estate di Davide e nel 1999 lavora, insieme Marco Paolini, a Ritratti, dialoghi con importanti personaggi
della cultura veneta. 
La lingua del Santo è stato presentato ancora a Venezia nel 2000. Dopo A cavallo della tigreL'amore ritrovato, il regista padovano nel 2007 realizza La giusta distanza, che si aggiudica il Nastro d'argento per il miglior soggetto. Tra i suoi film più recenti, la commedia La passione e i documentari Sei Venezia e Medici con l'Africa. Nei prossimi mesi dovrebbe uscire l'ultimo film diretto dal regista, La sedia della felicità, per il quale è tornato a lavorare con Silvio Orlando eGiuseppe Battiston.

 
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The wolf of Wall street secondo la stampa straniera da internazionale.it

Post n°10989 pubblicato il 24 Gennaio 2014 da Ladridicinema
 


(Universal Pictures/Outnow)

Il 23 gennaio esce nelle sale italiane The wolf of Wall street, il nuovo film di Martin Scorsese. Il regista statunitense racconta la storia di Jordan Belfort, un broker di Wall street realmente esistito che negli anni novanta si è arricchito attraverso una frode sul mercato azionario. Scorsese mostra la sua ascesa e la sua caduta, fino al carcere.

Jordan Belfort è interpretato da Leonardo DiCaprio, che è stato anche uno dei produttori della pellicola. Nel cast, tra gli altri, ci sono anche Jonah Hill, Margot Robbie e Matthew McConaughey.

 

Le recensioni della stampa straniera. The wolf of Wall street è stato accolto in modo positivo dalla maggior parte dei critici.

Scrive New Republic: “Questo non è solo il film più divertente di Martin Scorsese, ma anche il più audace. È un altro gangster movie, ma lo spirito di Joe Pesci e Robert De Niro, quello dei criminali violenti con un linguaggio sboccato e osceno, non c’è più. La gang del truffatore Jordan Belfort è fatta di idioti, bonaccioni e inetti che sembrano usciti da un film di Frank Capra”.

Christopher Orr commenta sull’Atlantic: “The wolf of Wall street è una magnifica commedia nera: divertente e oscena. Scorsese offre una carrellata malvagia di spettacolarità cinematografica, sulla quale costruisce uno dei suoi migliori film degli ultimi vent’anni”.

Scrive Libération: “Questo è un nuovo ritratto di Scorsese sull’ascesa e la caduta di un mascalzone seducente, guidato solo dal suo cieco istinto. DiCaprio ci aggiunge tutta la sua euforia e si diverte a interpretare questo personaggio, che più precipita verso l’abisso più continua a elevarsi”.

Meno positivo il parere di Mark Kermode sull’Observer, il domenicale del Guardian. “Il film scimmiotta lo stile di Quei bravi ragazzi. Il magnetismo drammatico con cui Ray Liotta ha portato sullo schermo la vita del criminale Henry Hill però non c’è. Questa non è una critica a DiCaprio, la cui performance è ottima. Piuttosto, è un problema con il soggetto: Scorsese e lo sceneggiatore Terence Winter non riescono a rappresentare in modo efficace la profonda amoralità del protagonista”.

Negativo il commento di Lisa Kennedy sul Denver Post, che scrive: “È difficile non rendersi conto che nelle sale in questi giorni c’è già una migliore rivisitazione dei classici di Scorsese: American hustle di David O. Russell”.

Soddisfatto invece il New Yorker, che commenta: “Il nuovo film Scorsese, basato sull’autobiografia di Jordan Belfort, un broker che ha fatto una fortuna sulla vendita fraudolenta di titoli dal basso valore e ha speso una fortuna in droga e sesso, è un esuberante inno alla rivolta. È come farsi un’endovena di cinema che dura tre ore. E non vorremmo che durasse un minuto di meno”.

Time sottolinea un aspetto del film di Scorsese che ha sollevato diverse polemiche negli Stati Uniti. “Al di là della qualità del film, The wolf of Wall street è una critica o una celebrazione dello stile di vita di Jordan Belfort, un uomo che non ha rispetto di niente tranne che per il denaro?”.

 
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In ricordo di Carlo, il mio amico del cineforum e di tanto altro da huffingtonpost.it/

Post n°10988 pubblicato il 24 Gennaio 2014 da Ladridicinema
 
Tag: news

Pubblicato: 22/01/2014 21:15

È morto Carlo Mazzacurati e faccio gran fatica a scriverlo. Perché siamo stati amici, e insieme a Padova abbiamo vissuto un bella stagione, da studenti pieni di ansie, voglie di cambiamento: era il tempo dell'impegno politico, dei movimenti, dell'antifascismo...delle manifestazioni, primi anni 70. Un'altra Italia. Ho qui una vecchia foto, lui grande e grosso, un gigante.

E penso alle comuni passioni, al cinema, ai cineforum, alle discussioni in una piccola sala con le sedie di legno vicino alla Cgil, accanto al Liceo Tito Livio...c'erano Bobo Citran, Enzo Monteleone e tanti altri: ed era proprio Carlo che organizzava e sceglieva i film. E ricordo le sere a casa sua con Elena, Giovannella... le partite a scopone scientifico...le mangiate notturne, le vacanze nella sua casa nella campagna Toscana o in montagna, le bravate a bordo di un furgone ascoltando i Genesis... De Andrè...Un giudice...Il bombarolo...e veniva mattina.

Poi ognuno per la sua strada. Lui il grande cinema, io il giornalismo. Mi restano i ricordi. Ho visto tutti i suoi film, è stato un grande, ha raccontato la nostra Italia di provincia, ha raccontato le piccole cose, i sentimenti. Carlo Mazzacurati regista ha dato voce ai deboli, agli sconfitti, a ladri improvvisati e perciò maldestri, ai migranti. Ha filmato e messo in mostra pezzi sempre più grandi della nostra società, i pezzi del malessere sociale, le disavventure della vita, e il nord est che lui ha sempre preferito chiamare Veneto, i luoghi marginali, i paesi abitati da gente comune, tra debolezze e vizi. Vite semplici, come è stata la sua vita tra Roma e Padova.

La morte se l'è portato via presto, una telefonata di un comune amico qualche settimana fa mi aveva aggiornato della situazione. E alcune ore fa quella che non avrei voluto ricevere. E ci sto male perché Carlo è una di quelle persone che mi sono nel cuore.

 
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Figli di Troika: il libro di Bruno Amoroso da cambiailmondo.org

Post n°10987 pubblicato il 24 Gennaio 2014 da Ladridicinema
 

figli di troikadi Roberto Musacchio
Sono i sicari del potere: Fondo monetario internazionale, Banca Mondiale e Banca centrale europea. La nomenklatura finanziaria della globalizzazione si è consolidata nel corso degli ultimi dieci anni con il passaggio dal pensiero unico al potere unico. Secondo Bruno Amoroso sono gli «incappucciati della finanza» i responsabili del disastro economico europeo: persone a cui è stato affidato il ruolo d’infiltrarsi nelle istituzioni, di manipolare l’informazione e la ricerca, e che con il metodo della governance hanno minato le nostre società. I Signori della finanza globale reclutano adepti nei singoli Stati. Le loro strategie sono la «marginalizzazione economica» per destabilizzare le istituzioni, l’allarmismo e la tensione praticati nell’anonimato dei mercati finanziari. Hanno volti, nomi, cognomi e – come direbbe Federico Caffè – anche soprannomi. Un pamphlet duro in cui vengono svelati i metodi di reclutamento e di lavoro dei padroni della finanza, le cui carriere sono segnate dai disastri sociali ed economici che oggi ci troviamo a fronteggiare in Italia come in Europa.

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“Tuttavia questi fattori endogeni non sono di per se’ le cause maggiori della situazione attuale (quella europea ndr), ma effetti collaterali di una scelta strategica di modello sviluppo economico e sociale che risale alla fine degli anni Sessanta del Novecento.”  Una scelta che, al monito sui “limiti dello sviluppo”, segnalato da più parti e dal Club di Roma in particolare (1972), ha trasformato un modello di economia e di società basato su un capitalismo espansivo e fordista – forti investimenti diretti esteri per la conquista graduale di nuovi mercati e produzione di massa per consumo di massa – in un modello di crescita intensivo e introverso. Quindi un modello di “apartheid globale” fondato sui tre centri maggiori dell’Occidente, cioè Giappone, Unione europea e Usa. Questo ha dato vita alla Triade e ha messo in moto il processo di marginalizzazione economica che ha portato alla crisi delle economie in Africa e America Latina e, all’interno dei Paesi europei, alla distruzione dei sistemi di Welfare”.

Scritto in modo asciutto e incalzante, quasi come la sceneggiatura di un film, il nuovo libro di Bruno Amoroso“Figli di Troika” edito daCastelvecchi, apre con un preambolo, da cui e’ tratto il brano che ho riportato, che sembra uno di quegli antefatti che proprio nei film precedono, e spiegano, lo svolgersi successivo degli avvenimenti.

Avvenimenti che vanno dalla Triade alla Troika, nella realizzazione di quella strategia del capitale concepita in quel volgere di tempo, appunto la fine degli anni ’60, quando il capitalismo sembra avviato ad una crisi irreversibile. Quello di Amoroso, economista di fama internazionale rimasto fedele agli insegnamenti del suo grande maestro, Federico Caffè, e’  un argomentare duro e impietoso, che non fa sconti. Tanto meno al campo che avrebbe dovuto resistere e contrapporsi a questa nuova strategia del Capitale e che ha finito con l’essere sussunto o sconfitto.

Non c’è dubbio che i propositi della Triade si siano ampiamente realizzati. Sconfitto, in buona parte, anche quel movimento che ha provato a fondare l’idea di un’altra globalizzazione, perche’ troppo forte e’ risultata quella pensata e imposta dal Capitale. Che, dopo i moti di Seattle, si e’ subito impegnato a sussumere nella governance parti di quello stesso movimento. Cosi’ come molte Ong sono state cooptate nelle cosiddette “guerre umanitarie”.

Ma gli strali di Amoroso sono rivolti tutti a loro, gli artefici della crisi economica, come recita il sottotitolo. Così descrive gli agenti di questa strategia: “Gli “incappucciati della finanza” agiscono oggi a viso scoperto, con ruoli istituzionali e con l’autorità auto-attribuitasi dalle istituzioni della globalizzazione, reclutano tra i nostri giovani i futuri sicari della economia globale, mettono in atto le loro strategie di“marginalizzazione economica” delle economie e di “destabilizzazione politica” delle istituzioni e degli Stati”.

Il libro offre una conoscenza ravvicinata di quel Potere unico, che e’ l’evoluzione del Pensiero unico che lo ha concepito, che si e’ edificato in questi 40 anni. Un Potere unico che ha naturalmente sede negli Usa, ma che si materializza in strutture economiche-finanziarie di portata multinazionale.C’e’ un trust di Banche, Assicurazioni e Fondi, figlio di quel processo di privatizzazione e liberalizzazione della finanza, iniziato da Regan e continuato con Clinton. L’ape regina e’ la Goldman Sachs, quella con le maggiori propaggini globali, che riguardano pesantemente anche l’Italia.

Ma sarebbe un errore, spiega Amoroso, credere che tutto dipenda da una finanza autonoma e deviata. In realtà essa resta strumento di quella scelta ricordata in premessa, di “trasformare un sistema capitalistico basato sullo sfruttamento del lavoro con la produzione di massa e il consumo di massa (capitalismo fordista-keynesiano) in un sistema di apartheid fondato sui consumi high-tech per uso civile e militare, e sulla rapina dei risparmi (pubblici e privati) per finanziare la sostenibilità di questo costoso sistema di produzione e di potere. Pertanto, a mio avviso, chi pensa che basti controllare la moneta a livello nazionale o controllare la finanza speculativa, non capisce che queste sono oggi gli effetti del progetto capitalistico di “apartheid globale”, basato sulla rendita e sul controllo militare e civile delle economie, e non la causa. Un progetto che non ha bisogno dei ceti medi e dei lavoratori in Occidente, e che quindi smantella anche tutte le forme di welfare e di reddito non necessario al suo piano di dominio.

Non e’ dunque un caso che lo sviluppo della UE assomigli ad una sorta di banana, figura che risulta dalle aree coinvolte che arrivano fino alla Padania, e che si avvalga di una sistematica spoliazione delle aree meridionali. Il libro ricostruisce come rispetto alla Grecia, a Cipro, ma anche all’ Irlanda si sia usata da parte della Troika la stessa cassetta degli attrezzi messa a punto dalla Triade e ampiamente collaudata negli anni ’80 in Africa e America Latina. Una cassetta degli attrezzi che prevede che al Paese oggetto delle attenzioni vengano sistematicamente sottratte sovranità e risorse.

Questa pratica richiede naturalmente di essere sostenuta da un apparato di consenso forte ed agguerrito. E questo apparato e’ stato forgiato negli anni ed ha portato ad una occupazione sistematica dei luoghi di elaborazione, come le università, da parte degli epigoni del pensiero unico e alla creazione di nuovi circoli di lobbing. E’ la storia della Trilateral e di organizzazioni come il Club Bilderberg. Amoroso ne ricorda molti dei soci che hanno acquisito ruoli fondamentali nella direzione di strutture finanziarie politiche, con quel meccanismo delle porte girevoli ben descritto anche da Gallino. Tra loro, cosi’ come tra gli uomini che hanno avuto relazioni con la Gloldman Sachs, si trovano per altro numerosi dei recenti Presidenti del Consiglio italiani.

La capacita’ di fare “egemonia” di questo potere unico porta ad una sostanziale sussunzione della politica, e alla marginalizzazione “forzata” di chi prova ad opporsi. E si estende pesantemente sul sistema mass-mediale.

Amoroso accompagna il racconto delle nomenclature del potere unico, fornendo la composizione della Troika che si occupa ad esempio di Grecia, con quello delle sue “narrazioni”. L’idea di “governance” si va sostituendo a quella di governo, relegando quest’ultima a mera gestione delle penurie laddove la ricchezza e’ appannaggio della prima. Si edifica l’economia del terrore, in cui e’ centrale l’elemento del debito come chiave e leva per la espropriazione sistemica di democrazia e beni.

Uno spazio importante e’ dedicato a Mario Draghi di cui vengono ricostruiti passaggi di ruoli e di funzioni, le molte porte girevoli, che lo vedono protagonista in momenti di grande importanza come quello della privatizzazione del sistema bancario italiano, poi delloscoppio della crisi globale e infine della sua gestione attuale.

Sono, quelle di Amoroso, 84 pagine che pesano come pietre. Come pesante come pietra appare, al confronto, il silenzio delle sinistre occidentali, europee e italiane.

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Bruno Amoroso

È docente di Economia Internazionale e dello sviluppo presso l’università Roskilde in Danimarca, coordina programmi di ricerca e cooperazione con i Paesi dell’Asia e del Mediterraneo e presiede il Centro Studi intitolato a Federico Caffè, di cui è stato allievo e stretto collaboratore. Tra i suoi libri : Della Globalizzazione (1996), Derive e destino dell’Europa (1999), Europa e Mediterraneo, le sfide del futuro (2000) La stanza rossa, riflessioni scandinave di Federico Caffè (2004), Per il bene comune, dallo stato del benessere alla società del benessere (2009).

 
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Leonardo DiCaprio si racconta: "Chi sono veramente" da l'espresso

Post n°10986 pubblicato il 24 Gennaio 2014 da Ladridicinema
 

Schiavista per Tarantino. Capitalista per Luhrmann. E ora squalo della finanza per Scorsese. DiCaprio presenta la “trilogia della ricchezza”. E racconta chi è davverodi Lorenzo Soria

Leonardo DiCaprio si racconta: Chi sono veramenteLeonardo Di Caprio in una scena di "The Wolf of Wall Street"
Un anno fa Leonardo DiCaprio era Calvin Candie, il sadico latifondista di Quentin Tarantino che in “Django” si godeva i suoi dopocena con un buon sigaro e incitando i suoi mandingos a picchiarsi a sangue davanti ai suoi occhi. Pochi mesi dopo è diventato “Il Grande Gatsby”, il misterioso e soave personaggio inventato dalla penna di Francis Scott Fitzgerald che sin dalla pubblicazione, nel 1925, è entrato nella mitologia letteraria come un simbolo del lato oscuro dell’American Dream. E non si è fermato, Leo, perché dal giorno di Natale nelle sale Usa e dal 23 di questo mese in quelle italiane torna nei panni di un nuovo personaggio del tutto amorale che ha diviso i cinespettatori, gli ha fatto conquistare il suo secondo Golden Globe, e ha generato una certezza: che il ciclo del ragazzino dal volto angelico e innocente che stringeva la sua Rose sulla prua del “Titanic” urlando ai venti «Sono il re del mondo!» si è concluso. E che DiCaprio adesso è finalmente diventato un uomo: i suoi lineamenti perfetti non sono più una distrazione ma un veicolo per raccontare l’America e il suo scontento, i suoi eccessi, le sue divisioni e il suo disagio spirituale.

In “The Wolf of Wall street”, suo quinto film diretto da Martin Scorsese, DiCaprio è Jordan Belfort, un finanziere che a 26 anni aveva già accumulato 50 milioni di dollari sottraendoli ai suoi clienti, ricchi o poveri non importa. E che li ha bruciati senza rimorsi e senza freni in droghe, yacht e feste. Un’esperienza che ha generato due ore e 59 minuti di cinema elettrizzanti, rivoltanti ed estenuanti, una commedia nera sull’immoralità e sulle debolezze dell’animo umano al cui centro c’è un DiCaprio istrionico che sniffa coca dal sedere di una prostituta, motiva i suoi dipendenti lanciando nani contro un muro e si schianta alla guida del suo elicottero perché troppo fatto. E che dopo tre nomination agli Oscar fallite (con “Buon Compleanno Mr. Grape”, “The Aviator” e “Diamanti di sangue”) e quasi vent’anni di adorazione e venerazione da parte dei suoi fan, potrebbe finalmente ricevere l’ambita consacrazione.

Come il protagonista del suo ultimo film, anche DiCaprio avrebbe potuto facilmente trasformarsi in uno di quei tanti divi per i quali soldi, fama e adulazione diventano una combinazione irresistibilmente tossica. Ma invece di inseguire l’ultimo blockbuster, l’attore ha fatto di tutto per spogliarsi dell’immagine del ragazzino impossibilmente fascinoso e generoso di “Titanic”. E ha scelto invece di lavorare con registi impegnativi come appunto Scorsese piuttosto che Baz Luhrmann, Steven Spielberg, Clint Eastwood e Christopher Nolan. E anche se non ha vissuto il passaggio rituale del matrimonio e dei figli e ha anzi scelto la vita dello scapolo d’oro al braccio di bellezze come Eva Herzigova, Bar Rafaeli, Gisele Bündchen e Blake Lively, DiCaprio si associa solo a film che hanno un significato e che, ambientati adesso o 150 anni fa, esprimono comunque il senso di angoscia del maschio contemporaneo. Ha anche scelto di essere un bravo cittadino del nostro fragile pianeta, mettendo tempo, soldi e fama al servizio di varie cause che vanno dalla protezione della foresta amazzonica alla preservazione della tigre siberiana. Come lui stesso racconta all’“Espresso” in questa intervista.

DiCaprio, nei suoi ultimi film lei è andato a cercarsi tre personaggi coi quali ha esplorato gli anfratti più disdicevoli dell’animo umano.
«Mi piace chiamarla la mia “trilogia della ricchezza”. Ovviamente tendo a gravitare attorno a quello stesso soggetto, perché che si parli della distruzione dell’ambiente o della fame nel mondo finisci sempre per ricadere sulla questione dell’accumulazione della ricchezza e sul bisogno dell’animo umano di dover avere successo a ogni costo e di possedere sempre di più. Jordan Belfort è come un Caligola dei nostri giorni, uno che ha considerazione solo per se stesso. Ma l’avidità è parte della vita, nessuna specie farebbe a meno di far fuori un’altra specie per sopravvivere e del resto l’idea di consumare e di accumulare più che puoi pervade non solo il nostro Paese, ma il mondo intero. Come homo sapiens, penso non saremo mai capaci di non approfittare delle debolezze degli altri ed è questo che mi ha incuriosito quando ho preso in mano il libro di Belfort. Quel romanzo per me è diventato quasi un’ossessione che mi sono portato dietro per sette anni. Ho sentito una voce interna che mi diceva che questo era un film che dovevo fare».

Una voce così forte che se lo è prodotto da solo. Perché? Perché tanti attori come lei, che potrebbero fare qualunque cosa, decidono di dedicare a un film sette anni invece che due mesi della propria vita?
«Fondamentalmente sono diventato produttore per ragioni molto egoistiche, per trovare storie migliori per me stesso. Invece di aspettare che le sceneggiature arrivassero sul portone di casa mia, mi sono messo a cercare libri e personaggi da poter cucire su misura per me. Quella era la spinta iniziale, ma poi la casa di produzione è cresciuta e abbiamo iniziato ad acquisire materiale che non era specificamente per me come attore, anche perché la verità è che Hollywood film come questi, che rompono le convenzioni e allargano i confini del cinema, non li fa più».

Prima era Martin Scorsese a scegliere lei. Adesso è il contrario...
«La sceneggiatura era mirata sul suo stile come regista e sul mio come attore. C’è una narrazione in prima persona come in “Goodfellas” e il protagonista che a volte parla alla cinepresa. Non avrei potuto concepire un altro regista: ma è stato Marty a dire che dovevamo essere quanto più autentici possibile e che non dovevamo dare ai personaggi né una motivazione né metterci a esporre le conseguenze delle loro azioni. Noi dovevamo solo raccontarli».

Ma così vi siete esposti alle critiche di chi ha visto in “Wolf” una glorificazione di quel mondo rapace e immorale.
«Lo capisco, e capisco che ci sarà sempre chi prende un film come questo per il verso sbagliato. Ci sarà sempre gente che vedrà “Scarface” e deciderà che vuole diventare un gangster e ce ne saranno altri che vedranno “Wall Street” e decideranno che il loro idolo è Gordon Gekko, come successo a Belfort. Ma per me sono i film come questi i più interessanti, perché ti aiutano a capire meglio la cultura nella quale viviamo».

Da quel punto di vista, non pare abbiamo poi imparato così tanto...
«Temo che continueremo a fare gli stessi errori. È per questo che ho trovato anche “Il Grande Gatsby” così significativo: perché vediamo che lo stesso ciclo continua a ripetersi senza sosta».

La storia di Belfort descrive quello che può succedere a un ragazzo di poco più di vent’anni che si ritrova improvvisamente circondato da soldi, fama, adulazione e tutto ciò che desidera. Che cosa ha in comune con il percorso di DiCaprio?
«Da giovane ho avuto un periodo in cui pensavo di aver capito tutto. Poi sono arrivato a comprendere che il mio era solo un mondo immaginario, dove alla fine della fiera non cambiamo la società e non risolviamo la questione della fame nel mondo. Detto questo, sono grato di poter fare questo lavoro e di avere la vita che ho. Provo solo gratitudine».

E non tende a esagerare? Non le capita di volere ancora più soldi, ancora più successo?
«Compro opere d’arte, un altro mercato totalmente folle e soggetto a ogni tipo di manipolazione. Ma amo troppo l’arte e, devo dire, sinora mi è andata bene. E sì, è ovvio che voglio avere ancora successo e fare più soldi. Accade a tutti. Ma non puoi farne un’ossessione, altrimenti la tua vita diventa alquanto miserevole».

Niente fuoriserie, jet, yacht?
«No, se ho una debolezza sono le giacche. Per me sono come le scarpe per le donne, ne vedo una e se ne ho già un’altra che è esattamente uguale ma ha il collo un po’ più morbido o più stretto devo avere pure quella».

E poi le tiene perbene? La sua casa è ordinata?
«Sì, ma non per merito mio. Io sono molto disordinato».

E lavora un sacco: tre film in un anno. E quando non è sul set è a una conferenza dell’Unesco o a salvare le tigri siberiane. Si distrae mai?
«Detesto distrarmi! Ma no, non c’è ragione di preoccuparsi per me, sto molto bene grazie. Dopo la mia trilogia mi sono preso quasi un anno senza lavorare. Sì, ho raccolto fondi per l’ambiente ma ho anche viaggiato e passato nottate con gli amici a parlare di niente. Mi piace andare al cinema, mi piace sentire musica, mi piace fare immersioni subacquee. Quando sei là sotto è un’esperienza straordinaria, sei disconnesso dalla terra. E ti trovi in un mondo talmente bello che è come se fosse stato disegnato coi computer».

Ed è per questo che sei anni fa lei si è trovato chiuso in una gabbia a pochi centimetri da un grande squalo bianco... Alla soglia dei quarant’anni, continua a cercare questo tipo di esperienze?
«Mi è successo in Sudafrica, è stato terrificante, e in effetti mi è capitato anche altre volte di trovarmi in situazioni molto critiche. Ma non faccio più sport estremi. Per tenermi in forma seguo un regime molto normale, mi esercito moderatamente. E cerco di stare lontano da situazioni in cui potrei morire».

È anche un’età in cui molti si guardano indietro e iniziano ad avere rimpianti.
«Non io, anche perché se penso a quando avevo 16 anni non sono poi così diverso dal tipo di attore che ambivo a diventare. Volevo essere il più aggressivo e il più ambizioso attore possibile, e anche se nel frattempo sono cresciuto e ho capito che ci sono altre cose altrettanto interessanti, non ho mai smesso di desiderarlo. E ho sempre rispettato i miei fan, anche se so che il loro gusto cambia ogni secondo e anche loro alla fine vogliono vedere attori che corrono dei rischi, che si evolvono. Anche loro vogliono essere sorpresi».

Si innervosisce facilmente? Che cosa le mette ansia?
«Sono cresciuto sentendomi un oustider e  fondamentalmente mi sento ancora così. E forse per questo, sì, divento nervoso in ogni tipo di situazione: certamente ogni volta che devo fare un nuovo film».

E gli Oscar e i Golden Globe e le altre premiazioni? Le danno agitazione?
«Penso che chiunque va in giro a raccontare che non gli importa di venire riconosciuto racconta balle. Ma la verità è che non hai davvero controllo, che il lavoro deve parlare per te e non c’è niente che puoi fare per convincere la gente in una direzione o nell’altra. E no, non ho rimpianti. Potrei averne se non avessi tratto il meglio dalla fortuna che ho avuto, ma so di avere sempre dato il mio meglio».
24 gennaio 2014
 
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