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Messaggi del 24/01/2015

 

La teoria del tutto

Post n°12118 pubblicato il 24 Gennaio 2015 da Ladridicinema
 

Stephen Hawking al grande pubblico è celebre ancor più che per le sue scoperte scientifiche per la sua condizione fisica e la sua brillante intelligenza bloccata in un corpo malato e costretto a comunicare tramite un computer.

James Marsh con La teoria del tutto decide di raccontarci questo miracolo della vita; una storia eccezionale, la storia di un uomo eccezionale; oltre che una delle menti più brillanti del secolo. Non lo fa raccontando la sua vita professionale con le sue scoperte e le sue teorie; ma raccontando il lato privato del professore, della sua malattia, della sua fragilità e del grande ruolo che la sua ex moglie Jane ha avuto nella sua vita e senza cui forse non ci sarebbe stato lo Stephen Hawking che conosciamo.

La storia parte con lui che ancora in salute, e indeciso su quale specilizzazione scegliere all’Università di Cambridge incontra Jane studiosa di poesia iberica medievale. La loro vita insieme presto viene sconvolta dall’arrivo della malattia, la sclerosi laterale amiotrofica. Un rapporto che però si rafforzerà, con lei che deciderà nonostante fosse sconsigliata da tutti, di restargli accanto in un matrimonio che diventerà una simbiosi. Con gli anni arriveranno i figlie, le teorie e la fama trasformandolo anche in una celebrità.

Marsch con questo film prosegue il suo racconto di personaggi eccezionali, dopo Man on Wire e Project Nim.

ll film è tratto dal libro di Jane Hawking, Travelling to Infinity: My Life with Stephen.

Non è una biografia, ma un racconto privato che parla dell'amore in tutte le sue sfaccettature, con anche i suoi limiti. Del resto come dice la produttrice del film Lisa Bruce, "La relazione di Jane e Stephen in questo film abbraccia 25 anni, anni nei quali li vediamo realizzare cose che la maggior parte di noi fisicamente abili non riesce nemmeno a immaginare".

Stephen Hawking viene interpretato da Eddie Redmayne che regala una performance da oscar, assolutamente perfetto. Ha il merito di mostrarci appieno il Stephen uomo, marito e padre. Le sue difficoltà, i suoi problemi e la sua grande forza e amore per la vita.

Bisogna sottolineare anche una notevole Felicity Jones nei panni della moglie dell'astrofisico. Del resto entrambi sono stati nominati dagli accademy.

Uno dei temi principali del film è il tempo che è sempre stato un argomento che ha affascinato l'astrofisico britannico, che si è interrogato su quando ha avuto inizio l'universo, quando finirà, e tutto quello che c'è in mezzo a questi due punti. Lui come si vede nel film ha combattuto instancabilmente contro la malattia studiando, proprio perchè da quello che dicevano i dottori avrebbe vissuto solo 2 anni.

Un film splendido, curato in ogni minimo particolare e che non può non far riflettere quando ognuno di noi di fronte ad una difficoltà si lamenta o si arrende.

Voto finale: 5+/5

La teoria del tuttoTitolo originale: The Theory of Everything

Poster

La teoria del tutto racconta la storia del più grande e celebrato fisico della nostra epoca, Stephen Hawking, e di Jane Wilde, la studentessa di Arte di cui si è innamorato mentre studiavano insieme a Cambridge negli anni 60. All'età di 21 anni, Stephen Hawking, brillante studente di cosmologia, è stato colpito da una malattia terminale per la quale, secondo le diagnosi dei medici, gli sarebbero rimasti 2 anni di vita. Stimolato però all'amore della sua compagna di studi a Cambridge, Jane Wilde, arrivò ad essere chiamato il successore di Einstein, oltre a diventare un marito e un padre dei loro tre figli. Durante il loro matrimonio allo stesso modo in cui il corpo di Stephen si indeboliva, dall’altro lato la sua fama accademica saliva alle stelle. Il professor Stephen Hawking è uno dei più famosi scienziati della nostra epoca e autore del bestseller "A Brief History of Time", che ha venduto milioni di copie in tutto il mondo.

SOGGETTO:

Basato sulle memorie di Jane Hawking "Travelling to Infinity: My Life with Stephen".

 
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Perché ho amato The Newsroom. E molto da internazionale.it

Post n°12117 pubblicato il 24 Gennaio 2015 da Ladridicinema
 

seconda parte

Corollario necessario al fatto che ci sia storia, quest’ordinamento meritocratico perfetto non impedisce che scoppino dei conflitti interni alla grande famiglia; ma sono tutti sorkiniani, ovvero sono tutti soggetti ai voleri del fato o delle circostanze esterne, e di base nessuno fa mai nulla di male perché ha anche una parte malvagia, bensì perché sbaglia in buona fede. L’inabilità sociale dei protagonisti è lo stratagemma che protegge la loro bontà di fondo e il senso granitico di comunità professionale che fa dello staff del programma una grande squadra di gente che litiga ma che in fondo si vuole bene.

 

I nemici. I veri nemici sono sempre esterni e interessati principalmente a due cose: 1) fare soldi e 2) fare carriera. In altri termini i nemici sono il mondo reale. La lista è lunga ma non poi così tanto; la famiglia dei proprietari; Jerry Dantana, la corrispondente da Washington; la columnist del giornale di gossip; Pruit… poi ci sono i nemici dell’umanità, tipo il Tea party, i politici inetti eccetera. Ma il modo di dipingere questi ultimi, come vedremo in seguito, cambierà durante la serie. In meglio.

 

L’apparato è mera forma. L’organigramma della struttura della rete, come diventa più chiaro mano mano che si va avanti nelle stagioni, comporta una serie di opposizioni, che per il sorkinesimo sono da intendersi come puramente formali. In sostanza ci si fa la guerra perché questo è quello che ci impone la struttura, ma sulle questioni che riguardano lo scontro morale giornalistica vs imperativi del denaro, non ci si schiera mai veramente con i secondi e, anzi, se qualcuno posto al di sotto di noi ha la meglio, in fondo ce ne rallegriamo.

 

Non stiamo parlando di reti di alleanze, di clan, di cordate clandestine interne a una struttura più grande, ma di una regola universale che caratterizza tutto l’apparato di produzione del canale televisivo in maniera unilaterale, dall’alto verso il basso, come una sorta di etica carbonara. Chi però, appartenendo alla struttura, decide per vari motivi di aderire in maniera sostanziale e non solo esteriore alle richieste del dio denaro, diventa automaticamente nemico.

 

Questo perché alla legge morale dettata segretamente dal cuore, si sostituisce quella tecnocratica dell’apparato in ogni vero appartenente all’esperimento morale di News Night. Questo come già detto è uno dei capisaldi del sorkinesimo. Al tempo stesso McAvoy è il contrario di un pauperista, crede fermamente nei soldi e nelle diseguaglianze economiche, ma solo in quanto servono ad esprimere e incoraggiare il perseguimento di altri valori. Da questo punto di vista il personale (americano quindi precario per definizione) del programma unisce un’improbabile compattezza sindacale anni settanta a una dedizione assoluta al lavoro da samurai giapponese. A Sorkin, come forse avrete capito, non piacciono tanto le mezze misure almeno negli schemi generali; preferisce giocarsi tutte le sfumature che ritiene necessarie alla storia nei dialoghi-flussi di coscienza e negli equivoci che personaggi tutti un po’ apparentemente affetti da sindrome di Asperger generano di continuo.

 

Tutto questo impianto è cementato dal fatto che Sorkin è il grande manipolatore. La sua scrittura ha una straordinaria capacità di creare botta e risposta brillanti, intrecciare gli archi narrativi (tipico il suo incrocio delle storie d’amore con i problemi di lavoro) e dare a tutto lo show un andamento musicale. La scrittura della serie è prima di tutto ritmica. I cambi di tempo, le impennate, gli allegro, sono tutte strategie che l’autore maneggia con la naturalezza di chi ha introiettato la tecnica e la utilizza con grazia istintiva. È l’andamento stesso ad alleggerire l’assertività dei contenuti e l’altrimenti insopportabile tendenza al monologo-che-spiega-il-mondo.

 

Muoversi sul territorio di confine fra retorica ed emozione è forse uno degli esercizi di scrittura più difficili in assoluto, nondimeno il più delle volte a Sorkin l’operazione riesce. Personalmente ho una cartina tornasole che utilizzo per capire se il grande manipolatore mi ha rubato ancora il portafoglio, ed è il momento in cui realizzo in cui sotto le parole è entrata la musica. Se il tappeto sonoro è già sotto da un pezzo è probabile che quel diavolo di Sorkin me l’abbia fatta e l’emozione abbia abbassato le mie difese antiretorica. Se me ne accorgo appena inizia, allora la magia non è riuscita. La seconda eventualità, alla prima visione di The Newsroom mi è capitata di rado.

 

Fino qua è tutto molto bianco e nero, e tutto tanto affascinante quanto potenzialmente pericoloso perché da sola l’acutezza della scrittura non basterebbe a fare di The Newsroom qualcosa di più di un eccellente esercizio di stile.

 

L’abilità fondamentale di Sorkin in una storia come questa è però quella di raccontare una favola morale senza scadere nel moralismo, rischio che pure sembra addensarsi all’orizzonte nella deriva giacobina delle puntate centrali della prima stagione, quando per un momento che McAvoy sembra aver imboccato la direzione di un novello Savonarola o di una di quelle tante figure bravissime a puntare il dito ma mai a guardare se stesse a cui ci siamo abituati sempre più spesso negli ultimi anni anche in Italia, da Beppe Grillo a un certo tipo di comici satirici sempre così certi di avere ragione da aver smesso da tempo di far ridere.

 

Il gioco di Sorkin durante la parte della stagione dedicata al Tea party si fa, anche se catartico, anche molto pericoloso visto che chi accusa non sembra mai mettersi davvero in discussione. Eppure qualcosa sta già lavorando sotto traccia per portare alla luce questo mondo sotterraneo e mostrarci come lo struggimento interiore stia segretamente interagendo con la missione riformatrice. Per riuscirci Sorkin non usa quasi mai la pericolosa arma a doppio taglio dell’ironia, perché se è vero che i suoi personaggi non ne sono del tutto privi, è altrettanto vero che nei momenti topici il pathos regna sovrano e anche quando viene spezzato da un momento comico, cosa che accade relativamente spesso, questo non mette mai in discussione il valore di verità dell’affermazione morale, semmai la rinforza dandole un’inedita tonalità umana.

 

Per inciso, sono queste le cose che fanno di Sorkin uno scrittore sopraffino: la capacità di mischiare i piani e tenere tutto perfettamente in piedi. Oltretutto non è uno dei tanti forzati americani dell’ironia, ma la usa come una delle frecce alla sua faretra narrativa, ponendola sempre su un livello inferiore rispetto alla comicità ingenua che salta fuori qua e là con un certo senso di collettiva liberazione. L’ironia in Sorkin è quello che deve essere in uno show con questo tipo di ambizioni: un contorno, non la trave portante dell’edificio narrativo.

 

Sono al massimo della mia felicità non quando devo scrivere un pezzo per un attore o una solenne argomentazione politica o sociale. Sono al massimo della felicità quando ho trovato un modo divertente di fare scivolare qualcuno su una banana.–A.S.

 

La svolta che nobilita The Newsroom al rango di grande serie avviene in maniera più articolata e strutturale nella seconda parte della prima stagione, precisamente nella sesta puntata, un episodio magistralmente strutturato tra flashback in studio e una seduta di psicoanalisi durante la quale McAvoy incomincia a realizzare che il suo schierarsi in maniera netta comporta, oltre alla ovvia opposizione di un numero crescente di antagonisti, anche un inevitabile, e al tempo stesso più complesso, contrasto interno fra ragione idealista e realtà composita del mondo, tra concetti monolitici e assoluti di cui sembra farsi portatore e la normale fragilità degli esseri umani.

 

È nello scontro con l’immaginario consulente nero e gay del repubblicano oltranzista Rick Santorum che questa verità si sostanzia per la prima volta nello show, e i costi della svolta verso l’energico giornalismo d’opinione di News Nightvengono in superficie.

 

 

 

Un essere umano è molto di più del suo ruolo in una società o della sua opinione politica: una verità che rappresenta uno dei grandi limiti del giornalismo, buono o cattivo che sia, un peccato originale che ha dei costi altissimi nella società dell’informazione. Fortunatamente Sorkin e quindi McAvoy tutto questo lo capiscono benissimo. Il percorso introspettivo raggiunge quindi l’apice quando il giornalista del New York Magazine invitato proprio da McAvoy in redazione per scrivere un pezzo sul programma, finisce per mandare in stampa un reportage durissimo dove definisce il presentatore “il grande sciocco”, cosa che quasi uccide McAvoy, perché è un uomo intellettualmente abbastanza onesto da sapere che c’è anche qualcosa di vero in quelle parole ostili. Il suo slancio verso il bene ha in sé una discreta dose di ignoranza della realtà, di ottimismo e di ineliminabile parzialità, ma non di meno è un atto che nella sua imperfezione sta donando nuovo senso alla sua vita.

 

Da lì in poi, e per tutto il resto della serie, Sorkin bilancerà quindi l’indole persecutoria di McAvoy (che ha un passato da pubblico ministero) con dubbi, momenti di incertezza, ripensamenti, depressioni che ci restituiscono un personaggio che pur per definizione al di sopra norma, rimane sempre saldamente in tre dimensioni.

 

Evitato il rischio di trasformare il suo protagonista in un “profeta sordo”, Sorkin evita però anche quello contrario e più insidioso del moralismo di secondo livello, quello per cui ogni manifestazione umana è bisognosa di comprensione e assoluzione a prescindere e il giudizio è perennemente sospeso nel desiderio, quantomeno sospetto, di essere come tutti. Un’eliminazione furba del giudizio che in ultima analisi altro non è che è la più alta e filistea delle forme di volontà di potenza.

 

Se è vero che ogni essere umano ha le sue ragioni, la massima abilità di un narratore è quella di mostrarle nella loro coerenza che è assieme parziale e necessaria; pretendere al contrario che ognuno dei personaggi, una volta appresi i propri limiti, sospenda ogni forma di giudizio è come chiedere a un uomo di svolgere il compito proprio di un essere immaginario, onnisciente, privo di emozioni e fallibilità. No, non Ken il guerriero, sto parlando di Dio. Questo, oltre a rappresentare una lieve forma di arroganza, è anche un pessimo modo per tracciare un personaggio, o quantomeno fornisce la garanzia di renderlo mostruosamente noioso e insincero.

 

Tanta parte della produzione letteraria e critica, soprattutto nordamericana, è al giorno d’oggi ossessionata da questo tipo di ricerca dell’egualitarismo di facciata, avendo forse dato per perso quello sostanziale. Sorkin fortunamente ha esperienza, coraggio e una profondità sufficienti a sfuggire anche a questo tipo di trappola, a costo di irritare una parte della critica. Al contrario molte serie oggi sembrano scritte con il manuale della lottizzazione del politically correct in modo da evitare problemi con i recensori, che negli Stati Uniti hanno ancora un peso commerciale e richiedono a gran voce cose come l’inserimento di neri in quartieri dove nella realtà non esistono (si vedano le critiche alla prima stagione di Girls di Lena Dunham in questo senso) o di donne che devono avere necessariamente dei poteri sovrannaturali e virtù morali inattaccabili. Se il maschio bianco McAvoy cade come un deficiente mentre s’infila i pantaloni è ok, ma se una MacKenzie fa cadere una lavagna durante un briefing diventa immediatamente un personaggio sessista. Avulso al concetto di scrivere sulla base di queste logiche, Sorkin si interessa dei problemi del mondo e soprattutto di quelli dei suoi personaggi, non rimane con lo sguardo fisso sull’apparenza che, al contrario, è il suo vero nemico nel momento in cui il suo obbiettivo è ricerca e la fondazione di un’etica più profonda, sostanziata nelle cose.

 

Sorkin è un indagatore, è uno scrittore morale con delle domande che esigono risposte, non è un politico che vuole vincere le elezioni della tv accaparrandosi consenso là dove saprebbe di trovarlo. Rischia perché sa quello che fa.

 

Usa la sua favola morale per cercare una risposta rassicurante al nichilismo ma nel farlo non può ignorarne l’onnipresenza.

 

Ecco allora che mette sui suoi personaggi il carico della loro fallibilità, non ripropone l’universo pacificato e manicheo delle serie tv di un tempo, ma prende i suoi personaggi, li getta nei problemi che le scelte giuste causano e li rende ciononostante capaci di slanci semplicemente desueti, in tempi di mezzi misure, di compromessi, di sogni troncati sul nascere in nome del principio di realtà e della convenienza professionale e civile.

 

Se The Newsroom appare quasi immediatamente come una favola la colpa non è solo di Sorkin, ma anche e soprattutto delle brutture a cui ci ha abituato realtà.

 

Questa decisione, questo impeto, hanno anche dei rischi intrinseci, perché è sicuramente vero che come diceva Yeats “maggiore il dubbio maggiore è l’artista”, è anche vero che prima o poi il dubbio si deve sciogliere nell’atto della creazione artistica e, con tutte le riserve del caso, l’opera prenderà infine una sua forma.

 

L’artista è quindi colui che si muove fra la necessità di plasmare un’opera mettendoci dentro tutto la verità di cui è capace e il sapere che il risultato non sarà mai niente di più che un’espressione soggettiva, gettata dentro un mondo privo di una ragione universale.

 

La creatura di McAvoy e del suo staff in questo mondo privo di regole condivise è il nuovo giornalismo di News Night, insieme scopo e bussola delle esistenze dei personaggi, mentre quella di Sorkin è The Newsroom, due esiti legati ma distinti perché mentre il primo fa affermazioni sulla realtà attraverso il ruolo del giornalismo, il secondo utilizza queste vicende per fare un discorso più generale su legge morale e quotidianità del lavoro, sulle motivazioni profonde dell’individuo e il loro contrasto con il primato del denaro e delle strutture burocratiche.

 

A un ultimo, e ancora più alto, livello Sorkin contrappone all’appiattimento nichilista la fede in un universo valoriale che per quanto imperfetto, parziale, in una parola umano, rimane per lui un’istanza superiore.

 

Come dice MacKenzie a un reporter: nonostante tutto l’impegno che mette nella missione del rinnovamento del giornalismo, McAvoy non è mai davvero sicuro di niente. Incertezza di fondo e decisione di fatto.

 

A farli convivere è il tatto umano di cui, nonostante i fuochi artificiali e i personaggi estremi, la scrittura di questa serie è intrisa.

 

In altri termini The Newsroom è divertente, appassionante, pieno di trucchi narrativi efficacissimi e talvolta un po’ paraculi ma non avrebbe un effetto così catartico, non sarebbe in grado di evocare tutte le emozioni che evoca nello spettatore, se non fosse una fiaba che attraverso il pretesto narrativo del giornalismo, tenta un’ambiziosa operazione di recupero di una soggettività in grado di autodeterminarsi liberamente all’intero dell’apparato tecno-economico del presente.

 

È per questo che è in grado di appassionare chiunque, non solo gli addetti ai lavori, che anzi sono sovente quelli che oppongono maggiori barriere, il che se quanto è stato detto fino qui è vero non depone certo a loro favore.

 

The Newsroom è un tentativo di risposta fantastica, positiva e romantica al brutale nichilismo realista delle serie degli ultimi anni, ma soprattutto è uno dei pochi intrattenimenti orchestrati con intelligenza e complessità tali da essere in grado di fornire emozioni ataviche e irresistibili anche a quelle persone che trovano il prodotto televisivo medio alternativamente o troppo stupido e quindi deprimente, o bello ma troppo realistico e quindi, se pur per altre vie, ugualmente deprimente.

 

Per questo un fan di The Newsroom è normalmente un fan appassionato: per riconoscenza verso la magica capacità che ha questa serie di fare sentire molto meno sole le persone con un pollice opponibile.

 

Questo è il motivo per cui, per quanto possa sembrare spiacevole, quando i fan diThe Newsroom dicono che i detrattori dello show semplicemente non lo capiscono, è difficile dargli torto, c’è così tanto altro sotto la superficie dei monologhi e i dialoghi troppo brillanti per essere veri.

 

Questa serie è una specie di operetta morale per persone che generalmente derubricherebbero a “retorica” qualsiasi considerazione positiva, perché sono, o si sentono, più intelligenti della media e quindi ritengono che l’ottimismo sia la virtù degli sciocchi, o dei bambini.

 

Non è nemmeno tanto importante stabilire se questa sensazione di disillusa sagacia sia fondata o meno, quanto piuttosto riconoscere il merito di una serie che in un contesto di un’industria culturale che tende sempre di più a livellare verso il basso la qualità dei propri prodotti, prova al contrario a proporre un intrattenimento così ambizioso da offrire allo spettatore più livelli di lettura sapientemente confezionati in un unico involucro capace di emozionare e divertire e, all’occorrenza, rubarti il portafoglio senza che tu nemmeno te ne accorga.

 

Hbo è meno interessata a quante persone guardano il programma piuttosto che a quanto quello che lo stanno guardando apprezzano lo show. Non hanno pensato il loro business model per fare felici gli scrittori. È solo una bella conseguenza involontaria.

 

Per tutti questi motivi, criticare questa serie perché ci sono solo tre persone di colore in redazione o un personaggio femminile che non sa usare le nuove tecnologie equivale a guardare il dito mentre il saggio indica la luna, che per altro è esattamente il trattamento che il mondo di The Newsroom riserva a Will McAvoy e i suoi, ma quale migliore conferma, in fondo, dell’assoluta qualità di questa serie.

 

Quit è giornalista e scrittore. Collabora con Il Venerdì di Repubblica, Linkiesta, Riders e Vice. Nel 2014 ha pubblicato per Indiana editore Quitaly. Nel 2013 ha vinto il Mia award per il miglior articolo del web. Il suo sito è www.quitthedoner.com

 
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Perché ho amato The Newsroom. E molto da internazionale.it

Post n°12116 pubblicato il 24 Gennaio 2015 da Ladridicinema
 

Provare a immaginare quello che vogliono gli spettatori e poi provare a soddisfarlo è generalmente una cattiva ricetta per ottenere qualcosa di buono.–Aaron Sorkin

 

Ci sono molti insegnamenti che si possono ricavare da The Newsroom, la splendida serie Hbo di Aaron Sorkin che si è conclusa il 14 dicembre: il primo, il più ovvio, e forse il meno interessante dei quali, è che se massacri il giornalismo probabilmente non sarà poi così facile trovare tutti questi giornalisti pronti a tessere le tue lodi. Questo è solo uno e non certo l’unico motivo per cui The Newsroom è stata fra le opere di Sorkin più amate dal pubblico, ma al tempo stesso quella che ha diviso maggiormente la critica, che non le ha risparmiato stroncature, rivolte soprattutto contro la prima stagione.

 

Che non sarebbe stato uno show dalle mezze misure si era capito subito dal famoso monologo iniziale che affrontava uno dei più grandi tabù d’oltreoceano: l’America non è necessariamente il miglior paese del mondo.

 

 

 

Per un europeo un’argomentazione di questo tipo genera un’alzata di sopracciglia e un “ok, adesso, mentre io vado a farmi visitare gratis in un ospedale pubblico, tudimmi qualcosa che non so già”; per un americano significa invece la richiesta di sedersi in partenza dalla parte della tavola dove stanno i personaggi problematici, quelli in pericoloso equilibrio fra il weird inteso come concetto limite del consesso sociale e quello, opposto e positivo anche se inconsciamente altrettanto sospetto, del profeta visionario di successo.

 

Fortunatamente Will McAvoy, l’anchorman di The Newsroom interpretato da Jeff Daniels, sfugge ad entrambe le derive e, sulle ali della scrittura a più livelli di Sorkin, si dimostra sul lungo periodo un personaggio complesso, profondo e articolato e non una semplice riedizione di Howard Beale, il giornalista predicatore folle del Quinto potere di Sidney Lumet.

 

Dopo lo sfogo sulla crisi generalizzata della società americana, la serie ruota attorno al tentativo di riaffermare un giornalismo di qualità, un giornalismo delle origini, quello degli spesso evocati Walter Cronkite e Edward Murrow, come cura contro la decadenza.

 

A provare a compiere questa missione, per stessa ammissione dei protagonisti donchiscottesca, è un gruppo composto da un presentatore che fino a quel momento è stato famoso per essere un personaggio accomodante, moderato, zerbinesco e in quanto tale popolare (se vi ricorda qualcuno, tenete presente che la rete è la Acn, nome di fantasia, e non Raitre); MacKenzie McHale, una executive producer (che è anche la sua ex) idealista, affascinante e intelligente e svampita abbastanza da inserirsi di diritto nella grande tradizione dei personaggi femminili che piacciono molto ai maschi che hanno studiato la cui esponente di punta è la Diane Keaton di io e Annie. Sopra questa copia siede Charlie Skinner, l’anziano capo della sezione news, alcolizzato e discretamente visionario a sua volta; e sotto una redazione composta principalmente da giovani con formazione universitaria d’élite, rocciosamente motivati e brillanti, guidati da un’esigua classe intermedia di 30-40 enni la cui competenza nei rispettivi ambiti sfiora l’onniscienza divina, mentre le loro attitudini sociali tendono, con forza uguale e contraria, al disastroso.

 

Mi piace scrivere di persone che sono molto brave in quello che fanno, e molto meno brave in tutto il resto.–A. S.

 

Questo contesto, assieme alle dinamiche giornalistiche che si sviluppano nella produzione del programma-nel-programma News Night (così viene chiamata la striscia delle 20 condotta nella finzione da McAvoy), è stato largamente criticato come irreale, e con una certa dose di ragione.

 

La Columbia journalism review che, ironicamente, nella serie viene citata come organo a favore della svolta purista di News Night, nella realtà ha invece evidenziato alcuni degli aspetti poco realistici del modo di lavorare della redazione della serie, mentre il Guardian (la cui perquisizione della sede da parte servizi inglesi dopo le rivelazioni di Edward Snowden ricorda peraltro quella che subisce News Night a opera dell’Fbi) nota che il problema morale rispetto alla produzione di notizie, appare oggi superato da quello della sostenibilità economica del giornalismo e dal cambiamento radicale del concetto stesso di notizia imposto da internet.

 

Voglio essere molto chiaro. Non stiamo facendo giornalismo e lo show non è sul giornalismo. È sulle persone che fanno giornalismo.–A.S.

 

Tutte obiezioni più che sensate, anche se Sorkin nella terza stagione aggiusterà il tiro tematizzando molti dei problemi aperti dall’avvento di internet nel business dell’informazione attraverso il personaggio di Pruit, un orrido multimiliardario del web, personificazione del barbaro che non è più alle porte ma è già comodamente seduto in salotto. Ma il punto non è nemmeno questo.

 

Se non fosse bastata la prodigiosa memoria e la virtuosistica abilità retorica del monologo iniziale di McAvoy, la serie è piena gli altri dialoghi rapidi, ultra competenti e totalmente privi di non-detti, dubbi, incertezze che dovrebbero rendere immediatamente evidente che quello che Sorkin cerca di ottenere non è certo un realismo assoluto. E questo nel suo caso, non è nemmeno una novità, basti pensare a The west wing e i suoi lunghi walk and talk.

 

 

 

I personaggi di Sorkin parlano da sempre come parleremmo se avessimo un cervello grande il doppio, un collo in grado di sostenerne il peso e una schiera di autori pronti a suggerirci in tempo reale la battuta più intelligente saltata fuori ad un tavolo di dieci professionisti.

 

Ora tutto questo può essere respingente. Ma se invece si accetta il fatto che il principio di realtà abita da un’altra parte e non tutti gli show devono essere il pur indimenticabile The wire, e che, ancora, il realismo radicale è soltanto una delle strategie dello storytelling, diventa allora possibile incominciare a godersi The Newsroom. Non che la serie non abbia proprio alcun punto di contatto con la realtà: per crearlo Sorkin ha frequentato per mesi gli studi di diversi programmi televisivi, e benché sia noto per scrivere tutto da solo, ha chiesto e ottenuto da Hbo una writers room composta da otto ricercatori, ampliata da consulenti dedicati esclusivamente alla politica conservatrice per la seconda stagione.

 

Mi piace scrivere romanticamente e idealisticamente ma avere ancora un piede nel mondo in cui viviamo.–A.S.

 

La realtà però è che la disciplina giornalistica, per quanto tratteggiata con pretese di un certo grado di mimetismo, è in The Newsroom soprattutto una scusa per parlare di qualcosa di più ampio. Per capire cosa, è innanzitutto necessario notare come McAvoy nella tradizione delle serie televisive odierne, si distingua per il suo essere un personaggio positivo in una platea di personaggi negativi e votati al più realistico e spietato nichilismo esistenziale.

 

Al tempo stesso tra la figura idealtipica della nuova serialità televisiva (Walter White su tutti) e McAvoy esiste un legame, seppur per contrasto. All’inizio della serie, il presentatore è infatti esattamente uno di questi personaggi negativi che vanno tanto di moda: ha successo, ha la stima di chi conta, è amico del suo capo ed è ricco, potrebbe essere un arrivista senza scrupoli, il Nucky Thompson del giornalismo televisivo e lottare per rendere stabile e inattaccabile il suo potere.

 

Al contrario però è depresso, odia quello che fa, e con un transfert banale quanto non per questo meno credibile, tratta malissimo le persone con cui lavora. Dopo anni ha ancora il cuore infranto per la sua ex che ha tradito la sua fiducia, consegnandolo a una valle oscura di cinismo e disperazione. È solo, avvilito, senza prospettive, ed è all’apice del suo successo. È l’antitesi del sogno americano, perché è il sogno americano ad avere smarrito se stesso, questo è il sottotesto che Sorkin ci suggerisce.

 

La sua rinascita passerà quindi attraverso la riscoperta di un sentimento morale che lo infilerà in una serie lunghissima di problemi professionali e solo dopo aver portato in superficie ferite dolorose e mai suturate, gli permetterà di riconquistare, amore, appartenenza ad un gruppo ed a un progetto, felicità di vivere e rispetto di se stesso, che in fondo è il premio più importante.

 

The Newsroom al di là della scrittura al fulmicotone, del cast stellare e della produzione eccellente è quindi prima di tutto una favola morale e in quanto tale, e non come manuale del giornalismo del futuro, va giudicata.

 

La “famiglia” di The Newsroom. - Dr

La “famiglia” di The Newsroom. Dr

La rinascita morale di Will McAvoy e dei suoi passa attraverso la ricerca di un giornalismo che non sia né uno scherano del potere né un generatore automatico di marcio di sistema (i due grandi canoni a cui, per esempio, siamo abituati in Italia), bensì un modello di informazione basato su una rigorosità deontologica assoluta, d’altri tempi. Sui vari tipi di giornalismo rappresentati nei film e nelle serie tv americane, compreso quello di The Newsroom, Alessandro Gazoia ha recentemente scritto un ottimo ed esauriente articolo su queste pagine.

 

A questo proposito basti quindi citare, come peculiarità del lavoro della redazione immaginata da Sorkin, una cura ossessiva delle fonti, lunghi e quasi fantascientifici processi di verifica (nella realtà in pochi hanno tutta quell’energia, e praticamente nessuno può investire tutti quei soldi in simili standard qualitativi), e alcune cose che quasi commuovono come quando Sloan Sabbith viene sospesa perché ha rivelato in onda un’informazione avuta off the record da un tecnico della centrale di Fukushima e, mentre lei impacchetta le sue cose nel suo ufficio, davanti al tuo cervello italiano sfilano tutte le registrazioni off the record impunite di programmi come Striscia la notizia, Le Iene o Report.

 

Quello della redazione di The Newsroom è indubbiamente un mondo migliore di quello in cui viviamo, un luogo dove non si pretende che gli altri rispettino le regole che noi ignoriamo e il fine non giustifica mai i mezzi, ma al contrario si sostanzia attraverso un uso etico degli strumenti e delle pratiche d’indagine. Il processo di produzione è la notizia. Il giornalismo è una sorta di complesso ethos fatto di competenze elevate e di regole che si osservano per primi nella misura in cui si vorrebbe fossero applicate alle società nella sua interezza.

 

Il giornalismo di Sorkin non è rivoluzionario, non è radicale, è attaccato e rispettoso delle istituzioni ma mai in quanto mera manifestazione di potere bensì sempre come espressione di principi condivisi. McAvoy è un repubblicano sui generis (non fa che attaccare il suo partito) ma è soprattutto dal punto di vista temporale che si può definire un conservatore, nella misura in cui prescrive un ritorno ad un età dell’oro, in cui erano forti quei valori originari smarriti nella ricerca del profitto economico e dell’apparenza. Che l’età dell’oro sia o meno esistita non è un tema che si possa trattare qui; altri eroi immaginari delle serie tv, come il già citato Nucky Thompson o Thomas Shelby, non sarebbero per niente d’accordo; quello che conta qui è che il ritorno al passato ha un senso in quanto indica il recupero di determinati valori, la questione storiografica passa quindi in secondo piano.

 

Non è quindi questa una visione che esclude i giovani, che, anzi, nella misura in cui si affezionano agli standard di un giornalismo rigoroso e non seguono le sirene delcitizen journalism di internet e di siti alla Gawker (per altro, sempre ironicamente, uno dei pochi veramente entusiasti della serie) possono dare il loro meglio e fare le carriere più rapide. L’esempio di questa dinamica è Neal Sampat, il nerd che scrive il blog di McAvoy (il punto più basso della redazione visto che i blog per McAvoy sono l’esemplificazione del male) e che finirà per diventare un produttore di rilievo di contenuti giornalistici. La redazione di The Newsroom è ideale, romantica, impegnata nella missione enorme e scivolosissima di restituire senso a una realtà che l’ha smarrito, e nel farlo si fa un culo così. L’unità alla base della rinascita morale è appunto questa famiglia di produttori di notizie, e Sorkin prende alcuni oculati provvedimenti narrativi per rendere il gruppo compatibile con gli alti scopi che si prefigge.

 

Al contrario di qualsiasi redazione (ma anche di qualsiasi generico posto lavoro) di cui io abbia notizia nel mondo reale, la gerarchia interna a quella di News Night èinteramente senza eccezione alcuna basata sulla più perfetta ed efficiente meritocrazia, intesa non solo come calcolo dei risultati produttivi ma come somma di tutti i fattori di felicità di una persona. È praticamente una Città Del Sole finita accidentalmente dentro la sede di un canale via cavo.

 

 

 
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«The Newsroom», la serie tv utile (anche) ai giornalisti da corriere.it

Post n°12115 pubblicato il 24 Gennaio 2015 da Ladridicinema
 

 

La fiction sul giornalismo Usa potrebbe essere uno strumento di aggiornamento professionale, tanto che l’Ordine dovrebbe trasformarne la visione in un corso
di Aldo Grsso

 

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Una modesta proposta. I giornalisti italiani devono frequentare i corsi di formazione resi obbligatori da una legge che riforma gli Ordini professionali. Partecipando a corsi ad hoc, organizzati dall’Ordine, o ad altri eventi formativi riconosciuti, il giornalista deve acquisire nell’arco di un triennio 60 crediti formativi, con un minimo di 15 crediti annuali. 

Siccome i pochissimi corsi gratuiti sono già tutti esauriti (suscitando non poche polemiche), ne vorrei consigliare uno: «The Newsroom», la serie firmata da Aaron Sorkin. Negli Usa è già in onda la terza stagione; da noi, su Rai3, è visibile la seconda (giovedì, 23.15). Com’è noto, la serie racconta il lavoro della redazione giornalistica di un programma d’informazione: Will McAvoy (Jeff Daniels) è il carismatico anchorman della trasmissione «News Night», affiancato dalla produttrice Mackenzie McHale (la sua «coscienza professionale») e da una squadra di giovani giornalisti che affrontano con grande passione le insidie e le gioie del mestiere. La missione di Will è quella di trasformare il suo programma in uno strumento d’informazione a servizio dell’elettorato e dunque della società americana, senza curarsi troppo degli ascolti. 

 

 

È vero, «The Newsroom» non è piaciuta molto ai «veri» giornalisti che hanno intravvisto nella fiction un astratto e idealizzato trattato sulla professione, una sorta di lezioncina su come svolgere il proprio lavoro, sentendosi chiamati in causa soprattutto perché la serie si sofferma spesso su come gli organi d’informazione non abbiano coperto con l’adeguata accuratezza e imparzialità vicende importanti e recenti. Ma proprio qui, nel senso di inadeguatezza tra un modello ideale e la vita di tutti giorni, si possono scovare i crediti formativi. 
Per di più «a gratis», su una tv generalista. Dimenticavo: il titolo del corso è il seguente: «Come garantire un’informazione di qualità, semplicemente facendo bene il proprio lavoro».

 
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The Newsroom: Recensione dell’episodio 3.06 – What Kind of Day Has It Been da telefilm-central.org

Post n°12114 pubblicato il 24 Gennaio 2015 da Ladridicinema
 

The Newsroom: Recensione dell’episodio 3.06 – What Kind of Day Has It Been

The Newsroom: Recensione dell’episodio 3.06 – What Kind of Day Has It Been

Giace qui l’hidalgo forte / che i più forti superò,
e che pure nella morte / la sua vita trionfò.
Fu del mondo, ad ogni tratto, / lo spavento e la paura;
fu per lui la gran ventura / morir savio e viver matto.
(Don Chisciotte della Mancia, Miguel de Cervantes)

Schermata 2014 12 22 alle 09.59.37 200x150 The Newsroom: Recensione dellepisodio 3.06   What Kind of Day Has It BeenSiamo purtroppo qui a celebrare un funerale. E nonostante si dica sempre che la persona dipartita fosse buona e brava, insomma la migliore, noi non vogliamo essere certo ipocriti e affermare che chi è venuto a mancare fosse completamente perfetto. E no, non parlo di Charlie Skinner.
L’episodio si apre infatti con il suo di funerale. Una messa solenne e un lungo corteo di macchine accompagnano la fine di uno dei personaggi televisivi più integri, più leali che abbiamo finora conosciuto. E si, di lui possiamo veramente dire che era una brava persona.
Ma qui non siamo solo al funerale di Charlie Skinner. Qui assistiamo alla celebrazione della fine della serie stessa. Di una serie che ha avuto un destino sfortunato.
Aaron Sokin, padre e boia al tempo stesso, costruisce questa puntata intorno alla memoria e al ricordo, intrecciando presente e passato. Un elogio alla sua creatura e ai personaggi, che in alcuni punti forse pecca di saccenza e perbenismo e in altre sembra rispondere troppo fedelmente alle pretese del pubblico americano che in questi anni non l’ha premiato poi più di tanto. Ciò che ci racconta Sorkin in questa puntata è quasi scontato a volte, ma gli encomi servono a ricordare le gesta degli eroi e non i loro misfatti.

Passato
Schermata 2014 12 22 alle 10.48.06 200x150 The Newsroom: Recensione dellepisodio 3.06   What Kind of Day Has It BeenVi siete mai chiesti come sia arrivata Mackenzie a guidare il notiziario più seguito dagli Americani? Come mai proprio l’ex fidanzata del presentatore, con idee completamente opposte alle sue riguardo a cosa sia il giornalismo, si ritrova a sedere nell’ufficio accanto e a dovergli dare ordini?
The master of puppets, il deux ex machina dietro l’operazione è, come già sapevamo, proprio lui, Charlie Skinner. Ciò che non conoscevamo ancora erano le argomentazioni che Charlie espone a Mackenzie per convincerla ad accettare il lavoro. Non solo lamissione di civilizzazione che ha animato la ciurma in queste tre stagioni, ma anche un aspetto più intimo, più umano come l’amore tra un uomo e una donna. L’amor che move il sole e l’altre stelle.

Presente (e futuro)
Un amore a cui è concesso anche interrompere una messa funebre e strappare un sorriso al nostro anchorman alla notizia che diventerà padre. Charlie, Will e Mackenzie sono stati i tre pilastri intorno a cui si sono mosse le vicende di questa serie. Charlie, Will e Mackenzie come tre facce di una stessa medaglia, tre volti di una stessa persona, di unmoderno Don Chisciotte (al secolo Aaron Sorkin) che decide di combattere contro i mulini a vento del gossip e del dilettantismo. E lo fa reclutando un esercito di giovani leve che credono come lui che il giornalismo non è una professione, ma una vocazione.
4 d490ed78a9 200x150 The Newsroom: Recensione dellepisodio 3.06   What Kind of Day Has It BeenSiamo alla fine di un percorso ma siamo anche all’inizio di un altro: con la morte di Charlie e l’arrivo di Pruitt il destino della redazione sembra andare verso nefasti addii. Sarà l’intervento della matrigna cattiva, Leona Lansing, a salvare le sorti di tutti e a convincere (imporre a) Pruitt ad assumere Mackenzie come nuovo presidente della ACN.

E vissero tutti felici e contenti… penserete voi. In realtà a me questa puntata un pò di amaro in bocca lo ha lasciato. Perché se nella finzione la storia ha, a modo suo, unhappy ending (Will che sta per diventare padre, Mackenzie a capo della ACN, Jim promosso a PE, Maggie che parte per Washington, Neal che torna a dirigere ACN Digital), in realtà il progetto di Sorkin di raccontare un modo di fare giornalismo, che spesso non si allinea con quello reale, si è scontrato contro il nemico primo che la finzione ha dovuto combattere, gli ascolti.

Anche per questa ultima puntata Aaron Sorkin ci regala un’altra canzone della tradizione americana il cui testo si intreccia con le vicende dei nostri. If you love somebody enough you’ll follow wherever they go / If you love somebody enough you’ll go where your heart wants to go si legge in alcuni versi: e non importa se quel somebody sia un uomo, una donna o un lavoro. Bisogna decidere di amare col cuore, ma anche con la testa.

 
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Arabia Saudita: blogger condannato a 10 anni e 1000 frustate da radiovaticana

Post n°12113 pubblicato il 24 Gennaio 2015 da Ladridicinema
 

Moglie del blogger condannato in Arabia Saudita - AFP

15/01/2015 12:27

 

Sit-in, oggi, di fronte all'Ambasciata dell'Arabia Saudita a Roma per chiedere l'annullamento della condanna a 10 anni di carcere e a 1000 frustate inflitta a Raif Badawi, il blogger dissidente giudicato colpevole di aver offeso l'Islam sul suo forum online "Liberali dell'Arabia saudita". A organizzare l'appuntamento è  stata Amnesty International Italia, con il supporto della Federazione nazionale della stampa italiana (Fnsi) e l'associazione per la libertà di stampa Articolo 21. È previsto che le 1000 frustate siano eseguite con scadenza settimanale, 50 per volta. Le autorità saudite hanno reso noto che la seconda serie, dopo quella di venerdì scorso, avverrà domani16 gennaio, in una pubblica piazza di Gedda. Fausta Speranza ha intervistato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia:

R. – Il governo di Riad da un lato difende la libertà di espressione dei giornalisti di Charlie Hebdo massacrati a Parigi ma, dall’altro, condanna a mille frustrate un blogger dissidente che non ha fatto altro che esercitare il suo diritto alla libertà di espressione. Lo fa con una gogna, abbiamo visto la prima serie di frustrate inflitte venerdì scorso e la seconda rischia di essere inflitta tra poche ore.

D. – Qual è la colpa di questo giovane, che cosa ha detto in sostanza?

R. – Ha fatto qualcosa che è assolutamente legittimo: ha organizzato online un sito, un forum, per una discussione su vari aspetti, compresa ovviamente la religione. Ha criticato lo zelo con cui la polizia religiosa persegue comportamenti non conformi, non consentiti; ha detto che le religioni sono uguali e che è possibile, anche in un Paese governato dalla legge islamica, professare altre fedi. Non ha fatto nient’altro che esercitare un diritto fondamentale, esprimendo le sue idee online, creando un dibattito nel Paese. Questo ha dato fastidio alle autorità.

D. – Che cosa sappiamo dell’eco tra la gente in Arabia Saudita?

R. – Molto poco! L’unica eco che abbiamo constato, dalle testimonianze oculari, sono le grida “Dio è grande” quando è terminata l’esecuzione delle 50 frustrate. Ricordo che avvengono in piazza, in luogo pubblico, alla fine della preghiera del venerdì, di fronte alla moschea della città di Gedda. E’ come se con quel castigo, quella gogna, le persone intorno abbiano creduto che quell’uomo fosse stato, in qualche modo, purificato.

D. – Sullo sfondo c’è una situazione più ampia di difficoltà in tema di diritti umani in Arabia Saudita…

R. – Non c’è dubbio. Pensiamo che l’avvocato di Raif Badawi si è visto inasprire la condanna da 10 a 15 anni in appello all’inizio di questa settimana, pensiamo che ci sono leggi antiterrorismo assolutamente vaghe e formulate in modo da impedire anche l’espressione del dissenso pacifico e poi pensiamo che ci sono avvocati, attivisti per i diritti umani e organi di monitoraggio indipendente, che sono falcidiati da arresti e condanne su base mensile…

D. – Che cosa dire del possibile intervento della Comunità internazionale?

R. – Ci sono state delle proteste abbastanza blande, devo dire. I governi che hanno rapporti politici, economici e anche militari con l’Arabia Saudita, gli Stati Uniti in particolare, hanno espresso una condanna, però evidentemente non è bastata. Bisogna fare molto di più! Il rischio è duplice: da un lato, che la pressione dei governi non fermi questa ignobile pratica delle frustrate, dall’altra che magari ci riesca ma che ci si fermi lì e che il caso di Raif Badawi finisca nell’oblio. Speriamo che al più presto siano terminate le frustrate, ma comunque scatterà la condanna a dieci anni di carcere.

D. – Ma non ci sarebbero sedi internazionali in cui discutere casi come questi, o comunque le problematiche che ci sono dietro?

R. – Sarebbe certamente possibile se i diritti umani fossero un argomento di costante attenzione e non un tema da usare quando fa comodo, e quindi da usare contro il nemico di turno o da dimenticare invece quando si tratta degli amici di turno. Purtroppo così non è! Il paradosso è che al centro di questa situazione c’è un Paese che con l’Occidente ha rapporti molto importanti.

 
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Il contestato Exodus in testa da ansa

Post n°12112 pubblicato il 24 Gennaio 2015 da Ladridicinema
 

 

 

Il contestato Exodus re del box officeAmerican Sniper a oltre 15 mln, Si accettano miracoli a 14 mln

 

 

(ANSA) - ROMA, 19 GEN - Il contestato film Exodus: Dei e re conquista al debutto la classifica del box office con oltre 2,6 mln di euro di incasso in 4 giorni, scalzando dalla vetta American Sniper di Clint Eastwood (15,4 mln in 3 settimane).
    L'inglese La Teoria del tutto entra al terzo posto, con la miglior media per schermo (4.517). La commedia di Alessandro Siani Si accettano miracoli vola ancora alto e supera i 14 mln.
    Le new entry Asterix e Italo si piazzano al sesto e nono posto.
    Il box office risale a +9%.

 
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MarciadiParigi.ReportersenzaFrontiere:èstatala“sfilatadell’ipocrisia” da nena news

Post n°12111 pubblicato il 24 Gennaio 2015 da Ladridicinema
 

Tutti in prima fila e a braccetto, 40 tra i più importanti leader mondiali si sono uniti alla marcia organizzata ieri a Parigi in solidarietà a Charlie Hébdo. Ma un comunicato di Reporter senza Frontiere e una serie di tweet ricordano a tutti chi sono molti dei prodi difensori della libertà di espressione 

François Hollande _n Paris march

di Jared Keller – Mic

Roma, 12 gennaio 2015, Nena News - Milioni di persone sono scese domenica per le strade di Parigi e nelle città di tutta la Francia in difesa della libertà di parola e contro il terrorismo a seguito dell’attacco di mercoledì scorso al giornale satirico Charlie Hébdo. Il ministero dell’Interno francese ha detto all’ Associated Press che 3,7 milioni di persone hanno marciato in tutta la Francia, rendendo la manifestazione la più grande nella storia del Paese.

In aggiunta al peso simbolico delle manifestazioni, più di 40 leader mondiali hanno partecipato all’inizio della marcia di Parigi, tutti a braccetto in un atto di solidarietà. Ma, come ricorda l’organizzazione Reporter senza Frontiere, le loro politiche a casa sono tutt’altro che compatibili con la solidarietà mostrata per la libertà di parola in tutta la Francia.

L’organizzazione si è dichiarata “sconvolta per la presenza di leader di paesi in cui giornalisti e blogger sono sistematicamente perseguitati come l’Egitto (classificato al 159esimo posto su 180 paesi nell’indice sulla libertà di stampa di RSF), la Russia (148), la Turchia (154 ) e gli Emirati Arabi Uniti (118)”.

“Dobbiamo dimostrare la nostra solidarietà a Charlie Hébdo – ha dichiarato ieri il segretario generale di Reporter senza Frontiere Christophe Deloire – senza dimenticare tutti gli altri Charlie del mondo. Sarebbe inaccettabile se i rappresentanti dei paesi che impongono il silenzio ai propri giornalisti dovessero sfruttare l’attuale effusione di emozione per cercare di migliorare la propria immagine internazionale e poi continuare le loro politiche repressive quando tornano a casa. Non dobbiamo permettere che i predatori della libertà di stampa sputino sulle tombe di Charlie Hébdo“.

Ha ragione. In quello che può solo essere descritto come una serie epica di 21 tweet taglienti, il co-presidente della London School for Economics Middle East Society Daniel Wickham sottolinea che molti dei leader mondiali che hanno sfilato domenica per le strade di Parigi non sono i più grandi sostenitori al mondo della libertà di stampa.

- See more at: http://nena-news.it/marcia-di-parigi-la-sfilata-dellipocrisia/#sthash.S8LQLvxJ.dpuf

 
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“Nel nostro Paese la democrazia è marcia” da Articolo21

Post n°12110 pubblicato il 24 Gennaio 2015 da Ladridicinema
 

“Nel nostro Paese la democrazia è marcia”. “E noi giornalisti dobbiamo modificare i nostri codici di interpretazione della realtà” Intervista a Riccardo Iacona

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L’Italia non ha ancora utilizzato una parte dei Fondi europei. Quindici miliardi di euro andranno persi se non verranno spesi entro la fine di quest’anno. Il 28 settembre scorso le telecamere di “Presadiretta”, nella puntata finale della prima serie della stagione 2014-2015 hanno seguito e raccontato questo fiume di denaro arrivato in Italia e disperso in mille progetti, spesso inutili. E anche quelli validi rischiano di fallire per colpa dell’inefficienza della burocrazia. Che fine faranno i grandi progetti per la messa in sicurezza di Pompei, il recupero del centro storico di Napoli o la riqualificazione del porto partenopeo?
“Presadiretta” è tornata l’11 gennaio su Rai3 con dodici nuove puntate in prima serata ed è ripartita proprio dal tema della (mancata) valorizzazione del territorio. Ne parliamo con l’autore e conduttore Riccardo Iacona (nella foto).

Ripartite nel nuovo anno con il tema della valorizzazione del nostro patrimonio ambientale. E’ questa la sfida per far ripartire il paese?
Senza ombra di dubbio, e non a caso abbiamo voluto intitolare la prima puntata “Tesoro Italia”. Abbiamo attraversato lo stivale per capire dove investire, su cosa puntare. Il nostro paese custodisce al suo interno ricchezze talmente importanti che se fossero adeguatamente valorizzate ci farebbero uscire tempestivamente dalla crisi. Ricchezze di terra, acqua, boschi, cibo, bellezze artistiche, paesaggi mozzafiato. Ovviamente per fare questo bisogna cambiare l’idea stessa di sviluppo. I soldi devono essere investiti per completare i lavori dei cantieri, combattere l’abusivismo e riconsegnare agli italiani e al mondo un paese migliore.

Avendo girando a lungo per il paese in questi mesi da che parte pende la bilancia? Gli italiani sono ottimisti o pessimisti per il futuro?
Questo è un paese allo stremo, spossato da una recessione lunghissima ma al tempo stesso pronto a rimboccarsi le maniche. Ci sono storie straordinarie di singole donne e uomini che sono riusciti a rialzare la testa e a fare miracoli. E le racconteremo. Dalla crisi si può uscire, bisogna soltanto capire qual è la porta, dove trovare e indirizzare le risorse pubbliche da mettere sul giusto sentiero. Lo dicevamo già due anni nelle prime puntate di “Presadiretta” sul tema dell’austerità: finché non si mettono risorse nuove nel motore il paese non riparte. Per questo dedichiamo un’intera puntata al famoso cappio del “tre per cento” per capire se ce lo dobbiamo tenere al collo o meno. E ci domandiamo cosa accadrebbe se sforassimo il tetto utilizzando quelle risorse per fare i grandi investimenti pubblici di cui il paese ha bisogno.

E la bilancia della politica? Dalle ultime elezioni in poi sembra che la fiducia nelle istituzioni e nei partiti cali vertiginosamente
Ogni anno che passa la politica viene vissuta come inutile, se non dannosa, e ovviamente ciò che è emerso dalle inchieste su “mafia capitale” ha contribuito a gettare benzina sul fuoco. Il Paese è completamente distaccato dal palazzo e diminuisce il tasso di fiducia e di credibilità. E questo è un rischio grave. Perché è come se si abbassasse il sistema immunitario del paese. Siamo già malaticci e con le difese basse può succedere di tutto e di più. Per questo è urgente prendere il timone della barca e decidere rapidamente dove puntare la prua.

La crisi di fiducia nella politica contribuisce anche al calo di attenzione nei talk show?
In parte è inevitabile e l’arena dei politici che si confrontano e scontrano non appassiona più. Ma è anche vero che gli stessi talk potrebbero raccontare la politica diversamente, allargare i contenuti, raccontare storie sempre nuove. Il mondo è cambiato, e nel nostro Paese la democrazia è marcia, il male è entrato in profondità e c’è bisogno che ognuno faccia il proprio lavoro onestamente. E dobbiamo rendercene conto anche noi giornalisti e modificare i nostri codici di interpretazione della realtà.

Come si esce dalla palude?
Il punto dirimente nelle prossime settimane sarà l’elezione del presidente della Repubblica. Per come la vedo io tutta questa velocità di Renzi si sviluppa prevalentemente sul terreno della comunicazione e meno sui fatti. E quindi mi auguro che all’indomani dell’elezione del Capo dello Stato “si cambi davvero verso” come ama dire il nostro presidente del Consiglio. Per quanto riguarda il nostro settore, l’informazione, continuo a porre alcune domande urgenti: quando la faranno la riforma della Rai? Quando cambieranno la governance? Quando toglieranno l’abbraccio della Rai con i partiti politici? Spero che questi interrogativi non rimarranno a lungo elusi.

Intervista a cura di Stefano Corradino pubblicata sul Radiocorriere Tv

twitter s_corradino

17 gennaio 2015

 
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Libertà per Greste, Fahmy e Mohammad

Post n°12109 pubblicato il 24 Gennaio 2015 da Ladridicinema
 

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Conosco bene Peter Greste, il giornalista australiano della televisione Al Jazeera, detenuto in un carcere egiziano dal 29 dicembre 2013. Dal 2009 al 2011 ha lavorato a Nairobi. Ci incontravamo spesso alle riunioni della Fcaea, l’associazione della stampa internazionale, che quasi ogni settimana dà la possibilità di intervistare “off records” gli esponenti politici di passaggio nella capitale del Kenya. Una occasione per creare rapporti, scambiarsi idee e informazioni. Quel pazzo di Peter amava sfrecciare sulla sua rombante motocicletta per le strade di Nairobi (dotate di buche simili alla fossa delle Marianne) ed evitando contemporaneamente i matatu, piccoli pullman privati che assicurano il trasporto pubblico, guidati da autisti costretti a turni di lavoro di 15 ore da affrontare masticando foglie di qat, una droga legale che provoca effetti simili all’anfetamina che cancella fame e stanchezza. L’ultima volta l’ho incontrato al Westgate, il centro commerciale attaccato dai terroristi somali nel settembre 2013, un veloce saluto e poi ognuno a correre dietro il proprio forsennato lavoro.

Peter Greste è stato arrestato insieme a Mohamed Fahmy, canadese, capo della redazione di Al Jazeera al Cairo, ed al produttore Baher Mohammad. Durante il primo mese di detenzione furono tenuti anche in celle di isolamento. Il ministro dell’interno egiziano li ha accusati di aver favorito il terrorismo con il loro lavoro giornalistico mettendo in pericolo la sicurezza nazionale. Un processo farsa conclusosi con la condanna a 7 anni di carcere. Lo scorso 1 gennaio la Corte di Cassazione ha annunciato un nuovo processo senza però rilasciare su cauzione i tre giornalisti. In particolare Greste, Fahmy e Mohammad sono accusati di aver incontrato alcuni esponenti dei Fratelli Musulmani, il movimento islamista politico-religioso dichiarato “gruppo terroristico” dal governo del Cairo appena una settimana prima degli arresti. In realtà sono in carcere per aver fatto solo il loro lavoro perché quegli incontri (simili a quelli fatti da centinaia di altri giornalisti) servivano ad acquisire informazioni per offrire un quadro completo della evoluzione politica. Peter Greste ha alle spalle quasi 30 anni di lavoro con l’agenzia Reuters, Cnn e Bbc sui fronti più caldi del pianeta: Bosnia, Afghanistan, Sudafrica e la cautela è la bussola per chi si muove in questi scenari. Purtroppo i tre giornalisti sono le incolpevoli vittime di uno scontro che oppone il governo egiziano all’emittente Al Jazeera, accusata di parteggiare per i Fratelli Musulmani e di essere uno strumento politico dell’emiro del Qatar che otterrebbe vantaggi e favori politici da parte di altri stati del Medio Oriente e dagli Usa.

Va ricordato che la Commissione per la Protezione dei Giornalisti (CPJ) ha indicato Egitto, Siria e Iraq come i luoghi più pericolosi dove fare i giornalisti. Fino ad ora sono risultate infruttuose tutte le iniziative per chiedere il ritorno in libertà dei tre colleghi. Martedì scorso il ministro degli esteri egiziano in missione alla Unep di Nairobi si è rifiutato di incontrare una delegazione di giornalisti internazionali.
Se lo spirito della manifestazione di Parigi di domenica 11 gennaio a favore della libertà di stampa è ancora in vita, non possiamo non chiedere la libertà per Greste, Fahmy e Mohammad detenuti ingiustamente da più di un anno. Sarà il miglior banco di prova (anche immediato) per capire realmente quanti di quei capi di stato e premier che una settimana fa erano tutti Charlie oggi lo sono ancora. Ma riguarda specialmente noi giornalisti, chiamati a superare la fase puramente emozionale e creare un percorso condiviso per praticare la libertà di stampa senza “se” e senza “ma”.

18 gennaio 2015

 
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Charlie Hebdo: l’ipocrisia, la retorica e l’immancabile hashtag

Post n°12108 pubblicato il 24 Gennaio 2015 da Ladridicinema
 

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Vorrei immediatamente precisare che queste parole sono rivolte esclusivamente agli italiani e non ai francesi, ai quali va tutta la mia solidarietà perché so che realmente e in ogni occasione difendono e hanno difeso la libertà di espressione. Mi si permetta di premettere, inoltre, che ciò che queste righe contengono potrebbe urtare la sensibilità di coloro che, in Italia, da poco più di una settimana, si sono scoperti, immagino non senza traumi, difensori della libertà di pensiero e di stampa. Vorrei rassicurarli sul fatto che per me i fatti di Parigi sono gravissimi e che mi hanno indignato, ma che ho scelto di affidare al silenzio il mio dolore e la mia rabbia, rifiutando hashtag che, a mio avviso, servono solo a sentirsi parte di un tutto confuso e contraddittorio oppure a costruirsi facilmente una coscienza.

Mi sia consentito, inoltre, di dire che per me duemila morti innocenti nel cuore della Nigeria, per mano di terroristi identici a quelli parigini, sono un fatto ancora più grave che avrebbe dovuto portare, più che l’immancabile quanto inutile hashtag, milioni di persone, capi di Stato, mass media, in piazza, se non nella nazione africana, quantomeno nelle strade di tutta Europa. Perché anche coloro che sono stati stuprati e massacrati avevano dei pensieri da esprimere e il diritto ad una vita libera da vivere. E sicuramente tra loro c’era anche chi scriveva, disegnava, discuteva di quel che accade nel mondo. Qualcuno, in nome di un Dio che non c’entra proprio nulla, ha fermato e distrutto tutto. Ma a noi non importa. Noi, che abbiamo bisogno di utilizzare ogni fatto come tassello di uno scontro tra civiltà, nonostante quelle civiltà convivano pacificamente nelle città del tanto amato Occidente, cosa possiamo farcene di un eccidio in una terra “incivile” e “lontana”?

Cosa possiamo farcene di quei morti “inutili” che non sanno aiutare la strategia di consenso o di affari delle forze politiche che si contendono il potere? Nulla. E allora siamo tutti Charlie Hebdo. Lo scriviamo ovunque, appendiamo le foto e le copertine sui muri dell’ufficio, in casa, per strada. Partecipiamo alle marce, ci teniamo per mano, alziamo le matite al cielo, ci stringiamo contro il “nemico” che ogni giorno diciamo di combattere, sempre uniti, sempre insieme, sempre votati a difendere la nostra libertà di pensiero e di stampa. Anche se poi magari facciamo il tifo per chi porta in Parlamento una legge sulla diffamazione, che somiglia più a un diktat contro la stampa indipendente, o per chi manda la polizia a manganellare i lavoratori che manifestano per un proprio diritto. Anche se parteggiamo per ex comici o ex pianisti da crociera che non hanno mai perso occasione per insultare i giornalisti che non la pensano come loro e per formulare editti o liste di proscrizione. Anche se continuiamo a idolatrare un leader che, in una telefonata, abbiamo sentito ridacchiare, insieme a un faccendiere, per il bavaglio messo a un giornalista che aveva rivolto una domanda sacrosanta sulla salute dei cittadini di Taranto.

Ma siamo tutti Charlie Hebdo. Tutti alfieri della libertà di pensiero, pronti a sbandierarlo in televisione, con la faccia buona e seria di chi sembra volerci convincere che per difendere quella libertà darebbe la vita, anche se poi, nel resto del suo tempo, plaude a chi epura dai partiti le minoranze o coloro che dissentono dal punto di vista del capo, da chi con arroganza dice “decido io” o “tiro dritto per la mia strada”. Ma siamo sempre tutti Charlie Hebdo. Anche quando pretendiamo che i musulmani si dissocino apertamente e stiamo tutti lì, con le orecchie tese, ad aspettare che ci sia qualche silenzio, che equivarrebbe in automatico ad essere dalla parte dei terroristi. E allora saremmo tutti pronti a partire con gli attacchi e le accuse che tirano in ballo la civiltà. Sinceramente non ho capito, tra l’altro, perché i musulmani debbano per forza dire che ovviamente condannano il terrorismo. Mi stupisce che la stessa cosa non venga chiesta, ad esempio, agli ebrei ogni volta che Israele compie eccidi a Gaza e in Palestina. Si tratta di terrorismo anche in quel caso, per di più commesso da uno Stato sovrano e non da gruppi di folli fanatici che con la religione c’entrano solo di striscio.

A me che i musulmani (almeno i tanti che conosco io) siano persone pacifiche e contrarie al terrorismo è cosa risaputa e non comprendo perché dovrebbero ripetermelo di fronte a un gruppetto di assassini che decidono di seminare morte nella capitale di uno Stato europeo. Che i miei amici con i combattenti dell’IS non c’entrino proprio nulla, per me è tautologico. Sarebbe come se avessero dovuto chiedere a tutti noi siciliani, anche a quelli che la mafia l’hanno sempre combattuta, di dissociarci ogni volta che veniva compiuta una strage o un omicidio mafioso. Personalmente mi sarei risentito e non avrei nemmeno risposto, visto che la “dissociazione” dalla mafia l’ho messa in atto nel mio quotidiano e nelle mie scelte. Quello che è accaduto a Parigi con la religione non ha nulla a che fare. Ecco perché ai miei amici musulmani preferirei chiedere altro.

Chiederei, come ho sempre fatto durante le nostre chiacchierate, di spiegarmi cosa pensano dell’integralismo che milioni di persone eleggono come guida delle loro vite e dei loro contesti sociali. Vorrei sapere cosa pensano degli adulteri, degli omosessuali, della libertà sessuale delle donne, di paesi come Iran o Arabia Saudita, della laicità dello Stato. Sono quelle le risposte che fanno sì che ci si conosca davvero, ci si capisca e ci si confronti. Molte risposte mi sono state date e le contraddizioni sono tante: c’è chi non vuole dissociarsi da certe brutture dogmatiche e c’è chi invece, da musulmano, in alcuni paesi africani, ha combattuto contro gli integralisti per difendere la libertà e i diritti delle donne. La stessa domanda, sia ben chiaro, vale anche per le altre religioni, compresa quella cattolica, i cui dogmi producono effetti negativi sulla vita, fisica e psicologica, di milioni di persone. Specifico che mi riferisco alla religione e non alla fede, che molto più spesso è invece respiro di libertà.

Ho visto troppa retorica ipocrita in questi giorni di dolore e poca, pochissima riflessione, fatta eccezione per alcuni punti di vista che ho avuto il piacere di leggere. Una retorica appiccicosa che sembrava guardarti male per il tuo silenzio e il tuo rifiuto di partecipare. Ho avuto l’impressione che se io, pur condannando fermamente l’atroce atto terroristico di Parigi (così come quello recente di Peshawar o quello compiuto da Boko Haram a Baga), avessi detto apertamente di non essere Charlie Hebdo, sarei stato tacciato di complicità morale con il terrorismo. Oggi, passato qualche giorno dall’emotività, forse posso spiegare che a me, pur da non credente, molte vignette di Charlie Hebdo non piacevano affatto e che non le trovavo neppure utili. È la satira, lo so, e so che deve essere spietata e libera di esprimersi. Giusto. Ci mancherebbe il contrario ed è inaccettabile che il risentimento si esprima con sangue e violenza. Basta non comprare quel giornale.

Ma per lo stesso principio di libertà, credo di poter dire che l’insulto gratuito a qualcosa che riguarda la sfera intima delle persone (e il credo ne è parte) possa non piacermi e apparirmi volgare, insensato e inutile allo stesso modo in cui lo sono le ingerenze delle religioni nelle società dell’intero globo. Rigetto sia le une che le altre, credo di averne il diritto senza che per ciò mi si accusi di essere un filo-terrorista (un infedele forse sì, ma la cosa non mi preoccupa). All’insulto gratuito preferisco la libertà di dissacrare con intelligenza ciò che sembra intoccabile, nel deridere anche ciò che appare più serio, senza però scadere nel torbido. A volte ho l’impressione che ci siamo abituati a confondere la libertà di espressione con il diritto di insultare. Credo che l’ironia e il sarcasmo, figure più nobili dell’insulto, riescano ad essere ingredienti fortissimi e perfino più efficaci, anche dentro una vignetta satirica.

Certo, dall’altra parte dello steccato si incazzerebbero lo stesso, perché chi sta dalla parte di chi massacra duemila persone o un gruppo di vignettisti non ha certo senso dell’humour o intelligenza, ma la nostra lezione di libertà sarebbe probabilmente più comprensibile. E forse ci accorgeremmo anche degli altri, iniziando a confrontarci e a ragionare al di fuori di un hashtag o di una convenzione emotiva. Altrimenti meglio il silenzio. Che a volte è anche più rispettoso e sensato.

18 gennaio 2015

 
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Game of Thrones 5, ecco il trailer dall'evento IMAX

Post n°12107 pubblicato il 24 Gennaio 2015 da Ladridicinema
 
Tag: trailer

 
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Il nome del figlio

Post n°12106 pubblicato il 24 Gennaio 2015 da Ladridicinema
 
Tag: trailer

 
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Sei mai stata sulla luna?

Post n°12105 pubblicato il 24 Gennaio 2015 da Ladridicinema
 

Poster

Guia ha 30 anni, lavora in una prestigiosa rivista internazionale di moda, guida una spider di lusso, viaggia in jet privato e vive tra Milano e Parigi. Ha tutto, o almeno credeva di avere tutto, fino a quando si ritrova in uno sperduto paese della Puglia dove si imbatterà in Renzo, un affascinante contadino del posto. Capisce che l'unica cosa che le manca è l'amore, quello vero. E quando la felicità è ad un passo da lei, non saprà come raggiungerla.

  • FOTOGRAFIAFabrizio Lucci
  • MONTAGGIOConsuelo Catucci
  • PRODUZIONE: Pepito Produzioni con Rai Cinema e col supporto di Apulia Film Commission
  • DISTRIBUZIONE: 01 Distibution
  • PAESE: Italia
  • DURATA90 Min

 
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Still Alice

Post n°12104 pubblicato il 24 Gennaio 2015 da Ladridicinema
 

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Alice Howland è una rinomata linguista il cui lavoro è rispettato in tutte le università degli Stati Uniti. Un giorno si accorge che la sua memoria non è più quella di una volta e che poco alla volta inizia a dimenticare le parole. Inquieta, si reca da uno specialista per un controllo. Una rivelazione devastante si abbatte su di lei.

 
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Il nome del figlio

Post n°12103 pubblicato il 24 Gennaio 2015 da Ladridicinema
 

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Il film racconta la storia di una coppia in attesa del primo figlio, Alessandro Gassman (Paolo), estroverso e burlone agente immobiliare, e Micaela Ramazzotti (Simona), bellissima di periferia e autrice di un best-sellers piccante. Valeria Golino veste i panni di Betta, sorella di Paolo, insegnante con due bambini, apparentemente quieta nella vita familiare, Luigi Lo Cascio in quelli di Sandro, suo marito e cognato di Paolo, raffinato scrittore e professore universitario precario. Tra le due coppie l'amico d'infanzia Rocco Papaleo (Claudio), eccentrico musicista che cerca di mantenere in equilibrio gli squilibri altrui.

 
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Perfidia

Post n°12102 pubblicato il 24 Gennaio 2015 da Ladridicinema
 

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Angelo (Stefano Deffenu) cammina immerso nel grigio inverno di un'anonima città di provincia. Senza amore né lavoro, spende le sue vuote giornate in uno squallido bar di periferia, sognando ad occhi aperti la più banale normalità. Peppino (Mario Olivieri) è un padre che non si è mai interessato al figlio, un vecchio consapevole di non avere più tanto tempo da vivere. Dopo la morte della moglie Peppino si accorge di Angelo, suo figlio, e si rende conto di non sapere neppure chi sia...

 
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Piccoli così

Post n°12101 pubblicato il 24 Gennaio 2015 da Ladridicinema
 

Poster

 

25 settimane di gestazione. Questa è la soglia di sopravvivenza per i bambini nati prematuri. Se il piccolo viene al mondo in quel momento, la felicità del neo-genitore resta sospesa. Comincia un calvario, fatto di veglie in ospedale vicino all'incubatrice, mentre il desiderio di abbracciare il proprio figlio si scontra con l'obbligo di sfiorarlo appena, quel corpicino delicato che combatte per ogni respiro. Il film è l'esperienza personale del regista e la storia corale di tanti genitori che hanno percorso questo cammino, di chi lotta al loro fianco per le vite dei loro figli. Un inno alla resistenza e alla speranza di cui sono capaci gli esseri umani, fin dal primo giorno di vita.

  • DISTRIBUZIONE: I Wonder Pictures
  • PAESE: Italia
  • DURATA70 Min

 
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