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« «The Newsroom», la serie...Perché ho amato The News... »

Perché ho amato The Newsroom. E molto da internazionale.it

Post n°12116 pubblicato il 24 Gennaio 2015 da Ladridicinema
 

Provare a immaginare quello che vogliono gli spettatori e poi provare a soddisfarlo è generalmente una cattiva ricetta per ottenere qualcosa di buono.–Aaron Sorkin

 

Ci sono molti insegnamenti che si possono ricavare da The Newsroom, la splendida serie Hbo di Aaron Sorkin che si è conclusa il 14 dicembre: il primo, il più ovvio, e forse il meno interessante dei quali, è che se massacri il giornalismo probabilmente non sarà poi così facile trovare tutti questi giornalisti pronti a tessere le tue lodi. Questo è solo uno e non certo l’unico motivo per cui The Newsroom è stata fra le opere di Sorkin più amate dal pubblico, ma al tempo stesso quella che ha diviso maggiormente la critica, che non le ha risparmiato stroncature, rivolte soprattutto contro la prima stagione.

 

Che non sarebbe stato uno show dalle mezze misure si era capito subito dal famoso monologo iniziale che affrontava uno dei più grandi tabù d’oltreoceano: l’America non è necessariamente il miglior paese del mondo.

 

 

 

Per un europeo un’argomentazione di questo tipo genera un’alzata di sopracciglia e un “ok, adesso, mentre io vado a farmi visitare gratis in un ospedale pubblico, tudimmi qualcosa che non so già”; per un americano significa invece la richiesta di sedersi in partenza dalla parte della tavola dove stanno i personaggi problematici, quelli in pericoloso equilibrio fra il weird inteso come concetto limite del consesso sociale e quello, opposto e positivo anche se inconsciamente altrettanto sospetto, del profeta visionario di successo.

 

Fortunatamente Will McAvoy, l’anchorman di The Newsroom interpretato da Jeff Daniels, sfugge ad entrambe le derive e, sulle ali della scrittura a più livelli di Sorkin, si dimostra sul lungo periodo un personaggio complesso, profondo e articolato e non una semplice riedizione di Howard Beale, il giornalista predicatore folle del Quinto potere di Sidney Lumet.

 

Dopo lo sfogo sulla crisi generalizzata della società americana, la serie ruota attorno al tentativo di riaffermare un giornalismo di qualità, un giornalismo delle origini, quello degli spesso evocati Walter Cronkite e Edward Murrow, come cura contro la decadenza.

 

A provare a compiere questa missione, per stessa ammissione dei protagonisti donchiscottesca, è un gruppo composto da un presentatore che fino a quel momento è stato famoso per essere un personaggio accomodante, moderato, zerbinesco e in quanto tale popolare (se vi ricorda qualcuno, tenete presente che la rete è la Acn, nome di fantasia, e non Raitre); MacKenzie McHale, una executive producer (che è anche la sua ex) idealista, affascinante e intelligente e svampita abbastanza da inserirsi di diritto nella grande tradizione dei personaggi femminili che piacciono molto ai maschi che hanno studiato la cui esponente di punta è la Diane Keaton di io e Annie. Sopra questa copia siede Charlie Skinner, l’anziano capo della sezione news, alcolizzato e discretamente visionario a sua volta; e sotto una redazione composta principalmente da giovani con formazione universitaria d’élite, rocciosamente motivati e brillanti, guidati da un’esigua classe intermedia di 30-40 enni la cui competenza nei rispettivi ambiti sfiora l’onniscienza divina, mentre le loro attitudini sociali tendono, con forza uguale e contraria, al disastroso.

 

Mi piace scrivere di persone che sono molto brave in quello che fanno, e molto meno brave in tutto il resto.–A. S.

 

Questo contesto, assieme alle dinamiche giornalistiche che si sviluppano nella produzione del programma-nel-programma News Night (così viene chiamata la striscia delle 20 condotta nella finzione da McAvoy), è stato largamente criticato come irreale, e con una certa dose di ragione.

 

La Columbia journalism review che, ironicamente, nella serie viene citata come organo a favore della svolta purista di News Night, nella realtà ha invece evidenziato alcuni degli aspetti poco realistici del modo di lavorare della redazione della serie, mentre il Guardian (la cui perquisizione della sede da parte servizi inglesi dopo le rivelazioni di Edward Snowden ricorda peraltro quella che subisce News Night a opera dell’Fbi) nota che il problema morale rispetto alla produzione di notizie, appare oggi superato da quello della sostenibilità economica del giornalismo e dal cambiamento radicale del concetto stesso di notizia imposto da internet.

 

Voglio essere molto chiaro. Non stiamo facendo giornalismo e lo show non è sul giornalismo. È sulle persone che fanno giornalismo.–A.S.

 

Tutte obiezioni più che sensate, anche se Sorkin nella terza stagione aggiusterà il tiro tematizzando molti dei problemi aperti dall’avvento di internet nel business dell’informazione attraverso il personaggio di Pruit, un orrido multimiliardario del web, personificazione del barbaro che non è più alle porte ma è già comodamente seduto in salotto. Ma il punto non è nemmeno questo.

 

Se non fosse bastata la prodigiosa memoria e la virtuosistica abilità retorica del monologo iniziale di McAvoy, la serie è piena gli altri dialoghi rapidi, ultra competenti e totalmente privi di non-detti, dubbi, incertezze che dovrebbero rendere immediatamente evidente che quello che Sorkin cerca di ottenere non è certo un realismo assoluto. E questo nel suo caso, non è nemmeno una novità, basti pensare a The west wing e i suoi lunghi walk and talk.

 

 

 

I personaggi di Sorkin parlano da sempre come parleremmo se avessimo un cervello grande il doppio, un collo in grado di sostenerne il peso e una schiera di autori pronti a suggerirci in tempo reale la battuta più intelligente saltata fuori ad un tavolo di dieci professionisti.

 

Ora tutto questo può essere respingente. Ma se invece si accetta il fatto che il principio di realtà abita da un’altra parte e non tutti gli show devono essere il pur indimenticabile The wire, e che, ancora, il realismo radicale è soltanto una delle strategie dello storytelling, diventa allora possibile incominciare a godersi The Newsroom. Non che la serie non abbia proprio alcun punto di contatto con la realtà: per crearlo Sorkin ha frequentato per mesi gli studi di diversi programmi televisivi, e benché sia noto per scrivere tutto da solo, ha chiesto e ottenuto da Hbo una writers room composta da otto ricercatori, ampliata da consulenti dedicati esclusivamente alla politica conservatrice per la seconda stagione.

 

Mi piace scrivere romanticamente e idealisticamente ma avere ancora un piede nel mondo in cui viviamo.–A.S.

 

La realtà però è che la disciplina giornalistica, per quanto tratteggiata con pretese di un certo grado di mimetismo, è in The Newsroom soprattutto una scusa per parlare di qualcosa di più ampio. Per capire cosa, è innanzitutto necessario notare come McAvoy nella tradizione delle serie televisive odierne, si distingua per il suo essere un personaggio positivo in una platea di personaggi negativi e votati al più realistico e spietato nichilismo esistenziale.

 

Al tempo stesso tra la figura idealtipica della nuova serialità televisiva (Walter White su tutti) e McAvoy esiste un legame, seppur per contrasto. All’inizio della serie, il presentatore è infatti esattamente uno di questi personaggi negativi che vanno tanto di moda: ha successo, ha la stima di chi conta, è amico del suo capo ed è ricco, potrebbe essere un arrivista senza scrupoli, il Nucky Thompson del giornalismo televisivo e lottare per rendere stabile e inattaccabile il suo potere.

 

Al contrario però è depresso, odia quello che fa, e con un transfert banale quanto non per questo meno credibile, tratta malissimo le persone con cui lavora. Dopo anni ha ancora il cuore infranto per la sua ex che ha tradito la sua fiducia, consegnandolo a una valle oscura di cinismo e disperazione. È solo, avvilito, senza prospettive, ed è all’apice del suo successo. È l’antitesi del sogno americano, perché è il sogno americano ad avere smarrito se stesso, questo è il sottotesto che Sorkin ci suggerisce.

 

La sua rinascita passerà quindi attraverso la riscoperta di un sentimento morale che lo infilerà in una serie lunghissima di problemi professionali e solo dopo aver portato in superficie ferite dolorose e mai suturate, gli permetterà di riconquistare, amore, appartenenza ad un gruppo ed a un progetto, felicità di vivere e rispetto di se stesso, che in fondo è il premio più importante.

 

The Newsroom al di là della scrittura al fulmicotone, del cast stellare e della produzione eccellente è quindi prima di tutto una favola morale e in quanto tale, e non come manuale del giornalismo del futuro, va giudicata.

 

La “famiglia” di The Newsroom. - Dr

La “famiglia” di The Newsroom. Dr

La rinascita morale di Will McAvoy e dei suoi passa attraverso la ricerca di un giornalismo che non sia né uno scherano del potere né un generatore automatico di marcio di sistema (i due grandi canoni a cui, per esempio, siamo abituati in Italia), bensì un modello di informazione basato su una rigorosità deontologica assoluta, d’altri tempi. Sui vari tipi di giornalismo rappresentati nei film e nelle serie tv americane, compreso quello di The Newsroom, Alessandro Gazoia ha recentemente scritto un ottimo ed esauriente articolo su queste pagine.

 

A questo proposito basti quindi citare, come peculiarità del lavoro della redazione immaginata da Sorkin, una cura ossessiva delle fonti, lunghi e quasi fantascientifici processi di verifica (nella realtà in pochi hanno tutta quell’energia, e praticamente nessuno può investire tutti quei soldi in simili standard qualitativi), e alcune cose che quasi commuovono come quando Sloan Sabbith viene sospesa perché ha rivelato in onda un’informazione avuta off the record da un tecnico della centrale di Fukushima e, mentre lei impacchetta le sue cose nel suo ufficio, davanti al tuo cervello italiano sfilano tutte le registrazioni off the record impunite di programmi come Striscia la notizia, Le Iene o Report.

 

Quello della redazione di The Newsroom è indubbiamente un mondo migliore di quello in cui viviamo, un luogo dove non si pretende che gli altri rispettino le regole che noi ignoriamo e il fine non giustifica mai i mezzi, ma al contrario si sostanzia attraverso un uso etico degli strumenti e delle pratiche d’indagine. Il processo di produzione è la notizia. Il giornalismo è una sorta di complesso ethos fatto di competenze elevate e di regole che si osservano per primi nella misura in cui si vorrebbe fossero applicate alle società nella sua interezza.

 

Il giornalismo di Sorkin non è rivoluzionario, non è radicale, è attaccato e rispettoso delle istituzioni ma mai in quanto mera manifestazione di potere bensì sempre come espressione di principi condivisi. McAvoy è un repubblicano sui generis (non fa che attaccare il suo partito) ma è soprattutto dal punto di vista temporale che si può definire un conservatore, nella misura in cui prescrive un ritorno ad un età dell’oro, in cui erano forti quei valori originari smarriti nella ricerca del profitto economico e dell’apparenza. Che l’età dell’oro sia o meno esistita non è un tema che si possa trattare qui; altri eroi immaginari delle serie tv, come il già citato Nucky Thompson o Thomas Shelby, non sarebbero per niente d’accordo; quello che conta qui è che il ritorno al passato ha un senso in quanto indica il recupero di determinati valori, la questione storiografica passa quindi in secondo piano.

 

Non è quindi questa una visione che esclude i giovani, che, anzi, nella misura in cui si affezionano agli standard di un giornalismo rigoroso e non seguono le sirene delcitizen journalism di internet e di siti alla Gawker (per altro, sempre ironicamente, uno dei pochi veramente entusiasti della serie) possono dare il loro meglio e fare le carriere più rapide. L’esempio di questa dinamica è Neal Sampat, il nerd che scrive il blog di McAvoy (il punto più basso della redazione visto che i blog per McAvoy sono l’esemplificazione del male) e che finirà per diventare un produttore di rilievo di contenuti giornalistici. La redazione di The Newsroom è ideale, romantica, impegnata nella missione enorme e scivolosissima di restituire senso a una realtà che l’ha smarrito, e nel farlo si fa un culo così. L’unità alla base della rinascita morale è appunto questa famiglia di produttori di notizie, e Sorkin prende alcuni oculati provvedimenti narrativi per rendere il gruppo compatibile con gli alti scopi che si prefigge.

 

Al contrario di qualsiasi redazione (ma anche di qualsiasi generico posto lavoro) di cui io abbia notizia nel mondo reale, la gerarchia interna a quella di News Night èinteramente senza eccezione alcuna basata sulla più perfetta ed efficiente meritocrazia, intesa non solo come calcolo dei risultati produttivi ma come somma di tutti i fattori di felicità di una persona. È praticamente una Città Del Sole finita accidentalmente dentro la sede di un canale via cavo.

 

 

 
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