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Messaggi del 26/02/2016

 

Lo chiamavano Jeeg Robot

Post n°13042 pubblicato il 26 Febbraio 2016 da Ladridicinema
 
Tag: trailer

 
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La nostra terra

Post n°13041 pubblicato il 26 Febbraio 2016 da Ladridicinema
 

Locandina La nostra terra

Nel sud pugliese, il proprietario di un podere e di diversi ettari di terra, Nicola Sansone, viene arrestato e le sue proprietà prima confiscate e poi assegnate a una cooperativa locale incapace di gestirle per negligenza e impreparazione. Dal Nord ad aiutarli viene mandato Filippo, stratega dell'associazionismo da antimafia, uomo da scrivania, esperto di leggi e regolamenti, ma inesperto quando si tratta di sporcarsi le mani con la realtà. A Sud Filippo trova il Sud con tutte le sue contraddizioni, affascinazioni, collusioni, non detti, speranze, creatività e via dicendo, un coacervo di luoghi comuni resi plastici dalla missione che si è dato: far funzionale la cooperativa. Tra i personaggi tutti "tipici" che incontra sulle terre confiscate, c'è Cosimo, lo storico fattore del proprietario Sansone, che nelle more di un giudizio definitivo continua a coltivare l'appezzamento che ben conosce perché un tempo era della sua famiglia, prima che il boss locale, ora agli arresti, se lo prendesse. Filippo e Cosimo ingaggeranno un confronto tra burocrazia e senso della vita che porterà il primo a cambiare e il secondo a redimersi.
Giulio Manfredonia torna con La nostra terra sul solco della commedia etica già inaugurata con il fortunato Si può fare che raccontava una vicenda nello spirito non dissimile da questa: un sindacalista viene mandato a gestire una cooperativa composta da ex pazienti di un manicomio. Quel che si racconta alla fine è questo: fare l'impresa gestendo un bene comune secondo i principi del politicamente corretto. Aggiornando il tema, dunque, Manfredonia individua il nuovo "bene comune", le cooperative antimafia (realtà già attive da molto tempo ma mai raccontate al cinema, tanto meno nei modi della commedia), e su di esso costruisce una sceneggiatura molto calibrata, fino all'eccesso. 
Se non fosse per la straordinaria bravura di alcuni suoi interpreti (Sergio Rubini tra tutti, che riesce a dare corpo, odore, ironia, pensiero, azione a un personaggio altrimenti bidimensionale), La nostra terra avrebbe assunto il tono di una lezioncina in punta di penna, una commedia con tutti gli ingredienti a loro posto, scritta con il bilancino, schematica e meccanica, e per questo prevedibile, con personaggi inseriti come ingredienti tipici di una ricetta da masterchef televisivo. Si sente dunque il lavorio di questa costruzione drammaturgica, rotto dalla verve e dall'invenzione di attori veri a autoironici (Sergio Rubini, Iaia Forte) che anche solo con un gesto riescono a smarcarsi dalla rigidità di una sceneggiatura che li ha pensati troppo, definendoli a volte come macchiette.
La nostra terra è comunque una commedia intelligente e divertente, una favola etica sui limiti del buonismo da terzo settore e sull'italietta dei sempre bravi che ce la possono fare. Un remake meridionalista e "bio" di Si può fare, senza le nevrosi di Bisio ma con le ossessioni di Accorsi, senza i mattarelli del nord ma con i contadinelli del sud, di nuovo conio o vecchia tradizione, inventati o veri, figli di una Apulia sempre più virtuosamente commission.

 
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Tutto molto bello

Post n°13040 pubblicato il 26 Febbraio 2016 da Ladridicinema
 


Giuseppe e Antonio si incontrano nel reparto maternità dell'ospedale, ognuno in attesa della nascita del proprio primogenito. Non potrebbero essere più diversi: Giuseppe lavora per l'Agenzia delle entrate, è pignolo e convinto che tutti vogliano imbrogliarlo, e ha un forte accento toscano; Antonio è un precario artistoide di buon carattere che vive alla giornata, sembra non preoccuparsi di nulla e ha un forte accento campano. In attesa del lieto evento, Antonio invita Giuseppe in pizzeria, e lì comincia un'odissea comica che trascina i due per bische clandestine, feste mascherate e assortite peripezie.
Tutto molto bello è una contraddizione in termini, perché di bello c'è veramente poco nel secondo film da regista di Paolo Ruffini, conduttore e comico televisivo che in passato ha anche creato almeno una caratterizzazione cinematografica interessante: il Cristiano Cenerini de La prima cosa bella. Peccato che in Tutto molto bello manchi un'idea di cinema, una qualsiasi: gli eventi si susseguono senza alcun senso della storia, dei caratteri, della realtà e persino della commedia, giacchè il livello delle battute è "Errare umanum est, perseverare ovest" e "Alì e i quaranta ricchioni" (detto di un improbabile emiro accolto dal saluto "salam e mortadella").
Ruffini e Frank Matano, che interpretano Giuseppe e Antonio, stanno a Benigni e Troisi come Woody Allen a Ingmar Bergman (Woody però fa ridere) e i personaggi di contorno sono semplicemente imbarazzanti: dal suocero di Giuseppe (Paolo Calabresi) con la forfora a nevicata al "cantante idiota" (Gianluca "Scintilla" Fubelli) allo psicopatico tatuato (Angelo Pintus, il più sprecato). Tutti provenienti dal cabaret televisivo o anche da Youtube (Matano), tutti apparentemente intrappolati in un'animazione da villaggio turistico, di quelle i cui costumi si rimediano pescandoli a caso da una cesta e ognuno improvvisa battute puerili (peccato che, dietro a Tutto molto bello, ci siano ben quattro sceneggiatori fra cui, incredibilmente, Guido Chiesa, già cosceneggiatore di Fuga di cervelli). Nessuno ha reazioni credibili, nemmeno in chiave comica, con l'unica eccezione di Pupo (sì, il cantante), sottoposto ad una pioggia di sgradevoli battute sulla sua altezza, la sua presunta bigamia e la sua passione per il gioco d'azzardo. Magari il pubblico di Ruffini premierà quest'opera seconda come ha fatto con Fuga di cervelli, ma il cinema è un'altra cosa, per fortuna.r

 
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La scuola più bella del mondo

Post n°13039 pubblicato il 26 Febbraio 2016 da Ladridicinema
 

Locandina La scuola più bella del mondo

Filippo Brogi, preside di una scuola media in Val d'Orcia, vuole a tutti costi vincere la gara della locale Festa dei giovani, e con l'approvazione dell'assessore comunale decide di invitare in Toscana una scolaresca africana poverissima per uno scambio culturale edificante. Peccato che il suo bidello Augusto Soreda confonda la città ghanese di Acrra con quella campana di Acerra, e inviti in Val d'Orcia una classe media sgarrupata i cui insegnanti d'accompagnamento sono Gerardo Gregale, ex fumettista insegnante controvoglia, e Wanda Pacini, ex fidanzata di Filippo Brogi emigrata al sud per dimenticare la loro traumatica rottura.
Luca Miniero tenta di bissare il successo di Benvenuti al Sud e quello (meno ampio) di Benvenuti al Nord riproponendo in forma di commedia l'incontro-scontro fra settentrione e meridione e facendo leva sui pregiudizi di entrambi. Se vogliamo, il suo è anche un ritorno alle origini, dato che Miniero ha esordito insieme a Paolo Genovese con lo spassoso Incantesimo napoletano.
Ne La scuola più bella del mondo si sente il contributo alla sceneggiatura di Massimo Gaudioso, già responsabile dell'adattamento italiano di Benvenuti al Sud dalla commedia francese Giù al Nord (mentre il sequel Benvenuti al Nord era stato affidato alla penna meno sottile di Fabio Bonifacci), perché molte battute "etniche" sono precise e divertenti. Peccato che non sia stato dato maggior spazio alla vena surreale di Gaudioso e dello stesso Miniero, che aveva in Rocco Papaleo il suo veicolo naturale, e si sia voluto edulcorare la loro comicità lunare con battute e gag talvolta puerili, nonché una morale conclusiva che contraddice lo spirito dissacrante fino a quel momento perseguito, anche con un certo successo.
Il controcanto di Papaleo, che ovviamente è Gerardo, è Christian De Sica nei panni di Filippo. Papaleo e De Sica non riescono a formare una coppia comica perché hanno tempi e stili troppo diversi, e infatti le loro gag insieme sono rare e poco riuscite. All'universo di Miniero e Gaudioso appartiene invece di diritto Nicola Rignanese nei panni di Soreda, bidello in quota "lavoratori con handicap" in quanto affetto da sindrome di Tourette, che riempie perfettamente i suoi spazi con una caratterizzazione gustosa e politically incorrect.
Così come gustosamente politically incorrect riesce ad essere, nei suoi momenti migliori, anche La scuola più bella del mondo, che ride degli stereotipi pur in parte avallandoli. E il pubblico ride dell'escalation paradossale degli eventi, delle battute colte ("Strauss è la disco dell'800") come di quelle trash (l'assessore di sinistra saluta gli africani con "Abaluba"). Ci sono anche piccole chicche comiche, come la conversazione via Skype del preside della scuola napoletana, il delizioso Lello Arena, o gli sguardi in camera di Papaleo. Peccato per i numerosi cedimenti al marketing, a cominciare dalla onnipresenza di un celebre amaro (ma perché non farne uno spunto comico surreale?). Un po' meno invadenza produttiva, un po' più coraggio irriverente, e La scuola più bella del mondo sarebbe stata "nu babà".

 
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Welcome to new york

Post n°13038 pubblicato il 26 Febbraio 2016 da Ladridicinema
 

Locandina Welcome To New York

Devereaux è a capo del Fondo Monetario Internazionale e sta per annunciare la propria candidature alle elezioni presidenziali francesi quando un'accusa di stupro nei confronti di una cameriera d'albergo lo porta all'arresto mutando profondamente il corso della sua vita.
Abel Ferrara, ispirandosi al caso Strauss-Khan (ma prendendone al contempo le distanze per quanto riguarda la ricostruzione degli aspetti privati della vicenda nel testo che introduce al film) prosegue la propria indagine sugli abissi dell'animo umano. Lo fa aprendo il suo lavoro in modo inusuale con la dichiarazione dell'artificio grazie a una pseudo intervista a Gerard Depardieu che spiega perché ha accettato il ruolo di un personaggio che detesta. Da lì prende il via un film notturno e cupo come le profondità insondabili dell'animo del protagonista. Il tema della colpa e dell'eventuale possibilità di una redenzione ha sempre attratto il regista newyorkese che qui si spinge fino a citare un maestro, autore di un cinema distante anni luce dal suo, François Truffaut, quasi riconoscesse in lui una possibilità di illuminazione anche per chi vive nel buio della disillusione come il suo Devereaux. 
Welcome to New York più che come un'analisi del Potere va letto come la disamina di una patologia. Ma non si tratta solo di una sesso dipendenza (come potrebbe far credere la prima parte del film e come lo stesso Devereaux si autodiagnostica). In un film che non ha nulla del machismo di cui è stato accusato (non tutte le donne gli si concedono e i suoi grugniti, associati alla corporeità in disfacimento di Depardieu, contribuiscono a testimoniare esattamente il contrario) Ferrara va oltre. La colpa di cui giorno dopo giorno si è macchiato Devereaux è stata quella di considerare le donne come cose e la vita come un deserto arido in cui ogni ideale appassisce e muore. La coazione a ripetere che lo spinge a cercare il sesso non distinguendo più tra quando è consenziente (anche se a pagamento) e quando invece non lo è, si rivela direttamente proporzionale all'imputridimento dei suoi ideali. 
Quella redenzione che il regista continua a cercare nei suoi film non è per lui. Non è per un uomo che è ormai convinto che nessuno vuole essere veramente salvato. Il Devereaux di Ferrara non può salvarsi (anche se forse nel profondo lo vorrebbe) neppure da se stesso.

 
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La preda perfetta

Post n°13037 pubblicato il 26 Febbraio 2016 da Ladridicinema
 


Matt Scudder, ex poliziotto diventato investigatore privato (senza licenza), si aggira per la New York di fine Ventesimo secolo fra incontri degli Alcolisti Anonimi e scontri con i trafficanti di droga. Uno di questi, Kenny Kristo, sceglie di ingaggiare Matt perché lo aiuti a trovare i sadici psicopatici che hanno rapito, torturato e ucciso sua moglie. Inizia così una caccia all'uomo in cui il confine tra Bene e Male diventa sempre più labile, il fine giustifica i mezzi e la legalità è l'ultima delle preoccupazioni.
Nato dalla penna di Lawrence Block e protagonista di una serie di best seller, fra cui quello su cui è basato questo film (in italiano edito con il titolo Un'altra notte a Brooklyn), il detective Matt Scudder, interpretato al cinema da Jeff Bridges in 8 milioni di modi per morire, aspira ad essere un successore di Sam Spade e Philip Marlowe, e in parte ci riesce, almeno ne La preda perfetta, grazie alla fisicità dolente e alla recitazione introspettiva di Liam Neeson, perfetto nell'impersonare un uomo dal passato tormentato. 
Molto efficaci anche alcuni personaggi di contorno, in particolare il portiere di casa di Matt (Eric Nelsen) e il guardiano del cimitero (Olafur Darri Olafsson), che certificano un certo coraggio narrativo da parte di Scott Frank, regista ma soprattutto sceneggiatore di La preda perfetta. La capacità di costruire una narrazione filmica è la marcia in più di Frank, di cui ha in passato dato prova nella stesura dei copioni di Get Shorty e Out of Sight, ma anche di Minority Report e Wolverine - L'immortale. Il suo tratto caratteristico è l'ironia con cui colora anche il più drammatico degli scenari.
E drammatico, anzi a tratti melodrammatico, La preda perfetta lo è senz'altro, spingendosi spesso anche troppo sopra le righe, e abbondando in dettagli raccapriccianti e profusioni ematiche. Per fortuna i delitti più efferati restano fuori inquadratura, e Scudder-Neeson mantiene salda la centralità della scena.
Nel complesso, La preda perfetta è un thriller che si lascia seguire ma che commette svariati passi falsi in termini di credibilità della storia e di coesione della tensione narrativa. Ciò nonostante Frank mostra una notevole cura dell'immagine (grazie anche alla fotografia nitida e crudele di Mihai Malaimare Jr) e un gusto per il contrappunto ironico anche musicale (vedi la scena della ragazzina che attraversa la strada) che fanno ben sperare per il suo futuro di regista.

 
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Big Hero 6

Post n°13036 pubblicato il 26 Febbraio 2016 da Ladridicinema
 

Locandina Big Hero 6

Ogni notte, nei vicoli più reconditi della metropoli futuristica di San Fransokyo si improvvisano i ring delle competizioni clandestine più acerrime e avanguardistiche, i bot fight, o le lotte tra robot. Il quattordicenne Hiro Hamada, prodigio della robotica, è un insospettabile campione di tali tenzoni che lo portano inevitabilmente a rimanere invischiato in guai più grossi di lui, allorché vince grosse scommesse contro i veterani dell'azzardo. A salvarlo c'è però sempre il fratello maggiore Tadashi, che cerca di allontanarlo dalla pericolosa passione per i bot fight. A tal fine, Tadashi cerca di convincere Hiro ad entrare con lui nell'élite del San Fransokyo Institute of Technology. Dopo una visita presso il 'covo dei geeks', dove Tadashi presenta a Hiro i suoi sodali Gogo, Honey Lemon, Wasabi e Fred e il suo progetto Baymax, un robot gonfiabile inteso a fornire ausilio sanitario sia fisico sia psicologico, il genio teenager è più che convinto. Ma la sera della fiera di presentazione dei progetti di ammissione all'istituto, dove Hiro primeggia grazie ai suoi mirabolanti micro-bot, in grado di dar forma a qualsiasi proiezione della mente di chi li comanda, l'Istituto è d'improvviso avvolto dalle fiamme di un incendio in cui Tadashi perde la vita...
Far seguito al successo vastissimo - e inatteso in tali proporzioni - di Frozen non è un'impresa facile per la Disney. Tanto più che la sfida viene presa di petto dallo studio di Burbank in Big Hero 6 (la cui produzione è invero iniziata tre anni fa, ovviamente ben lungi dal calcolo di dover seguire a ruota al più grande incasso per un film d'animazione di tutti i tempi). Perché sì, il film firmato da Don Hall e Chris Williams viola nelle sue fasi preliminari il classico tabù Disney della perdita dolorosa di un familiare; un trauma 'coraggiosamente' già messo in scena, però, nei classici capolavori Bambi (1942) e Il re leone (1994). Un elemento drammatico che s'innesta dritto alle radici, modificandone le premesse, di quello che è anche il primo adattamento disneyano di un fumetto Marvel. La spinta supereroica e superoministica che domina il cinema stelle e strisce degli ultimi anni viene qui temperata da una dose di dolente emotività che pare mutuata dalla dichiarata influenza che gli anime giapponesi e in particolare il cinema di Hayao Miyazaki esercitano su questa produzione del padre di Toy Story John Lasseter. Del resto, il processo osmotico tra l'immaginario delle due sponde del Pacifico trova un suo fertile terreno nella splendida creazione scenografica di una crasi tra San Francisco e Tokyo. Nella città immaginaria che fa da sfondo alle vicende di Hiro, Baymax e degli altri Big Hero 6, si riconoscono rielaborazioni degli emblemi del paesaggio urbano delle due metropoli, il Golden Gate e la Tokyo Tower, ma si rintraccia pure una fine sintesi tra l'affollata ipermodernità della capitale nipponica e la rilassata eleganza della baia californiana, in una sorta di rilettura disneyana dell'ibridazione fantascientifica di Blade Runner. Ma la ricercata fusione tra Occidente e Oriente (si noti nei primi piani il disegno del taglio degli occhi di Hiro e Tadashi) trova la sua più felice e memorabile creatura proprio in quel Baymax che ci auguriamo si ritagli una nicchia di culto nella schiera degli eroi Disney dei Duemila. 
Sorta di omino Michelin devoto al benessere psico-fisico di Hiro, Baymax percorre una parabola che va da zelante infermiere a indomito superrobot, declinando le forme di un goffo e adorabile stereotipo dell'amico dei sogni, il compagno d'avventure che tutti vorrebbero al proprio fianco. Concepito per essere abbracciato, Baymax è l'equivalente robotico di Doraemon e Totoro; manca perciò dell'immediata simpatia da peluche di questi ultimi (anche per via del volto senza espressione), ma con la sua caparbietà e spirito di sacrificio conquista e commuove. E proprio questo equilibrio ineffabile tra i molti sorrisi e qualche lacrima sigla la riuscita della difficile scommessa di Big Hero 6. Non disseminerà forse per il mondo il ritornello di una nuova Let It Go, ma il cinquantaquattresimo lungometraggio Disney ha tutte le carte in regola per entrare nel novero dei classici contemporanei e far sognare a più d'uno spettatore (bambino o adulto) d'incontrare un giorno il proprio Baymax...

 
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