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Emperor

Post n°14585 pubblicato il 24 Agosto 2018 da Ladridicinema
 

1945. Dopo l'armistizio della Guerra del Pacifico, gli Stati Uniti entrano in Giappone per stabilire le colpe delle personalità militari direttamente coinvolte nelle azioni belliche. Su ordine di Douglas MacArthur, comandante supremo delle forze di occupazione, il generale Bonner Fellers si trova a decidere, in soli dieci giorni, sulla sorte dell'imperatore Hirohito. Ma comprendere il suo reale coinvolgimento nella scelta della resa del Paese si rivelerà un duro compito per Fellers, parimenti perso dietro alla ricerca di Aya, una donna giapponese di cui è innamorato e della quale non ha più avuto notizie.
Un'indagine militare e una strettamente privata, due piste da seguire, dipanate entrambe in un paesaggio urbano devastato, Emperor sceglie di raccontare uno dei momenti cruciali della storia contemporanea, sommandoci una vicenda d'amore che sguazza nella convenzione più manifesta. Paralleli, i due percorsi risultano anche ben miscelati nella sceneggiatura di Vera Blasi e David Klass (tratta da "His Majesty's Salvation" di Shiro Okamoto), sebbene, ad uno sguardo più attento, diano l'impressione di remare l'uno contro l'altro, togliendosi spazio e doveroso approfondimento a vicenda: a rimetterci maggiormente è quella tormentata relazione amorosa che non può non rimanere a livello di intreccio da fotoromanzo, anche perché una certa organicità riesce comunque a permeare l'illustrazione dei funzionamenti interni all'esercito. Che sia l'apporto di un manierato, ma sempre solido Tommy Lee Jones nei panni di Douglas MacArthur (portato più volte sullo schermo, anche da Gregory Peck in Mac Arthur il generale ribelle) o di qualche acutezza nello sviluppo narrativo, la ricerca delle prove per scagionare o mandare all'impiccagione Hirohito riesce a tenere desto l'interesse del pubblico. È comunque un peccato che Peter Webber, regista inappuntabile, ma senza guizzi, non abbia voluto approfondire il punto di vista giapponese della vicenda, compresa la possibilità del grande malcontento e dell'onda di suicidi che l'impiccagione immediata avrebbe potuto causare nel Paese.
Si staglia da una diffusa e mediocre correttezza la sequenza in cui Douglas MacArthur incontra di persona Hirohito per capire di che tipo di uomo si tratti, un brano in cui sono messe a frutto tutte le risorse disponibili, dal montaggio alla fotografia, dalla recitazione ai dialoghi, per un climax che chiude in bellezza una pellicola altrimenti non memorabile. Per avere un'altra versione del cruciale colloquio tra l'imperatore e il generale basta rivolgersi a Il sole di Alexandr Sokurov

 
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DICKENS - L'UOMO CHE INVENTÒ IL NATALE

Post n°14584 pubblicato il 24 Agosto 2018 da Ladridicinema
 

Sei mesi dopo una trionfale tournée americana, Charles Dickens rientra a Londra dove lo attendono debiti e crisi creativa. Padre di una famiglia numerosa e figlio di un padre dissipatore, Charles è a caccia di denaro e di ispirazione. Illuminato all'improvviso dalle favole di una giovane domestica irlandese, decide di scrivere un racconto di Natale per l'ormai prossimo Natale. Ma i suoi editori, delusi dalle vendite dei libri precedenti, rifiutano di investire su quel bizzarro abbozzo di spiriti e vecchi avari. Ostinato e appassionato, Charles trova un illustratore e un'alternativa. In compagnia dei suoi personaggi, lavorerà duramente per sei settimane venendo a capo della sua storia e chiudendo per sempre i conti col passato. Le feste natalizie si avvicinano e le produzioni sfoderano l'artiglieria pesante.

Un bastimento di racconti incantati che provoca spesso un'indigestione di buoni sentimenti. Come fare allora a riconoscere un buon film di Natale?

Gli ingredienti obbligatori per l'attribuzione sono naturalmente la vigilia, la neve, un abete, una famiglia riunita intorno e un Babbo Natale che può essere declinato in angelo, elfo, diavoletto o fantasma. Ma l'elemento indispensabile, difficile da afferrare, è soprattutto uno stato dello spirito, un mélange di benevolenza, sentimento e riconciliazione a cui non difetta mai un tocco di redenzione. All'origine del più classico dei cocktail c'è il racconto di Charles Dickens ("Canto di Natale"), pubblicato in Inghilterra nel dicembre del 1843. Dickens non era certo il primo scrittore a celebrare lo spirito del Natale ma fu quello che incontrò il successo più grande, sancendo lo slittamento della festa religiosa verso la convivialità familiare, la cena della veglia e lo scambio dei regali.

"Canto di Natale", che ha avuto numerosi adattamenti al cinema, l'ultimo è di Robert Zemeckis, racconta la storia di un vecchio uomo avaro e solitario che riceve la visita dei tre spiriti del Natale. Lo spirito del passato, del presente e del futuro. A turno, gli dimostrano quello che ha perduto e quello che perderà perseverando nella ricerca della ricchezza e dell'arricchimento personale. Numerosi i film che rivendicano l'eredità dickensiana, da Capra (La vita è meravigliosa) a Lubitsch (Il cielo può attendere), passando per Mayfield (Miracolo nella 34ª strada), tutto il mondo ha la sua chance e un angelo custode per riuscire e rimandare l'infelicità.

 
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Coco

Post n°14583 pubblicato il 24 Agosto 2018 da Ladridicinema
 

Miguel è un ragazzino con un grande sogno, quello di diventare un musicista. Peccato che nella sua famiglia la musica sia bandita da generazioni, da quando la trisavola Imelda fu abbandonata dal marito chitarrista e lasciata sola a crescere la piccola Coco, adesso anziana e inferma bisnonna di Miguel. Il giorno dei morti, però, stanco di sottostare a quel divieto, il dodicenne ruba una chitarra da una tomba e si ritrova a passare magicamente il ponte tra il mondo dei vivi e quello delle anime. 
Diverso eppure di famiglia, è questo l'effetto che fa Coco alla prima visione. La Pixar si inoltra in un territorio finora inesplorato, immergendovisi in profondità, eppure ovunque, nel film, risuona un'aria di famiglia, con echi di Up e Inside Out, o forse un unico gene responsabile, che è dentro tutti i figli della lampadina salterina, ed è quello della rimembranza.

Qui il concetto è declinato nell'accezione di rievocazione e preso in maniera letterale.

Mentre, durante la festa dei morti, il paese di Santa Cecilia (e il Messico tutto) allestisce altari nelle case e illumina i cimiteri per accogliere la visita dei famigliari defunti, Miguel si trova a compiere un percorso che trasforma quella tradizione lontana in qualcosa di reale, di personale e di urgente, una questione di vita e di morte (appunto), e impone l'importanza del ricordo tra le priorità della vita, anche di un giovanissimo come lui. 

L'immersione dei creatori di Coco nell'universo messicano del Dìa de Los Muertos è un'immersione totale, che ingloba la storia ma anche l'aspetto visivo del film e ne rispetta e riproduce la varietà intrinseca. Come la folk art messicana legata a questa ricorrenza varia da comunità a comunità e presenta una gamma ampissima di figure e materiali differenti, così Cocomescola le tonalità al neon degli alebrijes (vero tocco magico del film) con la ritrattistica fotografica, il cinema indigeno, Frida Khalo e il suo debordante mito (altro tocco spassoso), l'estetica musicale e quella carnevalesca.

 
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Smetto quanto voglio ad honorem

Post n°14582 pubblicato il 24 Agosto 2018 da Ladridicinema
 

È passato un anno da quando la banda di Pietro Zinni è stata colta in flagranza di reato nel laboratorio di produzione Sopox e ognuno dei suoi componenti rinchiuso in un carcere diverso. Da Regina Coeli Pietro continua ad avvertire le autorità che un pazzo ha sintetizzato gas nervino ed è pronto a compiere una strage, ma nessuno lo prende sul serio. Dunque si fa trasferire a Rebibbia per incontrare il Murena, che ha informazioni utili a intercettare lo stragista. Dopodiché Pietro intende rimettere insieme la banda di ricercatori universitari: le menti più brillanti in circolazione in perenne stato di disoccupazione (o detenzione).

Con Smetto quando voglio - Ad Honorem Sydney Sibilia chiude magistralmente una trilogia cinematografica che è un unicum nel panorama italiano.

Un prodotto commerciale strutturato fin dalla sua ideazione come una minisaga ma dettato da un'urgenza narrativa molto personale; un'operazione di cinema industriale che non sacrifica la visione creativa del suo autore; un "reato di difficile configurazione" che aveva altissime possibilità di confinare il regista ai domiciliari di un cinema, come quello italiano, poco portato a rischiare sul nuovo e a confidare nell'intelligenza del pubblico. Sibilia ha inanellato una serie di piccoli miracoli di coerenza narrativa (la sceneggiatura dei tre episodi è sua insieme a Francesca Manieri e Luigi Di Capua), creando personaggi cui ci siamo affezionati e nei quali in qualche misura ci riconosciamo, seminando nel primo episodio ciò che verrà raccolto (e compreso fino in fondo) solo nell'ultimo. 

Arriviamo dunque allo specifico del terzo capitolo della minisaga. Ad Honorem ritrova l'ispirazione dell'episodio iniziale, e la temperatura emotiva: quella rabbia impotente di chi, pur avendo raggiunto l'eccellenza, si ritrova superato dai raccomandati in questo Paese "di difficile qualificazione" in cui "tutti sono pronti a dare la colpa a chi ha già pagato". Tanto i supereroi della banda quanto i loro arcinemici sono vittime di un sistema ingiusto in cui la meritocrazia è una parola buona solo per riempire la bocca dei politici (gli stessi che abbiamo visto aggirarsi alle feste in cui si consumano le droghe inventate dalla banda). Ma Zinni e compagni insistono a combattere contro i mulini a vento, e per questo si guadagnano il nostro rispetto e la nostra simpatia.

 
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Monitor da ecodelcinema.com

Post n°14581 pubblicato il 24 Agosto 2018 da Ladridicinema
 

  • Regia: Alessio Lauria
  • Cast: Michele Alhaique, Valeria Bilello, Riccardo De Filippis, Claudio Gioè
  • Genere: Drammatico
  • Durata; 78 minuti
  • Produzione: Italia, 2015
“Monitor”: un’opera prima eccellente dove la rappresentazione di una realtà parallela è lo spunto per sondare l’animo umano, i suoi desideri, le sue debolezze

monitor

Il primo lungometraggio di Alessio Lauria proietta lo spettatore in un futuro più che realistico dove, accanto alle città tradizionali, sorgono una sorta di cittadelle autonome gestite da multinazionali che offrono ai propri dipendenti qualcosa in più del solito lavoro.

L’azienda infatti, oltre all’impiego, offre ai propri dipendenti un alloggio e benefit di vario tipo, avvolgendo completamente le loro vite.

In questa sorta di paradiso artificiale, dove non esistono problemi di mutui, di bollette da pagare e l’azienda si occupa di risolvere ogni problema, esistono delle sale d’ascolto, dove i dipendenti possono parlare senza essere visti, senza vedere a loro volta il proprio interlocutore. Questa seduta di dialogo/sfogo anonimo è organizzato allo scopo di evitare, o cercare di appianare, quelle turbolenze della vita privata che potrebbero influire negativamente sul lavoro, e quindi danneggiare l’azienda.

Paolo è il miglior ‘Monitor’, ascolta, dispensa consigli e compila la relazione per i propri superiori, senza mai lasciarsi coinvolgere in prima persona dagli sfoghi dei dipendenti, in questa sorta di confessionale simil ‘Grande Fratello’, dove l’anonimato reciproco evita ogni tipo di implicazione concreta.

“Monitor” racconta una speranza, quella che l’uomo abbia le forze per ribellarsi all’appiattimento sociale e morale che sta travolgendo il nostro tempo

In un’epoca come quella che viviamo, in cui avere un lavoro sicuro e una casa per molti è un’utopia, questa realtà preordinata sembra più che allettante, le vite scorrono tranquille, e qualora così non fosse c’è il Monitor. Ma Lauria pian piano mostra come anche in questa sorta di paradiso artificiale le certezze possono vacillare e il prezzo da pagare per quest’assenza di problemi può essere troppo alto.

Questa è davvero vita? Una vita senza problemi ma anche senza emozioni, due facce di una stessa medaglia dove alle certezze materiali fanno da contraltare un appiattimento intellettivo ed emotivo, che può anche andar bene per tanti, ma non per tutti.

Perché la libertà, quella vera, non ha prezzo, perché chi si accontenta gode è vero a metà, e per l’altra metà è invece vero che i sogni sono il primo propulsore della nostra vita, perché ci portano a varcare i confini prestabiliti, a superare i limiti che gli altri ci impongono.

“Monitor”: una storia di solitudine e d’amore dalla regia elegante, ben recitata, creata per il web

Michele Alhaique buca lo schermo, il suo Paolo arriva fin dentro l’anima, emozionando e stimolando alla riflessione lo spettatore.

Il regista porta nella sua opera un soggetto scritto a quattro mani con Manuela Pinetti, già vincitore del premio Solinas “Experimenta” del 2011. Il racconto è limpido, pulito, diretto, Lauria muove la macchina da presa con eleganza, realizzando un film garbato, dove attraverso una storia futuristica si racconta la realtà odierna, la comune voglia di certezze, per le quali in molti sacrificherebbero la libertà, quella vera.

“Monitor”, presentato all’interno della Festa del cinema di Roma, nella sezione autonoma e parallela Alice nella Città, non seguirà le tradizionali vie distributive, sarà possibile vederlo sulla piattaforma web Rai Cinema Channel.

Maria Grazia Bosu

 
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SHERLOCK - L'ABOMINEVOLE SPOSA

Post n°14580 pubblicato il 24 Agosto 2018 da Ladridicinema
 

Londra, 1881. In una dimensione apparentemente parallela a quella dello Sherlock del 2014, John Watson e Sherlock Holmes si conoscono e iniziano la loro collaborazione sul caso dell'Abominevole Sposa. Per Scotland Yard è un mistero senza soluzione, contornato di paure soprannaturali; per Sherlock un delitto assai concreto e reale, frutto di un'astuta messinscena. Ma cosa c'entra tutto ciò con l'annunciato ritorno dalla morte dell'arcinemico Moriarty nel 2014?
Quando una serie è in difficoltà, ed è certamente il caso di Sherlock, giunta con qualche intoppo alla fine della sua terza stagione, una soluzione possibile è quella di negare il suo stesso assunto di base. E di lasciarsi andare alle delizie di un reboot o, meglio ancora, all'apparenza dello stesso. Steven Moffat e Mark Gatiss, i geniali scrittori di una delle più popolari serie della storia recente della BBC, concentrano i loro sforzi in 90 minuti destinati a saziare le aspettative dei fan, a intrattenere e al contempo a non dire nulla di significativo per gli sviluppi della serie stessa. Portare a casa un successo in condizioni simili è compito meno agevole del previsto, pur contando sulla presenza di Benedict Cumberbatch e Martin Freeman.
D'altronde, eliminato quel che è impossibile, resta - per quanto poco probabile - la soluzione, direbbe Sherlock. E considerato che lo Sherlock di Cumberbatch è l'anti-eroe per eccellenza, destinato a giocare con una tradizione ingombrante, adattandola alla contemporaneità e modellandola con la giusta dose di ironia, riportare tutto indietro significa automaticamente rinunciare a tutto ciò. Addio messaggi sms visualizzati sullo schermo - all'epoca un elemento di innovazione non trascurabile - benvenuto alla classicità del whodunit. Non appena il 221B di Baker Street ritorna quello cristallizzato nell'immaginario collettivo e Holmes indossa il tradizionale copricapo, riecco il personaggio di Conan Doyle in ogni sua sfumatura, alle prese con un classico caso di ghost story per creduloni da smascherare. Ma nel perfetto impianto di ricostruzione di Moffat e Gatiss - quasi una dimostrazione che i due potrebbero scrivere uno spin-off sullo Sherlock tradizionale in un amen - emerge qualche elemento di apparente anacronismo, qualche minuscola e calcolatissima crepa, che apre al più inatteso, ma narrativamente prevedibile, dei colpi di scena.
Dopo novanta minuti di ritmo forsennato, dialoghi impagabili e contorsioni cerebrali, si resta - ma lo si sapeva già da principio - a mani vuote da un punto di vista di continuity seriale. Ma lo scopo de L'abominevole sposa non era questo, era da un lato l'esercizio di smontaggio e ricomposizione di un meccanismo ben congegnato, alla stregua di un cubo di Rubik (o di un enigma di Holmes) e dall'altro una pausa di intrattenimento per giocare con i temi che da sempre accompagnano il personaggio, osservandoli da un'altra angolazione. Con un elemento di indubbia innovazione nell'esplicito accento posto sulla questione gender: mai come ne L'abominevole sposa i dialoghi tra Holmes e Watson o le comparsate di Moriarty affrontano di petto l'ambiguità insita nelle loro relazioni bromance e nella particolare misoginia di Holmes. E mai come qui il femminino, pur con i limiti del caso, ha la sua occasione di riscatto in "una guerra che [gli uomini] devono perdere".
A parte qualche doverosa concessione al cosiddetto fan service, a vantaggio di spettatori destinati a un'attesa ancora lunga prima della quarta stagione dello show, era difficile chiedere più di questo ai creatori di Sherlock. Ora l'impresa sarà abituarsi a non rivedere Cumberbatch e Freeman negli immortali panni vittoriani di Holmes e Watson: un effetto collaterale tutt'altro che sgradito e ampiamente previsto.

 
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A good american

Post n°14579 pubblicato il 24 Agosto 2018 da Ladridicinema
 

William Edward Binney è un critto-matematico, decodificatore, analista dell'intelligence ed ex Direttore Tecnico della National Security Agency degli Stati Uniti. Dopo la fine della guerra fredda, e dopo aver dimostrato le sue geniali capacità interpretative durante la guerra del Vietnam, Bill Binney comincia a sviluppare un programma in grado di tracciare collegamenti precisi tra due miliardi e mezzo di telefoni, che pian piano si allargano a coprire la quasi totalità di individui e mezzi di comunicazione sul globo terrestre. Il programma si chiama Thin Thread e sarebbe stato probabilmente in grado di sventare l'11 settembre, come ha dimostrato un esperimento successivo, subito secretato. Ma poche settimane prima della data fatidica, Thin Thread veniva chiuso, spento, proibito, nonostante la sua efficace funzione di sorveglianza, perché troppo economico. Il software rivale, incapace di gestire la mole di dati in arrivo senza sosta, costava però mille volte di più e dunque offriva ai vertici della NSA l'occasione di domandare al Congresso gli ingenti fondi a cui aspirava per costruire il suo impero. Con buona pace dello scopo militare per cui veniva proposto.

Il regista Friedrich Moser, che di formazione è uno storico, era interessato a capire quando e come l'attività di spionaggio riservata ai nemici militari, o potenziali tali, si è andata traducendo nell'odierna soverglianza del cittadino comune, denunciata, tra gli altri, da Edward Snowden.

Nella figura di Binney, ha trovato molto più di una risposta: ha trovato l'incarnazione del dilemma morale che desiderava esplorare; da qui il titolo del film. Perché poi, alla NSA, sono tornati sui loro passi e hanno ripreso il software progettato da Binney e colleghi, depurandolo però dei filtri che impedivano di raccogliere i dati degli individui non sospetti e delle cifrature che, in condizioni normali, garantivano l'anonimato. La lotta al terrorismo, insomma, non è così prioritaria, mentre lo è, eccome, il controllo globale a fini politici ed economici, con tutti i rischi che comporta. 
Se dal punto di vista visivo e concettuale, A good american non va oltre la formula del reportage, l'importanza dei suoi contenuti è tale che giustificherebbe qualsiasi mezzo, anche più rozzo e ripetitivo; inoltre il thriller è la materia di cui è fatto questo racconto, tanto reale quanto inquietante. Come se non bastasse, l'uscita pubblica di Moser e Binney, per mezzo di questo film, contribuisce niente meno che all'incolumità del secondo, che, prima di parlare apertamente e di farsi conoscere, è apparsa chiaramente minacciata. 
Il punto del lavoro di Moser non è la tecnologia ma, in un certo senso, il patriottismo, quello sano. Il suo ritratto di Bill Binney è quello di un uomo che ha lavorato per trent'anni per proteggere il suo paese e la sua costituzione e si è sentito tradito nei suoi valori più profondi, dalla democrazia alla libertà all'etica del lavoro. Capace come pochi altri di leggere letteralmente tra le righe, Binney sa meglio di tutti che il nostro essere bersaglio di una quantità mai così ingente di informazioni non ci protegge affatto dal pericolo di essere ignominiosamente ingannati attraverso di esse. L'apparenza è trasparente, ma il fondale è più torbido che mai.

 
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