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A good american

Post n°14579 pubblicato il 24 Agosto 2018 da Ladridicinema
 

William Edward Binney è un critto-matematico, decodificatore, analista dell'intelligence ed ex Direttore Tecnico della National Security Agency degli Stati Uniti. Dopo la fine della guerra fredda, e dopo aver dimostrato le sue geniali capacità interpretative durante la guerra del Vietnam, Bill Binney comincia a sviluppare un programma in grado di tracciare collegamenti precisi tra due miliardi e mezzo di telefoni, che pian piano si allargano a coprire la quasi totalità di individui e mezzi di comunicazione sul globo terrestre. Il programma si chiama Thin Thread e sarebbe stato probabilmente in grado di sventare l'11 settembre, come ha dimostrato un esperimento successivo, subito secretato. Ma poche settimane prima della data fatidica, Thin Thread veniva chiuso, spento, proibito, nonostante la sua efficace funzione di sorveglianza, perché troppo economico. Il software rivale, incapace di gestire la mole di dati in arrivo senza sosta, costava però mille volte di più e dunque offriva ai vertici della NSA l'occasione di domandare al Congresso gli ingenti fondi a cui aspirava per costruire il suo impero. Con buona pace dello scopo militare per cui veniva proposto.

Il regista Friedrich Moser, che di formazione è uno storico, era interessato a capire quando e come l'attività di spionaggio riservata ai nemici militari, o potenziali tali, si è andata traducendo nell'odierna soverglianza del cittadino comune, denunciata, tra gli altri, da Edward Snowden.

Nella figura di Binney, ha trovato molto più di una risposta: ha trovato l'incarnazione del dilemma morale che desiderava esplorare; da qui il titolo del film. Perché poi, alla NSA, sono tornati sui loro passi e hanno ripreso il software progettato da Binney e colleghi, depurandolo però dei filtri che impedivano di raccogliere i dati degli individui non sospetti e delle cifrature che, in condizioni normali, garantivano l'anonimato. La lotta al terrorismo, insomma, non è così prioritaria, mentre lo è, eccome, il controllo globale a fini politici ed economici, con tutti i rischi che comporta. 
Se dal punto di vista visivo e concettuale, A good american non va oltre la formula del reportage, l'importanza dei suoi contenuti è tale che giustificherebbe qualsiasi mezzo, anche più rozzo e ripetitivo; inoltre il thriller è la materia di cui è fatto questo racconto, tanto reale quanto inquietante. Come se non bastasse, l'uscita pubblica di Moser e Binney, per mezzo di questo film, contribuisce niente meno che all'incolumità del secondo, che, prima di parlare apertamente e di farsi conoscere, è apparsa chiaramente minacciata. 
Il punto del lavoro di Moser non è la tecnologia ma, in un certo senso, il patriottismo, quello sano. Il suo ritratto di Bill Binney è quello di un uomo che ha lavorato per trent'anni per proteggere il suo paese e la sua costituzione e si è sentito tradito nei suoi valori più profondi, dalla democrazia alla libertà all'etica del lavoro. Capace come pochi altri di leggere letteralmente tra le righe, Binney sa meglio di tutti che il nostro essere bersaglio di una quantità mai così ingente di informazioni non ci protegge affatto dal pericolo di essere ignominiosamente ingannati attraverso di esse. L'apparenza è trasparente, ma il fondale è più torbido che mai.

 
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