Creato da: Ombra_che_Clona il 01/05/2006
Io, sono l'ombra della notte che con l'aiuto delle tenebre....... verrò a frugare nelle vostre stanze, tra i vostri segreti........... prendendo in prestito i vostri pensieri più intimi.................... Sono in giro in cerca di fonti prelibate per dissetarmi............. Non cercatemi..... sarò io a trovare voi!!! .........................
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liberante

Post n°1 pubblicato il 07 Maggio 2006 da Ombra_che_Clona
Foto di Ombra_che_Clona

Il mio primo clone... mi ha regalato una moltitudine di emozioni, è un breve racconto, uno spaccato di vita che per gustarne l'immenso piacere... bisogna assaporarlo goccia a goccia, come un calice di nettare prelibato!!!  SalutiOmbra

Le due meno venti. Notte.                       (uno)

Le due meno venti.
Notte. La grande vetrata guardava sul piccolo giardino dove l’ulivo disegnava fili d’ombra alla luce incerta della luna.
Notte. Il cielo era limpido, pulito, sembrava quasi che il freddo dell’inverno avesse lavato l’aria e le stelle più brillanti di quelle dell’estate pungessero come spilli.

Notte. La luna piena, bassa sull’orizzonte creava una striscia sul mare e sul porto come la strada bavosa di una lumaca.
Notte. Teresa in piedi dietro alla grande vetrata si lasciava bagnare da quella luce immobile e immobile lei stessa.
Le braccia abbandonate lungo i fianchi. Le gambe leggermente divaricate sostenevano equamente il peso del corpo. Le sembrava che i suoi pensieri si scaricassero a terra attraverso i piedi scalzi piantati sul pavimento di marmo rosa.
Pensava che se il pavimento fosse stato di legno come era nella casa della sua infanzia non avrebbe sentito il gelo salire sulle gambe.
Stava ferma a considerare quel flusso continuo di pensieri che scendevano a terra e di freddo che ne risaliva. Lo avvertiva arrampicarsi dalla caviglia sul polpaccio e poi la coscia la pancia e fermarsi nello stomaco.
Un boccone di cibo freddo mal digerito. La camicia da notte non la riparava che anzi lasciava passare gelidi aliti e la pelle si raffreddava di brividi improvvisi.
Guardava fuori dalla grande vetrata il piccolo giardino dove tutto le era talmente noto da renderlo invisibile.
Era una notte strana.
Se lo sentiva nella macchia di dolore nascosta in qualche parte del suo corpo che se solo avesse saputo dove, avrebbe potuto lavarla via con una spugna ruvida e del sapone da bucato.

Ne sentiva l’odore del sapone da bucato, quello che la Linda usava per lavare i panni nell’acquaio di granito grigio della cucina.
Lei era sotto il tavolo a giocare con matite e pezzetti di carta da colorare per farne personaggi di storie che duravano tutto il pomeriggio e il pomeriggio del giorno dopo.
Era bambina di otto nove anni e il grande tavolo col ripiano di marmo scheggiato era la sua stanza da gioco preferita.
Una stanza a due piani.
Il sopra era una conquista, perché doveva aspettare che nessuno lo usasse per pulire verdure, impastare, stirare, rammendare. Era la piazza del paese di re e regine, fate e orchi, cavalieri e draghi. La foresta incantata degli gnomi e degli elfi. Il castello della maga delle nebbie.
Il sotto era la caverna dei lupi che la tenevano al caldo nel loro branco. Il sotterraneo umido e oscuro del tesoro nascosto. La capanna di paglia dei pastori. La casa in riva al mare dove la sirenetta veniva al tramonto a cantare.
La Linda faceva finta di non vederla e con la sua voce ruvida e il dialetto la chiamava che chissà dove si è nascosta quella “benedeta putela” e poi la abbrancava e la sollevava in alto ridendo e rideva anche lei annusando l’odore di candeggina e sapone delle mani di quel donnone alta come un uomo alto e grossa altrettanto e forte che mamma diceva che con quella forza la Linda avrebbe potuto spostare l’Arena e rimetterla a posto.
Il pavimento in cucina non era di legno, ma di piastrelle grigie con venature nere.
Le ricordava bene perché le venature erano le strade dei suoi mondi inventati e anche i fiumi e le valli. Dove il grigio era più scuro erano foreste montagne e dove più chiaro erano pianure e paludi laghi mari altipiani.
Il pavimento di legno chiaro e lucido era in tutto il resto della casa. Profumava di cera ed era caldo e morbido. Levigato e nitido. Aperto e spazioso, luminoso come se ci fosse sempre il sole.

Guardava fuori dalla grande vetrata nella notte.

Le due meno venti. Notte.                       (due)

Fuori era buio ma la stanza alle sue spalle era rischiarata da quel chiarore lattiginoso che illuminava senza fare luce. Sollevò le mani con gesto improvviso e le guardò con attenzione mentre le apriva distendendo le dita come per toccare il vetro ma solo sfiorandolo. Emanava freddo e rabbrividì.
Quella notte di sonno evitato era ricordo.
Non sentiva rumori intorno a lei ma dentro era urlo e grido e parole fitte come se stesse parlando.

Non era ancora inverno quella mattina di troppi anni prima quando aveva tredici anni.
Era fine ottobre. Quasi freddo inverno e pioveva pioggia sottile e grigia.
Era a casa da scuola da qualche giorno perché aveva mal di gola.
Mamma era sempre così apprensiva sulla sua salute che il minimo accenno ad un qualunque malessere scatenava telefonate al dottore e stai a casa che se no ti ammali di più.
Lei si faceva coccolare e stare a letto sotto le coperte a far finta di dormire era un gioco sempre diverso.
Quando era malata mamma andava a lavorare solo per poche ore e poi stava con lei a giocare e raccontare storie.
Era brava mamma ad inventare favole e la sua voce era come la carezza nei suoi capelli. 

Si passò una mano tra i capelli come per ritrovare la sensazione di calma e protezione che la carezza di mamma le dava.
Socchiuse gli occhi al pensiero molesto che se ci fosse stato ancora papà non avrebbe avuto tutte quelle attenzioni. Papà era morto quando lei aveva sette anni. Papà di cui non ricordava quasi nulla.
Quasi.
Ricordava di più mamma che alla messa della domenica piangeva lacrime silenziose pensando che lei non la vedesse.
Strinse i pugni a quel ricordo. La chiesa vicino al mare delle vacanze estive odorava di incenso e le pizzicava il naso. Il profilo di mamma disegnato nella luce obliqua delle vetrate colorate e le lacrime che scendevano sulla guancia senza singhiozzi in silenzio. Allora non capiva. Sapeva solo che prendendola per mano mamma avrebbe sorriso. 

Quella mattina di fine ottobre era in cucina e la Linda aveva preparato la colazione. Aveva dormito da loro perché mamma il giorno prima aveva fatto un incidente con la macchina e l’avevano tenuta in ospedale solo per dei controlli ma non ti preoccupare che sta bene e domani vedrai che viene a casa. 

Voltò le spalle alla vetrata e guardò la stanza e gli oggetti, i mobili scuri nell’ombra della luna. Aggrottò la fronte e si chiese per quale motivo scavare fuori dalla memoria quella mattina così lontana, quel dolore così remoto che ormai non era più nemmeno dolore.

Le due meno venti. Notte.                       (fine)

Era in cucina seduta al tavolo davanti alla tazza della colazione ma non mangiava e chiedeva alla Linda portami da mamma che voglio vederla.
La porta di casa non era mai chiusa a chiave e all’improvviso in cucina apparve Lucia, la migliore amica di mamma che senza salutare e con voce troppo alta povera bambina adesso sei rimasta proprio da sola che la tua mamma è morta e tu sei proprio sola e l’abbracciava stretta che la soffocava che tu sei proprio sola che tu sei proprio sola. Non le era simpatica Lucia e non le piaceva che l’abbracciasse e quella mattina si divincolò da quell’affetto sgradevole e si rifugiò nelle forti braccia della Linda non è vero portami da mamma dimmi che non è vero voglio andare a vedere mamma mi metto le scarpe portami subito da mamma.
Teresa non aveva pianto quella mattina di fine ottobre.
Non aveva pianto nemmeno quando aveva visto mamma nel bianco dell’ospedale il viso gonfio e livido che non era lei aveva pensato. Mamma aveva il viso sottile e pallido non quell’impasto di sangue raggrumato e ferite e quella fascia bianca intorno alla faccia per tenere chiusa la bocca che non era labbra e sorrisi e parole ma un livido viola.
Aveva urlato la rabbia dei suoi tredici anni ai parenti in lacrime perché non me lo avete detto ieri perché non l’ho vista viva perché non ha visto me come ultima cosa prima di morire perché non mi ha raccontato cosa sarebbe successo dopo perché non mi avete lasciato parlare con lei perché non ho potuto salutarla.
Non aveva pianto al funerale tra l’odore di incenso e la paura della pietà degli altri e quella viscida sensazione di diversità che da quel momento sarebbe stata davvero diversa dalle altre che avevano i genitori.
Non aveva pianto quando sua zia l’aveva portata via dalla casa con i pavimenti di legno chiaro, dal tavolo della cucina, dalla Linda che piangeva che la mia “putela” non deve piangere e ci vediamo presto e ti voglio tanto bene e la tua mamma è lassù che ti guarda.
Non aveva pianto quando aveva sentito quella colpa insediarsi nel suo dolore più forte del dolore. Non era vero che aveva mal di gola. Si era inventata l’inesistente malanno per stare a casa perché non aveva voglia di andare a scuola ed era stata punita per la menzogna. Mamma era morta per colpa sua. Mamma non tornava a casa a mangiare a mezzogiorno quando lei era a scuola e quel giorno era tornata per pranzare con la sua bambina e aveva fatto l’incidente.
Quindi la colpa era sua. 

Si voltò di nuovo verso la vetrata. La luna stava appoggiata sull’orizzonte ipotetico tra mare e cielo. Teresa piangeva tutto quello che non aveva pianto quella mattina di ottobre. Era molto tempo che non rivisitava quel senso di colpa opprimente e lo sentiva mordere esattamente come quarantanni prima.
Aveva freddo.
Si asciugò col dorso delle mani le lacrime e pensò che era un bell’alibi piangere per quella morte persa in un tempo lontano che nemmeno sapeva se era finzione o ricordo e non per i fallimenti del suo presente.
Voltò le spalle alla grande vetrata e con lenti passi si avvicinò al letto e si sdraiò accoccolandosi sotto il caldo del piumino azzurro.
Guardò ancora fuori dalla vetrata che vedeva solo il cielo e gli spilli delle stelle e la luce incerta della luna.
Chiuse gli occhi e cercò un sonno silenzioso.

liberante

 
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