Creato da parolelente il 26/01/2010
Parole per dire - irene pizzimenti - (Tutti i diritti riservati-Riproduzioni vietate)-
 

 

Lucio Dalla. "Futura"

 La sera dell'ultimo concerto.

Le Rondini
di Lucio Dalla

Vorrei entrare dentro i fili di una radio
E volare sopra i tetti delle città
Incontrare le espressioni dialettali
Mescolarmi con l'odore del caffè
Fermarmi sul naso dei vecchi mentre
Leggono i giornali
E con la polvere dei sogni volare e volare
Al fresco delle stelle, anche più in là
Coro :
Sogni, tu sogni nel mare dei sogni.
Vorrei girare il cielo come le rondini
E ogni tanto fermarmi qua e là
Aver il nido sotto i tetti al fresco dei portici
E come loro quando è la sera chiudere
gli occhi con semplicità.
Vorrei seguire ogni battito del mio cuore
Per capire cosa succede dentro
e cos'è che lo muove
Da dove viene ogni tanto questo
strano dolore
Vorrei capire insomma che cos'è l'amore
Dov'è che si prende, dov'è che si dà
Coro :
Sogni, tu sogni nel cielo dei sogni

 

 

 Francoise Hardy

- Des ronds dans l'eau-

 

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'Toc - Toc' ...
Ascolta ....
bussano! dai
vai ad aprire ....
sn i miei auguri ... falli
entrare e poi
chiudi la porta
... tienili cn te sempre
son fatti col cuore!

Buon Natale

Perché se un bimbo
resta senza niente,
anche uno solo, piccolo,
che piangere non si sente,
Natale è tutto sbagliato..

 

 

 

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« Giovanni FalconeI silenzi di una donna »

Uomini veri - Una pagina di Manfredi Borsellino dal libro: “Era d’estate” di Roberto Puglisi e Alessandra Turrisi

Post n°496 pubblicato il 06 Maggio 2013 da parolelente

di MANFREDI BORSELLINO

 

 

 

Il primo pomeriggio di quel 23 maggio studiavo a casa dei miei genitori,

preparavo l'esame di diritto commerciale, ero esattamente allo

"zenit" del mio percorso universitario. Mio padre era andato,

da solo e a piedi, eludendo come solo lui sapeva fare i

ragazzi della scorta, dal barbiere Paolo Biondo, nella via

Zandonai, dove nel bel mezzo del "taglio" fu raggiunto dalla

telefonata di un collega che gli comunicava dell'attentato

a Giovanni Falcone lungo l'autostrada Palermo-Punta Raisi.

Ricordo bene che mio padre, ancora con tracce di schiuma

da barba sul viso, avendo dimenticato le chiavi di casa bussò

alla porta mentre io ero già pietrificato innanzi la televisione

che in diretta trasmetteva le prime notizie sull'accaduto.

Aprii la porta ad un uomo sconvolto, non ebbi il coraggio

di chiedergli nulla né lui proferì parola. Si cambiò e

raccomandandomi di non allontanarmi da casa si precipitò,

non ricordo se accompagnato da qualcuno o guidando lui

stesso la macchina di servizio, nell'ospedale dove prima

Giovanni Falcone, poi Francesca Morvillo, gli sarebbero

spirati tra le braccia.


Quel giorno per me e per tutta la mia famiglia segnò un

momento di non ritornoEra l'inizio della fine di nostro padre che

poco a poco, giorno dopo giorno, fino a quel tragico 19 luglio,

salvo rari momenti, non sarebbe stato più lo stesso, quell'uomo

dissacrante e sempre pronto a non prendersi sul serio che tutti

conoscevamo.

Ho iniziato a piangere la morte di mio padre con lui accanto

mentre vegliavamo la salma di Falcone nella camera ardente

allestita all'interno del Palazzo di Giustizia. Non potrò mai

dimenticare che quel giorno piangevo la scomparsa di un

collega ed amico fraterno di mio padre ma in realtà è come se con

largo anticipo stessi già piangendo la sua.

Dal 23 maggio al 19 luglio divennero assai ricorrenti i sogni di

attentati e scene di guerra nella mia città ma la mattina rimuovevo

tutto, come se questi incubi non mi riguardassero e soprattutto

non riguardassero mio padre, che invece nel mio subconscio

era la vittima.

Dopo la strage di Capaci, eccetto che nei giorni immediatamente

successivi, proseguii i miei studi, sostenendo gli esami di diritto

commerciale, scienze delle finanze, diritto tributario e diritto privato

dell'economia. In mio padre avvertivo un graduale distacco, lo

stesso che avrebbero percepito le mie sorelle, ma lo attribuivo

(e giustificavo) al carico di lavoro e di preoccupazioni che lo

assalivano in quei giorni. Solo dopo la sua morte seppi da padre

Cesare Rattoballi che era un distacco voluto, calcolato, perché

gradualmente, e quindi senza particolari traumi, noi figli ci

abituassimo alla sua assenza e ci trovassimo un giorno in

qualche modo "preparati" qualora a lui fosse toccato lo stesso

destino dell'amico e collega Giovanni.

La mattina del 19 luglio, complice il fatto che si trattava di una

domenica ed ero oramai libero da impegni universitari, mi alzai

abbastanza tardi, perlomeno rispetto all'orario in cui solitamente

si alzava mio padre che amava dire che si alzava ogni giorno

(compresa la domenica) alle 5 del mattino per "fottere" il mondo

con due ore di anticipo. In quei giorni di luglio erano nostri ospiti,

come d'altra parte ogni estate, dei nostri zii con la loro unica figlia,

Silvia, ed era proprio con lei che mio padre di buon mattino ci aveva

anticipati nel recarsi a Villagrazia di Carini dove si trova la residenza

estiva dei miei nonni materni e dove, nella villa accanto alla nostra,

ci aveva invitati a pranzo il professore "Pippo" Tricoli, titolare della

cattedra di Storia contemporanea dell'Università di Palermo e storico

esponente dell'Msi siciliano, un uomo di grande spessore culturale

ed umano con la cui famiglia condividevamo ogni anno spensierate

stagioni estive.

Mio padre, in verità, tentò di scuotermi dalla mia "loffia" domenicale

tradendo un certo desiderio di "fare strada" insieme, ma non ci riuscì.

L'avremmo raggiunto successivamente insieme agli zii ed a mia madre.

Mia sorella Lucia sarebbe stata impegnata tutto il giorno a ripassare

una materia universitaria di cui avrebbe dovuto sostenere il relativo

esame il giorno successivo (cosa che fece!) a casa di una sua collega,

mentre Fiammetta, come è noto, era in Thailandia con amici di famiglia

e sarebbe rientrata in Italia solo tre giorni dopo la morte di suo padre.

Non era la prima estate che, per ragioni di sicurezza, rinunciavamo

alle vacanze al mare; ve ne erano state altre come quella dell'85,

quando dopo gli assassini di Montana e Cassarà eravamo stati

"deportati" all'Asinara, o quella dell'anno precedente, nel corso

della quale mio padre era stato destinatario di pesanti minacce

di morte da parte di talune famiglie mafiose del trapanese.


Ma quella era un'estate particolare, rispetto alle precedenti

mio padre ci disse che non era più nelle condizioni di sottrarsi

all'apparato di sicurezza cui, soprattutto dolo la morte di Falcone,

lo avevano sottoposto, e di riflesso non avrebbe potuto garantire

a noi figli ed a mia madre quella libertà di movimento che negli anni

precedenti era riuscito ad assicurarci.

Così quell'estate la villa dei nonni materni, nella quale avevamo

trascorso sin dalla nostra nascita forse i momenti più belli e

spensierati, era rimasta chiusa. Troppo "esposta" per la sua

adiacenza all'autostrada per rendere possibile un'adeguata

protezione di chi vi dimorava.

Ricordo una bellissima giornata, quando arrivai mio padre si era

appena allontanato con la barchetta di un suo amico per quello

che sarebbe stato l'ultimo bagno nel "suo" mare e non posso

dimenticare i ragazzi della sua scorta, gli stessi di via D'Amelio,

sulla spiaggia a seguire mio padre con lo sguardo e a godersi

quel sole e quel mare. Anche il pranzo in casa Tricoli fu un

momento piacevole per tutti, era un tipico pranzo palermitano

a base di panelle, crocché, arancine e quanto di più pesante la

cucina siciliana possa contemplare, insomma per stomaci forti.

Ricordo che in Tv vi erano le immagini del Tour de France ma

mio padre, sebbene fosse un grande appassionato di ciclismo,

dopo il pranzo, nel corso del quale non si era risparmiato nel

"tenere comizio" come suo solito, decise di appisolarsi in una

camera della nostra villa. In realtà non dormì nemmeno un minuto,

trovammo sul portacenere accanto al letto un cumulo di cicche

di sigarette che lasciava poco spazio all'immaginazione.

Dopo quello che fu tutto fuorché un riposo pomeridiano mio

padre raccolse i suoi effetti, compreso il costume da bagno

(restituitoci ancora bagnato dopo l'eccidio) e l'agenda rossa

della quale tanto si sarebbe parlato negli anni successivi, e dopo

avere salutato tutti si diresse verso la sua macchina parcheggiata

sul piazzale limitrofo le ville insieme a quelle della scorta.

Mia madre lo salutò sull'uscio della villa del professore

Tricoli, io l'accompagnai portandogli la borsa sino alla macchina,

sapevo che aveva l'appuntamento con mia nonna per portarla

dal cardiologo per cui non ebbi bisogno di chiedergli nulla.

Mi sorrise, gli sorrisi, sicuri entrambi che di lì a poche ore ci

saremmo ritrovati a casa a Palermo con gli zii.

Ho realizzato che mio padre non c'era più mentre quel

pomeriggio giocavo a ping pong e vidi passarmi accanto il

volto funereo di mia cugina Silvia, aveva appena appreso

dell'attentato dalla radio. Non so perché ma prima di decidere

il da farsi io e mia madre ci preoccupammo di chiudere la villa.

Quindi, mentre affidavo mia madre ai miei zii ed ai Tricoli, sono

salito sulla moto di un amico d'infanzia che villeggia lì vicino ed

a grande velocità ci recammo in via D'Amelio.

Non vidi mio padre, o meglio i suoi "resti", perché quando giunsi

in via D'Amelio fui riconosciuto dall'allora presidente della Corte

d'Appello, il dottor Carmelo Conti, che volle condurmi presso il

centro di Medicina legale dove poco dopo fui raggiunto da

mia madre e dalla mia nonna paterna.

Seppi successivamente che mia sorella Lucia non solo volle

vedere ciò che era rimasto di mio padre, ma lo volle anche

ricomporre e vestire all'interno della camera mortuaria.

Mia sorella Lucia, la stessa che poche ore dopo la morte del

padre avrebbe sostenuto un esame universitario lasciando

incredula la commissione, ci riferì che nostro padre è morto

sorridendo, sotto i suoi baffi affumicati dalla fuliggine

dell'esplosione ha intravisto il suo solito ghigno, il suo sorriso

di sempre; a differenza di quello che si può pensare mia sorella

ha tratto una grande forza da quell'ultima immagine del padre,

è come se si fossero voluti salutare un'ultima volta.

La mia vita, come d'altra parte quella delle mie sorelle e di

mia madre, è certamente cambiata dopo quel 19 luglio, siamo

cresciuti tutti molto in fretta ed abbiamo capito, da subito,

che dovevamo sottrarci senza "se" e senza "ma" a qualsivoglia

sollecitazione ci pervenisse dal mondo esterno e da quello

mediatico in particolare. Sapevamo che mio padre non

avrebbe gradito che noi ci trasformassimo in "familiari

superstiti di una vittima della mafia", che noi vivessimo

come figli o moglie di ....., desiderava che noi proseguissimo

i nostri studi, ci realizzassimo nel lavoro e nella vita, e gli

dessimo quei nipoti che lui tanto desiderava. A me in particolare

mi chiedeva "Paolino" sin da quando avevo le prime fidanzate,

non oso immaginare la sua gioia se fosse stato con noi il

20 dicembre 2007, quando è nato Paolo Borsellino, il suo primo

e, per il momento, unico nipote maschio.

Oggi vorrei dire a mio padre che la nostra vita è sì cambiata dopo c

he ci ha lasciati ma non nel senso che lui temeva: siamo rimasti

gli stessi che eravamo e che lui ben conosceva, abbiamo percorso

le nostre strade senza "farci largo" con il nostro cognome,

divenuto "pesante" in tutti i sensi, abbiamo costruito le nostre

famiglie cui sono rivolte la maggior parte delle nostre attenzioni

come lui ci ha insegnato, non ci siamo "montati la testa", rischio

purtroppo ricorrente quando si ha la fortuna e l'onore di avere

un padre come lui, insomma siamo rimasti con i piedi per terra.

E vorrei anche dirgli che la mamma dopo essere stata il suo

principale sostegno è stata in questi lunghi anni la nostra forza,

senza di lei tutto sarebbe stato più difficile e molto probabilmente

nessuno di noi tre ce l'avrebbe fatta. Mi piace pensare che oggi

sono quello che sono, ovverosia un dirigente di polizia appassionato

del suo lavoro che nel suo piccolo serve lo Stato ed i propri

concittadini come, in una dimensione ben più grande ed

importante, faceva suo padre, indipendentemente dall'evento

drammatico che mi sono trovato a vivere.

D'altra parte è certo quello che non sarei mai voluto diventare

dopo la morte di mio padre, ovverosia una persona che in un

modo o nell'altro avrebbe "sfruttato" questo rapporto di sangue,

avrebbe "cavalcato" l'evento traendone vantaggi personali non

dovuti, avrebbe ricoperto cariche o assunto incarichi in quanto

figlio di .... o perché di cognome fa Borsellino. (...) Ai miei figli,

ancora troppo piccoli perché possa iniziare a parlargli del nonno,

vorrei farglielo conoscere proprio tramite i suoi insegnamenti,

raccontandogli piccoli ma significativi episodi tramite i quali

trasmettergli i valori portanti della sua vita. Caro papà,

ogni sera prima di addormentarci ti ringraziamo per il dono

più grande, il modo in cui ci hai insegnato a vivere.



Il testo di Manfredi Borsellino è ospitato nel

volume "Era d'estate" edito da Pietro Vittorietti

 
 
 

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