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Il teatro visto da Enrico Fiore

 

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Con Kafka dalla tana alla culla

Post n°459 pubblicato il 07 Luglio 2011 da arieleO
 

In tutta evidenza, l'«animale» che incontriamo nel racconto di Kafka «La tana» - un imprecisato essere perso in un tautologico sproloquio sulla pace del suo rifugio e le difese che appronta contro altrettanto imprecisati nemici - è un parente stretto del Gregor Samsa de «La metamorfosi», ossia un'incarnazione radicale del rifiuto del mondo e della società codificati; e la tana, di conseguenza, è una metafora dello spazio mentale e psichico dell'individuo, in cui risulta possibile soltanto «la gioia che il cervello intelligente ha di se stesso».
   Anche in questo racconto, dunque, si conferma il nodo - nell'opera di Kafka decisivo e onnivoro - della frattura tra le parole e le cose: una frattura per cui le cose - private del Nome - acquistano per l'uomo un'oggettualità giustappunto anonima e, nello stesso tempo, ostile e spietata. Si può richiamare, in proposito, uno dei più esemplari aforismi del grande praghese: «Il mondo interiore può essere solo vissuto ma non descritto».
   Ebbene, direi che - nell'allestimento de «La tana» presentato dal Napoli Teatro Festival Italia nella catacomba di San Gennaro - tutto questo veniva illustrato con una precisione e un'inventiva altrettanto esemplari. Giacché, se Gianni Garrera, autore della drammaturgia, lo sintetizzava nella battuta icastica: «Io e la mia tana siamo una cosa sola», il regista Francesco Saponaro lo sottolineava con una serie d'invenzioni non meno pregnanti e chiarificatrici: in breve, separava, per l'appunto, le parole dalle cose, poiché a tratti sentivamo l'interprete ma non la vedevamo, e quelle parole, per giunta, le devitalizzava letteralmente, imprigionandole (vedi l'uso del seguipersona) in una recita dichiarata.
   Altri due elementi stranianti significativi erano, poi, «Il Titano» di Mahler che l'autore della colonna sonora Daghi Rondanini «svisava» nell'Ambulacrum con le accensioni jazzistiche di Uri Caine e l'eclatante poltrona rossa dello scenografo Lino Fiorito che appariva d'improvviso in uno dei tanti anfratti del labirintico (e affascinante e inquietante insieme) spazio della catacomba. E da quella poltrona l'interprete si trasferiva, al termine, in una grande culla bianca, rannicchiandovisi in posizione fetale. Era, giusto, l'approdo al silenzio, al prima delle parole.
   Infine c'era una splendida Mascia Musy. Travestita dalla barba come la donna scimmia di Ferreri, inesausta come il gocciare d'acque misteriose negli oscuri recessi circostanti, fantasmatica come gli affreschi vaporanti sui muri, per lei non so trovare un elogio migliore del constatare che inverava perfettamente l'affermazione di Benjamin: «Tutta l'opera di Kafka rappresenta un codice di gesti».

                                              Enrico Fiore

(«Il Mattino», 7 luglio 2011)

 
 
 
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