Tutti i personaggi sono visti come clown, e i protagonisti del dramma hanno dei «doppi» costituiti da acrobati. Dunque, Daniele Finzi Pasca - regista dell'allestimento dei «Pagliacci» di Leoncavallo che ha debuttato ieri sera al San Carlo - punta dichiaratamente sulla dimensione circense.
Non si tratta, però, di una scelta di comodo e in qualche modo obbligata, dettata, cioè, dal fatto che Finzi Pasca è stato egli stesso un clown e ha raggiunto la fama come regista del Cirque du Soleil e del Cirque Éloize. Si tratta, invece, di un'idea eccellente, che rimanda, insieme, alle connotazioni strutturali decisive (a cominciare, s'intende, dalla trama) del capolavoro di Leoncavallo e alla sua collocazione storica.
Consideriamo, al riguardo, che i tre tipi canonici di clown sono: il clown-parlatore, il «clown de reprise» (quello incaricato di riempire i vuoti e di rilanciare la rappresentazione) e il clown-augusto (per definizione «l'uomo che prende gli schiaffi»).
Ebbene, questi tre tipi di clown si ritrovano, perfettamente ricalcati, giusto nei tre personaggi principali di «Pagliacci»: rispettivamente in Tonio (protagonista del prologo esplicativo e colui che informa Canio del tradimento da parte della moglie Nedda), in Peppe (colui che non solo disarma Canio, lanciatosi col pugnale su Nedda e sul suo amante Silvio, ma provvede ad annunciare che lo spettacolo sta per iniziare) e appunto in Canio, il marito tradito in questione.
Tengo presenti, per di più, i giudizi assolutamente contrastanti che «Pagliacci» raccolse: a chi parlò di faciloneria, magniloquenza e convenzionalità si oppose un'autorità come Leibowitz, che trovò nella creazione di Leoncavallo un'«opera potente, di un'intensità espressiva eccezionale». E tale ventaglio di pareri difformi riflette la situazione contraddittoria in cui si sviluppò il melodramma verista, stretto fra la maldestra imitazione della già discutibile «gastronomia» wagneriana e la spinta verso la «tranche de vie» cronachistica.
Ora, il modo migliore per neutralizzare una simile dicotomia era proprio quello di scioglierla in una spettacolarità diffusa a tutto campo, che prescindesse, appunto, dalle opzioni ideologiche suddette. Vedi, per esempio, quel palcoscenico trasformato a un certo punto in un vero e proprio pantano. Ma, a parte la fondatissima idea di partenza, ciò che rende preziosa e addirittura fantasmagorica la regia di Finzi Pasca è il «mélange» di figuratività, fantasia, leggerezza e costante variabilità sperimentato nel corso del lavoro col Cirque Éloize.
Insomma, quest'allestimento di «Pagliacci» stende sulla fosca storia d'amore e morte narrata da Leoncavallo un velo di pietà e di speranza: perché se è vero che, quando muore Colombina, muoiono con lei addirittura sette sue «controfigure», la moltiplicazione dell'evento luttuoso viene perfettamente bilanciata dallo spazio concesso ai volteggi sui trapezi e nei cerchi. È la vita che si prende la rivincita. Sicché, ben a ragione, potremmo assumere come epigrafe dell'allestimento sancarliano il sottotitolo di un precedente spettacolo di Finzi Pasca realizzato per l'appunto con il Cirque Éloize e non a caso intitolato «Nomade». Quel sottotitolo suonava: «La nuit, le ciel est plus grand».
Assolutamente giustificati appaiono, quindi, gli applausi, spesso a scena aperta, che alla «prima» sono stati rivolti ai cinque bravissimi protagonisti Kristin Lewis (Nedda), Carl Tanner (Canio), Dario Solari (Tonio), Francesco Marsiglia (Peppe) e Simone Piazzola (Silvio). Accomunati al termine, dalle acclamazioni del pubblico, al direttore d'orchestra Donato Renzetti, al maestro del coro Salvatore Caputo e, ovviamente, al regista e alla sua impareggiabile famiglia di equilibristi e giocolieri sospesi fra il corpo e l'anima.
Enrico Fiore
(«Il Mattino», 18 luglio 2011)
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