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Il teatro visto da Enrico Fiore

 

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La rabbia di Licia Maglietta

Post n°509 pubblicato il 15 Dicembre 2011 da arieleO
 

Con il senno di poi (e cioè ad oltre un mese di distanza dalla mia recensione dello spettacolo «La grande occasione», pubblicata da «Il Mattino» l'11 novembre scorso e il giorno dopo ripresa su questo blog con il post n. 493) Licia Maglietta mi ha scritto una lunga, risentita e alquanto confusa lettera a cui davvero non sarebbe stato il caso di rispondere. Se qui la rendo pubblica e ad essa rispondo, è perché, a suo dire, la Maglietta l'ha inviata anche a «Il Mattino». Ed ecco, allora, che cosa mi ha scritto Licia Maglietta (divido la sua lettera in due parti, perché è troppo lunga rispetto al format del blog) e, a seguire, che cosa non posso esimermi dal ribattere.

                                                    Enrico Fiore  

«Caro Enrico,
ho scelto di scrivere, anziché parlarti per telefono, perché lo scrivere dava anche a me la giusta distanza, che non presuppone la giusta obiettività. Questa volta la tua recensione sul mio spettacolo «La grande occasione» aveva bisogno di una risposta e dunque di un confronto tra artista e critico. Confronto che, ricordo con rimpianto, avveniva con menti illuminate come Giuseppe Bartolucci, e ancora avviene con uomini di intelligenza come Goffredo Fofi e pochi altri critici. Confronto che loro sentivano e sentono come necessità per poter poi comprendere in modo più complesso I nostri punti di partenza e lo svolgersi del lavoro che ne consegue. Ricordo momenti di grande arricchimento per entrambe le parti.
   Per mantenere un certo ordine quindi chiarisco alcuni concetti man mano che rileggo I tuoi.
   Ti ringrazio dell’incipit su Botero che si conclude con «L. M. qualche idea non trascurabile la propone». E quando ringrazio, non lusingo, ma esprimo gratitudine per la possibilità del suddetto confronto tra due menti che ancora elaborano qualcosa.
Quei due piedoni , non-rosei, ma bianco marmo non arrivano da Botero ma sono un preciso ridisegno di un angelo della Cappella Sistina, ritagliato poi al laser e quindi riproposto identico:
UN ANGELO. Ma sono sciocchezze.
   La questione poi della traduzione. Ho scelto la traduzione di Davide Tortorella, perché è ritenuto il migliore traduttore di Bennett da molti intellettuali e soprattutto scelto dallo stesso Bennett. Ma non sono certo qui a doverlo difendere. Amico di Bennett e affine al suo sguardo sulla società è stato in grado di coglierne le più sottili sfumature. Ma le sfumature messe l’una accanto all’altra o mescolate tra loro danno come risultato un quadro che può essere l’opposto di un altro con le medesime sfumature. Torno a questo proposito, per un momento, all’inizio della tua recensione, chiarendo che tutti I narratori di questi MONOLOGHI (6+6 scritti per la televisione della BBC) sono narratori inesperti, raccontano storie del cui contenuto non sono interamente consapevoli, come ci spiega lo stesso Bennett, quindi è un grande errore definire Lesley esibizionista spudorata.
   Quanto spesso, ancora, dovremo sopportare la voce, la penna, il pensiero pesante e obnubilato di un uomo!
   Non è l’intenzione di Bennett. Non è il suo personaggio. Non è il suo racconto.
Il disappunto che aleggia in tutta la sua poetica non è solo rivolto a parti della nostra società ma molto spesso la sua è anche una protesta linguistica e il gergo che spesso vi prospera, caratterizza con molta precisione questi personaggi. Un inciso: di quale «spaccato tipico dell’inghilterra di oggi» parli? Il testo è datato 1987. E già allora Bennett scriveva, tra l’altro, che non era affatto attratto dai temi di attualità, anzi, che l’istinto lo spingeva nella direzione opposta. È obsoleto e per niente pertinente quindi definire Lesley in questo modo.
   Il passo che questa nostra società ha fatto intanto è stato gigantesco e rapido per poi finire nel baratro nel quale siamo, mio caro Enrico. E nel baratro, Lesley, che per me non è solo l’innoqua indomita baldanzosa attricetta ma rappresenta, oggi, suo malgrado, gran parte dei nostri politici, dei nostri giornalisti, la parte cioè di coloro che del proprio sé fanno narcisistica ossessione e bassezza, dicevo in quel baratro quella sera c’era gran parte del pubblico del teatro Delle Palme. Era questa l’intuizione che Bennett aveva avuto nel ‘87!
   E arrivo all’ultima parte della tua recensione dove un dubbio mi assale, mi invade e mi inquieta. Hai mai visto una messa in scena di Bennett, dunque Bennett regista di uno di questi monologhi? Conosci il suo rigore, sai da quali attrici sono stati interpretati questi due personaggi? Nomino Maggie Smith e Julie Walters, per gli altri ti lascio il piacere di scoprirli e di assaporarne la levatura e l’emozione che trasmettono. Quando sono riuscita a mettermi in contatto con lui attraverso amici, il disgusto che ne aveva ricevuto erano appunto le messe in scena, come quella italiana lontanissima dalla sua poetica, la volgare trasposizione fatta dalla nostra italietta televisiva e altre che, in giro per il mondo, diceva, non sempre sono controllabili.
   Fu il punto di partenza nel lavoro con Nicoletta Maragno, «vedi questo? Scordatelo!».

                                        Licia Maglietta - 1

 
 
 
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