IL CRITICO
Deve avere un solo padrone, i lettori (se ne ha) delle sue recensioni. E ha un solo dovere, quello di analizzare lo spettacolo che vede con il massimo di partecipazione, di cultura e d'imparzialità. È questo che cerco di fare io, ormai da circa mezzo secolo: e, se non altro, valga in qualche modo a mettermi la coscienza a posto - nei confronti di me stesso e di quanti hanno la bontà di leggermi - la circostanza che non dirigo festival, non siedo nei consigli di amministrazione di teatri pubblici o privati, non faccio parte della giuria di premi teatrali, non scrivo nei programmi di sala e non insegno nelle cosiddette scuole di teatro.
Sono, in breve, del tutto indipendente, e i giudizi che esprimo, giusti o sbagliati che siano, sono espressi in assoluta buona fede. E a questo punto, fra di loro i teatranti debbono mettersi d'accordo: o io sono il turpe personaggio descritto da Licia Maglietta o sono colui del quale Toni Servillo - sotto la cui direzione la Maglietta ha fatto cose molto più egregie di quelle che ha fatto e fa quando si è diretta e si dirige da sola - dice che è l'unico che a Napoli parla di teatro e ha la competenza per farlo. L'ha detto anche di recente, nel corso della presentazione allo Spazio Libero del volume fotografico di Fabio Donato dedicato per l'appunto a Servillo e al Teatro Studio di Caserta. Quel Servillo e quel Teatro Studio di Caserta dei quali, almeno all'inizio, fui dalle pagine di «Paese Sera» l'unico sostenitore, e - guarda un po' - al fianco di Beppe Bartolucci. E a proposito di Servillo, annoto che la Maglietta e lui si sono esibiti da poco in due situazioni sostanzialmente uguali: la Maglietta, con «La grande occasione», al Delle Palme, un teatro gestito dalla famiglia Mirra, e davanti al pubblico non acculturato di cui lei si lamenta; Servillo, con «Toni Servillo legge Napoli», al Diana, un teatro gestito anch'esso dalla famiglia Mirra, e davanti a un pubblico che io ho definito «innocente».
Ebbene, gli esiti sono stati precisamente opposti. Al Delle Palme, lo ripeto, non c'è stata una sola, dico una sola, risata degna del nome e, invece, c'è stata la fuga continua di non pochi spettatori. Al Diana, l'iniziale smarrimento degli spettatori di fronte a quei testi (parliamo non solo di «'A livella» di Totò ma anche di «Litoranea» di Moscato) e, soprattutto, della maniera assolutamente inedita con cui li proponeva Servillo, quello smarrrimento, dico, s'è a poco a poco tramutato prima in attenzione, poi in interesse e infine in vera e propria passione, con annesse ovazioni finali all'interprete.
È la differenza che corre tra Licia Maglietta e Toni Servillo. E per concludere, giacché sul serio ho perso troppo tempo su una sciocchezza piramidale come la lettera della Licia furiosa, aggiungo che qui ci sono delle regole. Le ricordo, con pazienza, per l'ennesima volta: se il teatrante sale sul palcoscenico di fronte a un pubblico pagante e a un signore, il critico, delegato ad esprimere da tecnico un parere sul suo spettacolo, deve mettere nel conto l'eventualità di un'accoglienza sfavorevole. E quell'accoglienza se la deve tenere. Altrimenti lo spettacolo se lo faccia a casa sua.
Ora, la Maglietta le vuole cambiare, quelle regole? Siamo d'accordissimo, cambiamole. Non mi faccia invitare a vedere i suoi spettacoli. Però, dove la rintraccerà più, la fortuna che, come dice, le hanno portato le mie stroncature?
Enrico Fiore - 2
Inviato da: roberto
il 11/12/2013 alle 16:45
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il 12/11/2013 alle 09:39
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il 16/10/2013 alle 17:14
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